Tesi di Diploma accademico di Dajana Cannizzaro 2015

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MINISTERO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA A.F.A.M. ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI PALERMO

DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO IN PROGETTISTA DI MODA

NATURE DESIGN APPLICAZIONI DELL’ARTE PER LA MODA TESI DI DIPLOMA ACCADEMICO STUDENTESSA DAJANA CANNIZZARO RELATORE PROF. SERGIO PAUSIG A.A. 2014-2015



“Nel paesaggio placido, e soprattutto nella lontana linea dell’orizzonte, l’uomo scorge qualcosa di altrettanto bello della sua stessa natura.” Ralph Waldo Emerson


INDICE INTRODUZIONE

P. 9

CAPITOLO PRIMO Il progetto

P. 11

Alloro Quadrifoglio Matrici Disegni preparatori Prototipi di gioielli di moda Prototipi collier Prototipi di pendenti Elaborati Progettazione e realizzazione abito Mood board Liberty

P. 18 P. 22 P. 25 P. 31 P. 39 P. 53 P. 67 P. 71 P. 101 P. 116 P. 120

CAPITOLO SECONDO Le materie prime: Analisi tecniche e mineralogiche

P. 125

2.1 Materie prime della categoria dei metalli 2.2 Elementi nativi e leghe

P. 126 P. 127

CAPITOLO TERZO Le tecniche: Analisi delle fusioni

P. 148

3.1 Fusione a cera persa 3.2 Fusione a staffa

P. 148 P. 153


CAPITOLO QUARTO Tecniche dell’arte orafa e attrezzature

P. 155

4.1 Modellazione 4.2 Attrezzature e tecniche 4.3 Tecniche di smaltatura a fuoco 4.4 Tipi di smalti 4.5 Incastonatura 4.6 Sistemi di congiunzione 4.7 Chiusure - Fermezze- Clips

P. 156 P. 160 P. 170 P. 174 P. 176 P. 186 P. 191

Sitografia

P. 201



Introduzione L’uomo ha sempre adornato il proprio corpo con monili di diverso genere e di svariate forme, realizzati nei materiali più vari fin dalla sua comparsa sulla terra. Nel corso dei secoli hanno rappresentato l’elemento costante nella vita dell’uomo, nonostante le continue evoluzioni di funzioni e messaggi. In risposta in merito a questo concetto nasce il progetto: “Nature design”e’il titolo, dello studio di tesi che coniuga la conoscenza di alcuni apparati arboreei con la sperimentazione dei materiali della tradizione dell’arte orafa palermitana. Le tecniche di realizzazione e la scelta finale della metodologia creativa hanno costituito la realizzazione di un “Unicum”, ideato per valorizzare la bellezza della natura. Partendo dall’analisi e lo studio delle essenze arboree “ alloro e quadrifoglio”, attraverso la realizzazione di una collezione di disegni a matita, si e passati all’ideazione e realizzazione di alcuni prototipi in paste sintetiche. Da questi manufatti attraverso l’uso di gomme siliconiche e matrici in gesso ho ottenendo dei positivi; per la realizzazione di un prototipo di un gioiello definitivo. Ogni prototipo di gioiello è stato sviluppato nel laboratorio extra curriculare di Design del gioiello Atelab, dopo una sperimentazione si è passati alla realizzazione di oggetti finiti per l’alta moda e per il pret a porter. Una varietà, quella emerge sfogliando questa tesi, che vuole far riflettere su cosa possa essere denominato gioiello, senza cadere nella erronea e ormai anacronistica convinzione che il gioiello sia sinonimo esclusivamente di pietre preziose.



Capitolo Primo progetto


Progetto Il progetto nasce da un’attenta osservazione della natura. “Nature design”e’il titolo, dello studio di tesi che cogniuga la conoscenza di alcuni apparati arboreei con la sperimentazione dei materiali della tradizione dell’arte orafa palermitana. Partendo dall’analisi e lo studio delle essenze arboree “ alloro e quadrifoglio”, attraverso la realizzazione di una collezione di disegni a matita, si e passati all’ideazione e realizzazione di alcuni prototipi in paste sintetiche. Da questi manufatti attraverso l’uso di gomme siliconiche e matrici in gesso caolino 10 x 10 cm , si sono ottenuti dei positivi. La fragilità del gesso, che non ha compatibilità per la colatura di qualsiasi materiale fuso, mi ha stimolato a continuare la ricerca su altri materiali resistenti idonei alla realizzazione di un prototipo di un gioiello definitivo. A seguito di numerosi tentativi quindi, si e giunti alla conclusione che il miglior modo per la realizzazione di un prototipo di gioiello è l’uso esclusivo dell’ottone - visto che si presta all’ottima lavorabilità e modellazione e al costo vivo del materiale. Da questa prima ideazione sono giunta gradualmente alla seconda fase progettuale. Ho ampliato la progettazione estendendola alla realizzazione di altri prototipi in tessuto e per un abito di carta. Ho realizzato dei disegni per la stampa tessile. Simultaneamente, al computer, ho composto delle texture per stampare le stoffe, mediante il programma di grafica con un software di foto ritocco. Infine ho elaborato una serie di figurini di moda, per un prototipo di abito che è stato realizzato in carta bianca. L’abito è impreziosito sia nel bustier che nella gonna da foglie modellate a mano e dorate. Ogni singola foglia è stata colorata in smalto oro sintetico e applicata alla gonna.

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L’uomo ha sempre ornato il proprio corpo con monili già dall’età della pietra, ma l’uso dell’oro come metallo adoperato per forgiare i monili viene fatto risalire al 2500 a.C. con il ritrovo in Mesopotamia di rudimentali gioielli in oro. Tuttavia anche in India nello stesso periodo abbiamo fiorenti civiltà che imparano ad adornarsi con pettorali in oro in quanto le religioni idolatriche ne attribuiscono un valore di forza e ricchezza. In Europa i primi popoli ad utilizzare l’oro sono gli Etruschi che insieme ai Greci, loro intermediari con il mondo mediorientale, danno vita ad una interessante scuola orafa che ancor oggi influenza notevolmente alcuni stili di gioielli. Tuttavia dopo la caduta dell’impero Romano l’uso dell’oro come metallo per realizzare gioielli viene a scomparire per tutto il medioevo per rinascere alla corte dei Medici durante il periodo rinascimentale visto come culmine dell’espressione artistica del 1400. Tuttavia il periodo di massimo fulgore per l’espansione del gioiello arriva con la rivoluzione industriale dell ‘800 sia in Francia che in Inghilterra in quanto vengono realizzate nuove tecniche di lavoro che abbassano i costi di produzione e li rendono più appetibili alle persone, ma anche perché nasce la nuova borghesia che vede nel gioiello un nuovo status sociale. Verso la fine del 1800 in Italia cominciano a svilupparsi piccole aziende che si trasformano da artigiani orafi a produttori qualificati per arrivare ai giorni nostri 14


in cui la maggior parte dei gioielli prodotti, sono realizzati in Italia mantenendo elevati standard qualitativi che riprendono le migliori tradizioni orafe rinascimentali.La rivoluzione francese e quella industriale dell’Ottocento portarono in Europa un benessere generale. Nella società si formano nuovi ceti borghesi e il gioiello diventa il vestito importante per questi nuovi gruppi sociali. Gli artigiani orafi sviluppano nuove tecniche per una produzione più vasta di orecchini e spille utilizzando piccole presse a pedale. Sia in Francia che in Inghilterra saranno realizzate le prime macchine per la produzione di catene in oro, mentre in Germania ed in Italia questo tipo di produzione avverrà solo due secoli dopo. L’Italia vanta primati nell’arte orafa: dal design alla produzione fino all’esportazione. La qualità, la tradizione e la professionalità di quest’antica arte, ha dato all’Italia il primato d’acquisto di gioielli in oro.

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Alloro Laurus nobilis L’alloro (Laurus nobilis L.,1753) è una pianta aromatica appartenente alla famiglia Lauraceae, diffusa nelle zone di clima mediterraneo

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Alloro L’alloro (Laurus nobilis L., 1753) è una pianta aromatica appartenente alla famiglia Lauraceae, diffusa nelle zone di clima mediterraneo. Si presenta, poiché spesso sottoposto a potatura, in forma arbustiva di varie dimensioni ma è un vero e proprio albero alto fino a 10 m, con rami sottili e glabri che formano una densa corona piramidale. È una pianta sempreverde, perenne. Il fusto è eretto, la corteccia verde nerastra. Le foglie, ovate, sono verde scuro, coriacee, lucide nella parte superiore e opache in quella inferiore e molto profumate. L’alloro è una pianta dioica che porta cioè fiori maschili e fiori femminili su piante separate. L’unisessualità è dovuta a fenomeni evolutivi di aborto a partire da fiori inizialmente completi. Nei fiori femminili infatti sono presenti 2-4 staminoidi (cioè residui di stami) non funzionali, analogo fenomeno accade per i maschili, che presentano parti femminili atrofiche (non funzionali ed atrofizzate). I fiori, di colore giallo chiaro, riuniti a formare una infiorescenza ad ombrella, compaiono a primavera. I frutti sono drupe nere e lucide (quando mature) con un solo seme. La impollinazione è prodotta dal vento. Diffuso lungo le zone costiere settentrionali del Mar Mediterraneo, dalla Spagna alla Greciae nell’Asia Minore. In Italia cresce spontaneamente nelle zone centro-meridionali e lungo le coste, mentre nelle regioni settentrionali è coltivato. La diffusione e l’uso ampio che se ne fa nella cucina siciliana hanno portato l’alloro ad essere inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (Mipaaf) come prodotto tipico siciliano. L’ampia diffusione spontanea in condizioni naturali ha fatto individuare uno specifico tipo di macchia: la macchia ad alloro o 18


Lauretum. Si tratta della forma spontanea di associazione vegetale che si stabilisce nelle zone meno aride e più fresche dell’area occupata in generale dalla macchia. Si utilizzano le foglie e se ne possono fare vari usi: in cucina, per aromatizzare carni e pesci, come rimedio casalingo per allontanare letarme dagli armadi (ottimo e più profumato sostituto della canfora), per preparare decotti rinfrescanti e dalle qualità digestive o pediluvi, o trattato con alcool per ricavarne un profumato e aromatico liquore dalle proprietà digestive, stimolanti, antisettiche ed è utile contro tosse e bronchite.[3] Veniva inoltre utilizzato per preservare libri e pergamene e per preparare le classiche coroncine d’alloro. Nella mitologia greco-romana l’alloro era una pianta sacra e simboleggiava la sapienza e la gloria: una corona di alloro cingeva la fronte dei vincitori nei Giochi pitici o Delfici[4] e costituiva il massimo onore per un poeta che diveniva un poeta laureato. Da qui l’accezione figurativa di simbolo della vittoria, della fama, del trionfo e dell’onore. Inoltre questa pianta era sacra ad Apollo poiché Dafne, la ninfa di cui il dio si invaghì, chiese che fosse eliminata la causa dell’invaghimento di Apollo nei suoi confronti, e dunque le fu tolto l’aspetto umano venendo trasformata in Alloro. Apollo a quel punto mise la pianta di Alloro nel suo giardino e giurò di portarne sul suo capo in forma di corone per sempre, e disse che allo stesso modo facessero i Romani durante le sfilate in Campidoglio[5]. Sarebbe stato proprio Apollo, infatti, a rendere questo albero sempreverde. In italia è tradizione far indossare una corona di rami di alloro a tutti i neolaureati.

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Quadrifoglio Trifoglio Irlanda Significato: Il significato simbolico del trifoglio ha la sua popolarità in Iralanda, cosa acquisita intorno al V secolo, periodo nel quale San Patrizio cercava di assoggettare la gente abitante del luogo al cristianesimo. Per ricollegare la Santa Trinità alle credenze antiche, San Patrizio usò il simbolismo della natura del trifoglio poiché era una pianta molto diffusa sulle colline irlandesi stabilendo così un dialogo con gli abitanti di Irlanda di allora, riuscendo a “abbindolare” molti che, più per comodità che per altri motivi di fede, accettarono la nuova religione che sostituì piano piano le vecchie credenze locali. San Patrizio era un fervente credente della religione cristiana e voleva portare la parola di quello che credeva Dio alle genti di Irlanda, uso abilmente i simboli di natura per riuscire nei suoi propositi anche perché la natura era la base delle antiche religioni. Ecco che il trifoglio riuscì con i suoi tre lembi, a rappresentare il Figlio, il Padre e lo Spirito Santo, ma prendendo anche simbolicamente le tre virtù della teologia che si si trovano in Corinzi 13:13 nella Bibbia, ovvero fede, amore e speranza. Sembra che questo modo di insegnare la fede cristiana prese piede tra la comunità, perché fino ad oggi il significato del trifoglio è diventato l’icona di San Patrizio e la sua passione religiosa. Gli antichi celti veneravano il trifoglio per via dei suoi tre lobi, poiché possedevano una comprensione della natura che aveva generato molte credenze basate sulle triadi, così coem si può notare nel Triskellion, la tripla spirale, la triquetra, il marchio del druido e i vari nodi illustrati dagli artisti celti. La triade indicava sia la divinità che il tempo che l’equilibrio tra le varie energie, come la mente, il corpo e lo spirito. A un livello più materiale, i popoli d’Irlanda, videro nel trifoglio una fonte di cibo per il 22


bestiame, molto abbondante su tutto il territorio d’Irlanda per questo il trifoglio acquisì connotazioni di fertilità, abbondanza, stabilità, fecondità per i celti. Il famigerato quadrifoglio è ancora considerato un simbolo di buona fortuna oggi a causa della sua rarità, secondo la tradizione irlandese, ogni foglia sarebbe il simbolo di una caratteristica diversa fortuna, più propriamente: Rispetto, Abbondanza,Amore Salute. Dal punto di vista spirituale, il quadrifoglio può rappresentare gli stessi significati del trifoglio con la quarta foglia che indica l’uomo o l’umanità.

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Matrici Alla base di ogni gioiello vi é un disegno. Sulla base del disegno viene poi creato il modello in cera o qualsiasi altro materiare modellabile, con il quale verrà prodotto lo stampo per la fusione o la matrice per la produzione in serie. Per poter riprodurre più volte il modello desiderato è necessario realizzare dapprima una matrice in un materiale in grado di assicurare un’elevata fedeltà di riproduzione, una buona elasticità, una buona memoria e una lunga durata. A tal scopo viene utilizzato il gesso, che si presenta in polvere bianca e untuosa che al tatto dà una sensazione di umido. Al momento dell’impiego, miscelato con un pò d’aqua stemperata, il gesso riassorbe rapidamente l’acqua con la quale viene mescolato e si indurisce, iniziando la presa in pochi minuti e completandola in meno di un’ora. A presa completata l’impasto di gesso presenta un aumento di volume rispetto alla sua massa iniziale, favorendo una perfetta aderenza alle pareti dello stampo e di conseguenza la fedele riproduzione di matrici anche molto complesse.

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cm 6,8

cm 6,7

cm 3,1

cm 1 cm 6,8 Quadrifoglio in das laccata 6,7 x 7 cm. Quadrifoglio in ottone 6,7 x 7 cm. Disegno progettuale di un pendente.

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Matrici in gesso 10 x 10 cm . Matice in ottone 10 x 10 cm Quadrifoglio in ottone 6,7 xFoglia 7 cm.in ottone 6 x 6 cm Matrice in ottone 10 x 10 cm. Quadrifoglio in ottone 6,7 x 7 cm.

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Matrici realizzate in gesso caolino 10 x 10 cm.

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Matrici realizzate in legno 10 x 10 cm decorati con pasta da brodo e spruzzati in oro.

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Disegni preparatori per una collezione di collier


Disegni collier a matita 21 x 27,9 cm.

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Disegni collier a matita 21 x 27,9 cm.

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Disegno collier di colore oro 21 x 27,9 cm. Disegno collier di colore oro 21 x 30 cm.

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Simulazione dell’argento di un collier 21 x 27,9 cm. Simulazione dell’argento di un collier 21 x 30 cm.

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Prototipi di manufatti di virtuali


C1 Prototipo virtuale di un collier in ottone 28 x 28 cm spessore 4 mm.

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O1 Prototipo virtuale di orecchini in ottone 6 x 6 cm spessore 4 mm.

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C2 Prototipo virtuale di un collier in ottone 25 x 58 cm spessore 4 mm.

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O2 Prototipo virtuale di orecchini in ottone 5 x 5 cm spessore 4 mm.

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C3 Prototipo virtuale di un collier in ottone con incisione con acido idrico 29 x 29 cm spessore 2 mm.

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O3 Prototipo virtuale di orecchini in ottone con incisione con acido idrico 6 x 8 cm spessore 2 mm.

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C4 Prototipo virtuale di un collier in ottone con incisione con acido idrico 29 x 29 cm spessore 2 mm.

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O4 Prototipo virtuale di orecchini in ottone con incisione con acido idrico 7 x 5 cm spessore 2 mm.

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C5 Prototipo virtuale di un collier in ottone con incisione con acido idrico 29 x 60 cm spessore 2 mm.

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O5 Prototipo virtuale di orecchini in ottone con incisione con acido idrico 4 x 8 cm spessore 2 mm.

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C6 Prototipo virtuale di un collier in ottone con incisione con acido idrico 30 x 60 cm spessore 2 mm.

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O6 Prototipo virtuale di orecchini in ottone con incisione con acido idrico 6 x 8 cm spessore 2 mm.

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Prototipi di collier


Prototipi collier specchiati.

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Prototipi collier specchiati.

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Prototipo collier con pendente in ottone.

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Prototipo collier con pendente in ottone.

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Disegno collier con colore sanguigno.

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Disegno collier con colore sanguigno.

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Prototipi di pendenti





Elaborazione di una collezione di gioielli e accessori


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Scheda tecnica e tabella colori

A1. disegno. A. oro pallido. B. rossastro.

A2. pendente 6x6.5 cm. C. giallastro. D. rosso rame.

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E. oro. F. argento.


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Scheda tecnica e tabella colori

A1. disegno.

A2. pendente 6x6.5 cm.

A. oro pallido. B. rossastro.

C. giallastro. D. rosso rame.

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E. oro. F. argento.


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Studio per delle pochette


Plat Anteriore

Posteriore A. larghezza 19 cm B. lunghezza 9 cm

C. lunghezza 12 cm D. larghezza 19 cm

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Cartamodello

A. fodera 14 cm B. fodera 14 cm

C. fodera 18 cm D. tessuto

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E. tessuto F. tessuto


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Plat Anteriore

Posteriore

A. larghezza 19 cm. B. lunghezza 13.5 cm.

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Cartamodello Anteriore

Posteriore

A. fodera 15.5 cm. B. tessuto 19 cm.

C. fodera 15.5 cm. D. tessuto 19 cm.

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Plat Anteriore

Posteriore

A. larghezza 28 cm. B. lunghezza 21 cm.

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Cartamodello Anteriore

Posteriore A. fodera 23 cm. B. fodera 30 cm.

C. tessuto. D. tessuto.

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Plat Anteriore

Posteriore A. larghezza 21.5 cm. B. lunghezza 11 cm.

C. lunghezza 22 cm. D. larghezza 19 cm.

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Cartamodello

fodera 21x 25 fodera pattina 23.5x13

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Progettazione e realizzazione di un abito in carta e tessuto


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Tabella colori A.

B.

Tabella tessuti C.

D.

E.

A. Oro pallido. B. Giallastro.

C. Foglie sintetiche colore oro. D. Carta crespa oro.

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Plat Gonna Anteriore

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Posteriore

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Plat Corpetto Anteriore

Posteriore

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Fianco

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Composizioni sintetica dei rami d’alloro per collier

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Moda e Natura Da sempre Madre Natura è considerata la migliore designer dell’universo, grazie alla capacità di adattamento delle varie specie e forme di vita. La Natura è considerata come modello, misura e guida della progettazione degli artefatti realizzati dall’uomo. La natura è sempre stata al centro della curiosità di molti artisti i quali si sono lasciati andare al canto di questa musa per comprendere e cercare di imitare le forme naturali. La natura, inoltre, può anche rivelarsi estremamente stimolante nel campo della moda. Infatti, la moda in particolare è sempre stata fortemente influenzata dalla natura, come nella scelta dei tessuti, dei modelli, delle forme degli abiti e dei materiali per la realizzazione di accessori. Non è infatti un mistero che da sempre i più grandi stilisti creino un legame tra se stessi e quanto li circonda, perché la moda e la natura flirtano e si condizionano; se una volta la prima guardava alla seconda come fonte d’ispirazione, ora la relazione è bidirezionale, tutto ciò reso ancora più in evidenza dalle collezioni fotografiche dal nome “Moda&Natura” dell’artista russa Liliya Hudyakova, la cui grande peculiarità è proprio quella di comparare gli abiti delle passerelle più acclamate a veri e propri fenomeni naturali. Anche lo stilista Francese Jean paul Gaultier propone sulle passerelle dell’Haute Couture parigina una collezione tutta ispirata a una natura rigogliosa, portata in scena proprio nella sua essenza più vera. E tra abiti e accessori in materiali naturali, ecco spuntare anche handbag e pochette realizzate con foglie di palma intrecciate. Una vera poesia da ammirare! Il messaggio della sfilata di Gaultier vuole essere proprio questo in fondo: la donna deve riscoprire il contatto con la natura esteriore ma anche con quella interiore, ritrovare la vera se stessa.

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Liberty Con il nome di Liberty si intende un vasto movimento artistico che, tra fine Ottocento ed inizi Novecento, interessò soprattutto l’architettura e le arti applicate. Il fenomeno prese nomi diversi a seconda delle nazioni in cui sorse. In Francia prese il nome di «Art Noveau», in Germania il nome di «Jugendstil», in Austria fu denominato «Secessione», in Spagna «Modernismo», in Gran Bretagna <<modern style>>. In Italia ebbe inizialmente il nome di «Floreale», per assumere poi il più noto nome di «Liberty»dal negozio di un commerciante in oggetti orientali a Londra, Arthur Lasenby Liberty. Il Liberty nacque dal rifiuto degli stili storici del passato che nell’architettura di quegli anni fornivano gli elementi di morfologia progettuale. Il Liberty cercò invece ispirazione nella natura e nelle forme vegetali, creando uno stile nuovo, totalmente originale rispetto a quelli allora in voga. Infatti, gli artisti cercarono ispirazione nell’eleganza della natura: motivi floreali, venature delicate, linee curve e morbide, viticci e modanature divennero i tratti distintivi di questo stile che, in Italia, si diffuse durante l’Esposizione di Torino del 1902 e che venne largamente adottato fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale. Nato inizialmente in Belgio, grazie all’architetto Victor Horta, il Liberty si diffuse presto in tutta Europa divenendo in breve lo stile della nuova borghesia in ascesa. Esso si fondò sul concetto di coerenza stilistica e progettuale tra forma e funzione. I centri più importanti dello “Stile del ‘900” furono Torino, Palermo, Firenze, Lucca, Viareggio, Milano, Roma, Emilia Romagna. Nella nostra penisola il Liberty si sviluppa in un paese sostanzialmente pigro e che sembra aver dimenticato le recenti spinte ideologiche e popolari del risorgimento, in una 120


nazione convinta di aver superato tutti i suoi problemi per il solo fatto di essere stata finalmente unita. In questo clima di stasi, tuttavia, va generandosi nel campo artistico, una “minoranza modernista” desiderosa di affacciarsi sul resto d’Europa e che vuole opporsi concretamente alla trita e ritrita mescolanza di stili storici dell’arte “ufficiale”. Questa corrente modernista si muove verso una direzione stilistica, che sfocierà nell’Art Nouveau secondo i criteri già affermatisi nelle altre nazioni europee, e verso una direzione tecnica originata dalle nuove scoperte industriali e da nuove tecniche strutturali, soprattutto nel campo architettonico. Il movimento si affermò definitivamente nel nostro paese dopo l’Esposizione di Torino nel 1902. I promotori del nuovo stile, tutti appartenenti al circolo degli artisti di Torino, furono lo scultore Leonardo Bistolfi, Raimondo D’Aronco architetto e lo scrittore Enrico Thovez. Per la prima volta, dopo lo stile impero, una corrente artistica mostrava delle qualità creative ed innovative spurie del precedente linguaggio impregnato di provincialismo. Nel settore dell’arredamento di interni si distinse il milanese Carlo Bugatti ,le cui creazioni si rifacevano alla cultura dei Mori. Eugenio Quarti, Carlo Zen e non ultimo l’architetto Ernesto Basile.

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Palermo Liberty Non di solo barocco e’ fatta Palermo. C’e’ anche una citta’ modernista che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento scelse l’art-nouveau per realizzare i teatri, le ville e i palazzi di una borghesia che voleva sentirsi all’altezza della vecchia aristocrazia cittadina . Si mostra glorioso negli interni del Teatro Massimo ai quali lavoro’ Ernesto Basile che diresse i lavori dal 1891, anno della morte del padre Giovan Battista Filippo ideatore del progetto iniziale, o nello splendido salone di Villa Igiea affrescato da Ettore De Maria Bergler in una esplosione di fanciulle in fiore tra iris, papaveri e melograni. Nel Villino Florio, sono presenti le caratteristiche essenziali dell’architettura di Ernesto Basile che del liberty palermitano e’ l’esponente principale. E in questo inventatissimo e scenografico edificio, tutto scale, torrette, archi e avancorpi, Basile mostra il suo amore per la cultura gotica e rinascimentale siciliana ma anche un sincero adeguamento alla corrente internazionale modernista. Gli interni, purtroppo distrutti nel 1962 da un incendio, avevano parati, mobili, lampade e scaloni disegnati da Basile e realizzati dalla ditta Golia-Ducrot, uno dei connubi piu’ proficui delle arti applicate del periodo. L’avvio alla stagione liberty palermitana lo aveva comunque dato Giovan Battista Filippo Basile definito piu’ tardi da Ernesto “artista liberissimo e iniziatore di uno stile libero”- nel 1889 con il progetto di Villa Favaloro in Piazza Virgilio. Una linea curva e sinuosa che costruisce e decora nello stesso tempo, una grande varieta’ di soluzioni che non esclude una meditazione sull’arte del passato, l’armonia tra la struttura e l’ornamento che devono esaltarsi a vicenda: e’ questa l’eredita’ che Ernesto riceve dalla leggera e fresca bellezza di Villa Favaloro. La mette in pratica progettando, anni dopo, una torre che amplia la costruzione, 122


coronata da una decorazione di foglie di viti e grappoli d’uva stilizzati. Siamo in pieno clima floreale. Caratteristica dell’arte nuova e’ quella di invadere ogni campo creativo. Dai mobili alle stoffe, dai gioielli ai vetri, dalla porcellana all’argento: tutto si sottomette alle esigenze del nuovo gusto. Così troviamo le vetrate realizzate da Pietro Bevilacqua nella torretta di Villa Caruso progettata da Filippo La Porta, oppure il mosaico che splende sulla tomba della famiglia Raccuglia nel cimitero di Sant’ Orsola, esempio modernista di arte funeraria. Ecco inoltre l’eleganza che si esprime in archi, volute, finte colonnine e capricciose coperture dei chioschi disseminati in città: incantano lo sguardo sia i due che incorniciano la facciata del teatro Massimo - oggi adibiti a tabaccherie - che quello in Piazza Castelnuovo.

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Capitolo secondo Le materie prime: analisi tecniche e mineralogiche


Le materie prime : analisi tecniche e mineralogiche 1. Materie prime della categoria dei metalli 2. Elementi nativi e leghe: - Oro - Argento - Bronzo - Rame - Ottone - Platino - Ghisa 2.1 Materie prime della categoria dei metalli. Minerali: I minerali (dal latino medievale minerale, derivato del francese antico minière, "miniera") sono corpi inorganici (sostanze non prodotte dalla materia vivente) con composizione chimica ben definita, che costituiscono la crosta terrestre e altri corpi celesti. Sono tutti solidi (eccetto il mercurio nativo). Un minerale può essere costituito da un solo elemento chimico, come l'oro (Au), oppure da uno o più elementi legati assieme in un composto chimico semplice, come ad esempio il quarzo (SiO2), da molecole di formula complessa, spesso comprensiva di molecole di acqua di cristallizzazione, come l'idrobasalluminite Al4(SO4)(OH)10•12-36(H2O), o più complessa ancora. Il termine minerale implica non soltanto la composizione chimica, ma anche la struttura cristallina del materiale. Lo studio dei minerali è detto mineralogia. Il minerale è un corpo caratterizzato dall'avere una ben precisa truttura cristallina. A livello atomico i minerali cristallini possiedono un reticolo formato dalla ripetizione di una struttura 126


geometrica detta cella elementare. Un cristallo è un corpo solido a facce piane riconducibile a una determinata figura geometrica. La struttura si riferisce alla disposizione spaziale ordinata a lungo raggio degli atomi nella loro disposizione spaziale ordinata a lungo raggio degli atomi nella loro struttura molecolare. La struttura cristallina influenza notevolmente le proprietà fisiche di un minerale. Per esempio, diamante e grafite hanno la medesima composizione chimica ma le loro differenti strutture cristalline rendono la grafite molto tenera ed il diamante molto duro (è il materiale più duro conosciuto). Per essere classificata come minerale, una sostanza dev’essere solida ed avere una struttura cristallina. Dev’essere anche un corpo solido omogeneo di origine naturale, con una composizione chimica ben definita. Alcune sostanze che non rientrano strettamente nella definizione, sono classificate come mineraloidi. 2.2 Elementi nativi e leghe Gli elementi nativi sono degli elementi chimici che non possono essere composti in elementi più semplici. Rappresentano dal 3 al 4% delle specie. I metalli esistono sotto forma di elementi nativi (costituenti puri) o, più generalmente, di leghe. Essi sono divisi in tre sottoclassi: • metalli nativi: oro nativo (Au), argento nativo (Ag), rame nativo (Cu), platino nativo (Pt); • semi-metalli: bismuto nativo (Bi), antimonio nativo (Sb), arsenico nativo (As); • metalloidi: carbonio nativo (C), zolfo nativo (S).

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2.1 L’oro L’oro, il cui nome deriva dal latino aurum cioè “alba scintillante”, è un metallo malleabile di colore giallo, caratterizzato da un’elevata resistenza alla corrosione. Questa sua peculiarità ne ha fatto un materiale ideale per la coniazione di monete e per la produzione di gioielli. L’oro è usato anche in odontoiatria, in elettronica e per strumenti da laboratorio. L’Oro è presente in un numero limitato di minerali . Sebbene ne siano stati individuati 40, solo l’Oro puro e l’Elettro sono minerali comuni. Dopo questi due il più comune è il composto dell’oro con il tellurio . D’essi, alcuni potrebbero in realtà essere semplicemente varietà di Oro puro, altri sono comunque poco definiti in quanto leghe e la loro composizione non è così certa. A parte i tre sopra citati, gli altri minerali sono poco comuni . Sono stati scoperti altri composti dell’Oro con: Tellurio, Selenio, Antimonio, Cloro, Ferro e Zolfo (probabilmente di origine secondaria).Tracce d’Oro possono essere presenti quali soluzioni solide come sostituiti dell’ argentoto, degli elementi del gruppo del Platino e del Rame nella loro struttura cristallina e anche in qualche metallo puro. Oro puro ed Elettro sono le forme con cui l’Oro si presenta in natura nella maggior parte dei casi. Non c’è una netta distinzione fra i due, infatti l’Elettro è considerato semplicemente una varietà di Oro puro contenente Argento in quantità che vanno dal 18 al 36 %. In minerali in cui il rapporto Oro su Argento è variabile, possono essere presenti sia Oro puro che Elettro. L’Oro puro nella maggior parte dei depositi primari contiene fino al 5 % di Argento. Invece in ambienti ossidati quest’ultimo tende a non essere presente. Le proprietà ottiche dell’Oro puro e dell’Elettro sono simili, sebbene il colore vari da arancione chiaro per l’Oro puro a giallo per l’Elettro e tenda a schiarirsi con l’aggiunta di Argento. Il Rame è simile all’Argento nella tendenza ad associarsi con 128


l’Oro puro. Può essere presente (anche se non così frequente come l’Argento) sia in grande che in piccola quantità e formare nuovi minerali come Cuproaurite o Auricuprite o Tetraauricuprite. Il Mercurio è un altro dei metalli interessanti nello studio dell’Oro. Abbiamo già detto che tende ad amalgamarsi con esso. Inoltre può modificare il risultato delle prove a fuoco e può essere presente anche fino al 20 % nel metallo senza modificarne le proprietà ottiche ne la struttura cristallina. La sua presenza nell’Oro è stata riportata raramente nel passato, specialmente per la difficoltà ad identificarlo. Altri minerali : hanno proprietà ottiche e strutture ben distinte da quelle dell’Oro e dell’Elettro. Quando presenti, i Telluri sono meno del 20 % nel totale dell’Oro, il resto essendo ovviamente Oro ed Elettro. Le rocce: l’Oro di solito è associato con una ganga di quarzo, in cui sono presenti arsenopirite, pirite e calcopirite. Questa è l’associazione più comune fatta per l’Oro anche se non l’unica. Comunque, di solito è in questi agglomerati che è possibile trovare grani d’Oro di dimensioni anche considerevoli. Sebbene non così comuni, praticamente tutti i minerali possono ospitare l’Oro. Di seguito si presentano tutte le rocce ospiti per l’Oro: - Pirite: la pirite è il minerale ospite più comune, semplicemente perché è il minerale solfuro più comune . L’Oro si presenta in tutti i possibili gradi di purezza all’interno della pirite (comunque solo nelle forme di Oro puro ed Elettro). Esiste una pirite chiamata pirite refrattaria . Questo perché l’Oro al suo interno si presenta in particelle di dimensioni microscopiche (meno di 10 mm di diametro ) e totalmente incluso. Il termine “refrattario” è utilizzato in quanto essa resiste a tutti i tentativi (principalmente la macinazione) di liberare l’Oro dalla sua condizione per poter poi essere estratto. - Minerali secondari di Rame: bornite, calcocite, covellite, 129


digenite, djurleite, Rame puro, azurite e malachite. L’Oro si può trovare in tutti questi minerali quando essi sono presenti al posto della calcopirite. Il suo comportamento all’interno di essi è il medesimo che con la pirite . Essendo l’oro un metallo tenero, da solo non può essere impiegato nella fabbricazione di gioielli perché non ne verrebbe garantita la durata. Ecco la ragione per cui è sempre associato ad altri metalli che gli conferiscono la necessaria durezza: le varie combinazioni di oro con altri metalli si chiamano leghe. I metalli più comunemente usati per rendere l’oro lavorabile in gioielleria sono il rame, l’argento, il palladio e pochi altri. La sapiente miscela di oro con altri metalli, fa assumere a quest’ultimo sfumature di colore diverse dall’originario giallo solare, infatti i colori che periodicamente si alternano alla ribalta della moda sono ottenibili mediante opportuni dosaggi nella formulazione della lega: - L’oro verde è composto al 75% d’oro, al 12,5% d’argento e al 12,5% di rame. - L’oro giallo è composto al 75% d’oro, al 12-7% d’argento e al 13-18% da rame. - L’oro rosa è normalmente composto dal 75% d’oro, al 6,5-5% d’argento e al 18,5-20% da rame. - L’oro rosso è composto al 75% d’oro, al 4,5% d’argento e al 20,5% di rame. - L’oro blu è una lega di oro e di ferro. Un trattamento termico ossida gli atomi di ferro sulla superficie dell’oro, e gli dona la colorazione azzurra. - L’oro bianco da gioielleria è composto al 75% da oro, e al 25% da nichel, argento o palladio. Bisogna notare che il termine “oro bianco” è spesso utilizzato per designare l’oro grigio in bigiotteria. L’oro bianco è ricoperto da un fine strato di rodio, che sparisce per usura, con il tempo, ridando un colore giallo all’oro. È una lega inventata dopo la prima guerra mondiale. 130


2.2 Argento L’argento è un metallo di transizione tenero, bianco e lucido; esso è il migliore conduttore di calore ed elettricità fra tutti i metalli, e si trova in natura sia puro che sotto forma di minerale. Si usa nella monetazione, in fotografia e in gioielleria, in cui è protagonista di un’intera branca, l’argenteria, che riguarda coppe, cuccume, vassoi, cornici e posate da tavola. È un metallo nobile conosciuto e usato sin dall’antichità. L’argento puro è un metallo piuttosto tenero, molto duttile e malleabile, tanto da poter essere ridotto in fogli trasparenti alla luce. Fonde a 960,5 ºC e ha un peso specifico di 9,33. Presenta i più alti valori di conducibilità termica ed elettrica, elevato potere riflettente, ottima resistenza alla corrosione in tutti gli ambienti: esposto all’aria contenente idrogeno solforato, anche in bassa concentrazione, l’argento imbrunisce ricoprendosi di un sottile strato di solfuro che lo preserva da ulteriori attacchi. L’argento è presente nella crosta terrestre in piccolissima quantità. Si trova allo stato nativo, generalmente in lega con oro, rame e antimonio, nella zona di cementazione dei minerali d’argento. Concentrazioni economicamente utili si hanno a Copiacó (Cile), Batopilas e Guanajuato (Messico). In Italia è stato osservato nel Sarrabus (Sardegna) e a Montaneve (Trentino-Alto Adige). Per la maggior parte l’argento è però contenuto in minerali quali l’argentite (Ag2S), la clorargirite o “luna cornea” (AgCl); la pirargirite (Ag3SbS3), e la proustite (Ag3AsS3, cosiddetti argenti rossi). È inoltre presente in molti minerali di altri metalli come rame, nichel, cobalto, e specialmente nelle galeneargentifere che comunemente contengono lo 0,1% d’argento. I principali metalli con i quali viene legato sono il rame, che gli conferisce durezza maggiore; lo zinco e il cadmio, che riducono l’appannatura superficiale dovuta all’azione dello zolfo; l’oro, il palladio e il platino per leghe speciali. 131


Per argento 800/000 si intende che su mille parti di metallo, 800 palladio e il platino per leghe specialisono in argento e 200 di lega di rame; allo stesso modo 925/000 designa che su mille parti di metallo, 925 sono in argento e 75 di lega di rame.(L’argento 925/000 viene anche definito Sterling). L’argento 1000/1000, ovvero l’argento allo stato puro, è talmente duttile e malleabile da renderne impossibile la lavorazione e realizzarne quindi oggetti, come ad esempio un candelabro. Per cui, quando ci si trova di fronte a una punzonatura 1000/1000 su un oggetto in argento, si tratta di un manufatto in metallo semplicemente argentato e non d’argento. L’argento 1000 (999/1000) è attualmente in commercio sottoforma di fili e lastrine e viene utilizzato per fare alcune monete con tirature limitate, parti di cavetterie speciali, preparazioni di soluzioni chimiche e anche come componente (si pensi all’argento colloidale ionico nella medicina alternativa).

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2.3 Bronzo Il bronzo essendo una lega, cioè un miscuglio fra due componenti, presenta caratteristiche variabili a seconda della percentuale di essi. Il bronzo è una lega composta da rame con un metallo che può essere alluminio, nichel, berillio o stagno. Nell’uso comune, il termine bronzo identifica la lega tra rame e stagno. Questa lega composta principalmente di rame, viene arricchita con stagno fino all’8-9%, dando luogo a leghe con buone caratteristiche meccaniche e grande resistenza alla corrosione: queste leghe sono ancora lavorabili plasticamente e si possono laminare, estrudere, forgiare, stampare e trafilare. Aumentando ulteriormente il tenore di stagno, la durezza raggiunge livelli tali da consentire solo pezzi ottenuti per fusione, chiamati anche getti. A livello industriale si arriva a produrre bronzi con tenori fino al 30% di stagno. In genere i bronzi contengono sempre elementi aggiunti oltre allo stagno: • Il fosforo disossida e aumenta la durezza; nei bronzi al fosforo vi è un tenore dello 0,4-0,8%. • Il piombo viene aggiunto in tenori compresi tra l’1 al 5%. Esso rimane confinato ai bordi dei grani rendendo così più facile la lavorazione alle macchine utensili. Lo viene zinco usato come disossidante. • Il berillio viene aggiunto per aumentare la durezza. Le leghe a base di rame hanno punto di fusione più basso rispetto all’acciaio, e sono più facilmente prodotte a partire dai loro costituenti. Hanno una densità superiore in media del 10% a quella dell’acciaio, ma tutti i vari tipi di bronzo sono comunque meno duri e meno resistenti di esso.I bronzi vengono usati per numerose applicazioni. Per le monete e le medaglie si usa un contenuto di stagno variabile tra il 3 e l’8 per cento: entro questi margini la resistenza all’usura e alla corrosione si accompagna 133


no ad una discreta coniabilità. Per la fabbricazione di ingranaggi ed organi di trasmissione si usano leghe con stagno dall’8 al 12%. Il bronzo è molto usato dagli scultori per le loro opere, perché molte leghe di bronzo hanno l’insolita e molto utile proprietà di espandersi lievemente poco prima di solidificare, riempiendo ogni minimo vuoto dello stampo che le contiene. Questo permette, nella scultura finita, di rendere perfettamente ogni minimo dettaglio del lavoro dell’artista.

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2.4 Rame deriva dal latino parlato aramen (parola già attestata nel 950) per il tardo aeramen, un derivato della voce latina aes che significa “rame” o “bronzo”, nomi conservati in altre lingue di origine indoeuropea. Il rame è un metallo rosato o rossastro, di conducibilità elettrica e termica elevatissime, superate solo da quelle dell’argento; è molto resistente alla corrosione e non è magnetico. È facilmente lavorabile, estremamente duttile e malleabile, ma non è idoneo a lavorazioni con asportazione di truciolo, perché ha una consistenza piuttosto pastosa; può essere facilmente riciclato e i suoi rottami hanno un alto valore di recupero; si combina con altri metalli a formare numerose leghe metalliche , le più comuni sono il bronzo e l’ottone, rispettivamente con lo stagno e lo zinco; tra le altre, anche i cupronichel e i cuprallumini (detti anche bronzi all’alluminio). Il rame naturale è una miscela dei due isotopi stabili 6329Cu (69,1%) e 6529Cu (30,9%) e si trova in natura allo stato nativo in quantità relativamente abbondanti, in cristalli ad abito cubico o cubottaedrico, di solito molto deformati, associati a costituire aggregati dendritici, oppure in granelli e in masse compatte o cavernose. In Italia si hanno piccole quantità di r. nelle miniere della Toscana (Montecatini) e della Liguria. Di un caratteristico colore rosso se illuminato da luce bianca, ridotto in lamine molto sottili il metallo assume per trasparenza una colorazione verde-blu. Cristallizza nel sistema monometrico. È molto duttile e malleabile sia a freddo sia a caldo, tanto che può essere ridotto in lamine sottilissime; è più tenace del ferro; ottimo conduttore del calore e dell’elettricità, la sua conducibilità è però notevolmente diminuita se in esso sono presenti impurezze, che hanno altresì l’effetto di aumentarne la 135


durezza. Prima di raggiungere la temperatura di fusione (1083 °C) diventa fragile e può essere ridotto in polvere; non può essere gettato in stampi, perché allo stato fuso scioglie gas, che dopo solidificazione formano soffiature nel metallo. Il rame è largamente usato, sia allo stato puro, sia in lega con altri metalli, sia sotto forma di sale. Grazie alle sue caratteristiche fisiche, il rame è un metallo che si presta ottimamente alla lavorazione. La sua malleabilità garantisce la massima espressione artistica, segue morbidamente il movimento delle mani all’opera piegandosi al disegno e agli strumenti dell’artigiano.

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2.5 Ottone Gli ottoni sono leghe di rame (Cu) e zinco (Zn) Bisogna distinguere tra ottoni binari, costituiti da rame e zinco, e ottoni ternari, in cui è presente un terzo elemento chimico caratterizzante la lega o altri ottoni quaternari in cui sono presenti altri elementi chimici. Considerando gli ottoni binari, si parla di fase α quando il contenuto di zinco è inferiore al 36% circa; la struttura cristallina della lega ricalca quella del rame, cioè quella cubica a facce centrate. Questi ottoni hanno eccellente lavorabilità a freddo e buona a caldo. Gli ottoni α-β (dove la fase β è struttura cubica a corpo centrato) hanno un titolo di zinco oscillante tra il 36 e il 45%; sono facilmente lavorabili a caldo. Le leghe con percentuali di Zn superiori al 45% non hanno interesse pratico. La lavorabilità alle macchine utensili delle leghe binarie ramezinco è buona, ma la tenacità provoca la formazione di trucioli molto lunghi; allora si aggiunge del piombo (Pb) che, insolubile ed estraneo alla struttura cristallina, si disperde ai bordi dei grani: così i trucioli diventano corti o addirittura polverosi e gli utensili subiscono un’usura e un riscaldamento minori, con conseguente miglioramento della qualità e della velocità della lavorazione. Gli ottoni al piombo sono denominati anche ottoni secchi. Alla lega possono essere aggiunti altri elementi per ottenere determinate proprietà: • il manganese e lo stagno aumentano la resistenza alla corrosione; • il ferro aumenta il carico di rottura; • l’alluminio aumenta la resistenza alla corrosione e all’abrasione; • l’antimonio e l’arsenico inibiscono la dezincificazione. • Il nichel migliora le caratteristiche meccaniche e la resistenza alla corrosione; 137


• Il silicio serve a disossidare e favorisce la creazione della fase β. L’ottone ha un campo di applicazioni molto vasto. Gli ottoni contenenti dal 10 al 20% di zinco, molto plastici, sono nominati similori, per via della colorazione simile a quella dell’oro. Vengono impiegati in bigiotteria. Gli ottoni che hanno percentuali maggiori di zinco, sopra il 2530%, hanno caratteristiche meccaniche più elevate: vengono usati per parti di oggetti che necessitano resistenza meccanica. Gli ottoni sono adatti per la colata in sabbia e in conchiglia e la pressocolata, che si applica a getti di piccole e medie dimensioni. Le leghe binarie rame-zinco sono adatte anche per le colate in getti: hanno un intervallo di solidificazione ristretto, quindi vi è un pericolo minore di rotture a caldo e porositàdurante il ritiro per solidificazione.

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2.6 Platino il nome deriva dallo spagnolo platina, che a sua volta deriva da plata=argento, e simboleggia gli errori che si facevano in antichità, fino a quando nel 1750 Sir Brownrigg ne diagnosticò la differente composizione; é un metallo che, per le sue caratteristiche, ha visto negli anni aumentare a dismisura il suo valore . Il platino è un metallo ed è l’elemento chimico di numero atomico 78. Il suo simbolo è Pt. È un metallo di transizione, malleabile, duttile (è il metallo più duttile dopo oro e argento) di colore bianco-grigio. Resiste alla corrosione e si trova sia allo stato nativo che in alcuni minerali di nichel e rame. Il platino è usato in gioielleria, nella realizzazione di attrezzi da laboratorio, contatti elettrici, odontoiatria e dispositivi anti-inquinamento delle automobili, per la realizzazione di catalizzatori per l’industria chimica. Il platino puro si presenta simile all’argento; è duttile, malleabile e resistente alla corrosione. Come gli altri metalli della sua famiglia, possiede notevoli capacità catalitiche. La sua resistenza alla corrosione e all’ossidazione lo rende adatto per produzioni di gioielleria. Altri suoi tratti distintivi sono la resistenza alla corrosione chimica, buone proprietà reologiche alle alte temperature e proprietà elettriche stabili. Il platino non si ossidaall’aria nemmeno ad alta temperatura, può però venire corroso dai cianuri, dagli alogeni, dallo zolfo e dagli alcali caustici. Non si scioglie nell’acido cloridrico né nell’acido nitrico, ma si scioglie nella loro miscela nota come acqua regiatrasformandosi in acido cloroplatinico. Produzione: Il platino si trova nella sabbia mescolato con l’oro e con altri 139


metalli preziosi, quindi per poterlo ricavare occorre procedere nel seguente modo: • Attraverso una serie di lavaggi si elimina la sabbia e si suddividono i vari metalli. • Il ricavato, chiamato platino minerale, viene attaccato con acido citrico per separarlo dal ferro e dal rame. • La soluzione viene poi filtrata e il residuo solido trattato con acqua regia, la quale scioglie il platino, l’iridio e il palladiosotto forma di cloruri. • Viene poi aggiunto cloruro di ammonio, che fa precipitare il platino allo stato di cloroplatino di ammonio. • Questa miscela viene poi calcinata ottenendo una massa spugnosa (“spugna di platino”). • La massa spugnosa viene poi fusa in un crogiolo di cenere; a questo punto si ottiene una lega chiamata platiniridio. • Il platino puro viene ottenuto dopo la trasformazione della lega di platiniridio in una miscela di nitrocomposti complessi solubili, che per precipitazione forma il cloro platinato di ammonio. Il platino si trova spesso allo stato nativo oppure in lega con l’iridio (platiniridio). I suoi minerali commercialmente più importanti sono la sperrylite (arseniuro di platino, PtAs2) e la cooperite (solfuro di platino, PtS). Spesso è accompagnato da altri metalli ad esso simili e si trova principalmente nei depositi alluvionali dei fiumi della Colombia, dell’Ontario, dei monti Urali ed in alcuni degli Stati Uniti occidentali. Industrialmente, il platino è un sottoprodotto della lavorazione dei minerali di nichel. Benché il tenore di platino sia mediamente di due parti per milione, le grandi quantità di minerale lavorato rendono l’estrazione del platino conveniente. Il platino in gioielleria Sebbene resti un elemento insostituibile in molti impieghi di 140


natura scientifica e tecnologica, è nella gioielleria che il platino ha trovato la sua grande occasione. Già prima dell’Art Dèco la veloce crescita della domanda fece del platino un metallo sempre più costoso e raro; inoltre tale domanda non poteva essere soddisfatta anche a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, in seguito alla quale il platino fu dichiarato materiale strategico da parte dei paesi belligeranti. Con le oscillazioni dovute alle variazioni della moda, alla disponibilità di materia prima e alle leggi di mercato, il platino ha continuato a ricoprire un ruolo molto importante nella gioielleria del nostro secolo. L’Italia occupa un posto di primissimo piano: a livello europeo, infatti, il nostro paese risulta essere il primo importatore di orologi in platino, mentre sulla scena internazionale è preceduto soltanto dal Giappone e da Hong Kong. Quando si parla di platino, è inevitabile ricorrere ad alcuni aggettivi, illuminanti riguardo alle caratteristiche fondamentali di questo metallo. È raro: Infatti, ogni anno nel mondo vengono estratte circa 130 tonnellate di platino, rispetto alle 3300 tonnellate circa di oro. Attualmente esso proviene in massima parte dal Sud Africa, mentre, dai tempi della scoperta del metallo, la leadership della produzione è andata, nell’ordine, alla Colombia, alla Russia e al Canada. Occorrono 8 settimane e 10 tonnellate di roccia per produrre una singola oncia (31,1 grammi) di platino, mentre si estraggono solo cinque tonnellate d’oro per ottenere la stessa quantità. È puro: I gioielli in platino sono generalmente puri al 95%, a confronto l’oro a 18 carati è puro al 75%. Nessun metallo in gioielleria è utilizzato completamente puro, ma sotto forma di lega. Al contrario il platino, dando luogo a poche leghe, mantiene la sua purezza e non cambia aspetto o colore, conservando la 141


propria brillantezza per anni. Quanto detto sta ad indicare che un oggetto in platino contiene 950 parti di metallo puro e solo 50 di altri metalli in lega; l’oro a 18 carati, invece, contiene 750 parti di oro e 250 parti di altri metalli. È pesante: Il suo peso specifico (21,45 g/cm3) è uno dei più elevati che si conoscano; si consideri che quello dell’oro (19,3 g/cm3)e quello dell’argento (10,5 g/cm3). Un cubo di15 cm di platino pesa 75 Kg, più o meno il peso di una persona. È inossidabile: Il platino risulta praticamente inattaccabile dalla quasi totalità degli acidi. E’ per questo motivo che, fin dal secolo scorso, il metallo viene utilizzato nella realizzazione dei bollitori per la concentrazione dell’acido solforico. Inoltre è evidente come una simile caratteristica sia particolarmente apprezzata in gioielleria. È anallergico: Grazie alle sue caratteristiche intrinseche, e alla sua purezza, è tollerato da qualunque tipo di pelle. Per lo stesso motivo viene largamente usato in campo medico. È eterno: Il platino non si consuma e offre garanzie di sicurezza per l’incastonatura delle pietre preziose.

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2.7 Ghisa La ghisa è unalega ferro-carbonio (o lega ferrosa) con tenore di carbonio relativamente alto ottenuta per riduzione o comunque trattamento a caldo dei minerali di ferro. La ghisa fonde a circa 1200 °C. La produzione della ghisa avviene generalmente per riduzione degli ossidi di ferro mediante combustione di carbon coke a contatto con gli stessi, in apparecchiature chiamate altiforni. Il minerale viene disposto a strati alternati con carbon coke a basso tenore di zolfo; il ferro contenuto nel minerale, quando raggiunge lo stato fuso, cola verso il basso raccogliendosi in appositi contenitori. L’impiego principale della ghisa è quello intermedio nella produzione di acciaio, che si ottiene per decarburazione della ghisa in apparecchiature dette convertitori in cui viene insufflato ossigeno (o aria): questo, combinandosi con il carbonio, ne riduce il tasso nel metallo fuso e viene evacuato come anidride carbonica. Le fusioni in ghisa con materiali di qualità, a motivo di tale notevole fluidità, permettono la realizzazione di forme complesse e dettagli minuti. In passato la fusione della ghisa avveniva esclusivamente in terra; poi si è passati alla fusione in conchiglia; oggi si è arrivati alla colata continua, da cui si ricava la ghisa che è denominata anche ghisa idraulica. Le barre a colata continua, grazie alla loro estrema compattezza ed assoluta assenza di soffiature, si presentano qualitativamente ottime. Il procedimento di colata continua permette di ottenere una barra di profilo costante, accuratamente fusa, ed inoltre le caratteristiche meccaniche risultano nettamente superiori, a parità di lega, a quelle di una tradizionale fusione in terra. Questo tipo di ghisa, come dice il nome, si può usare nella produzione di valvole e componenti idraulici senza il rischio di riscontrare trafilamenti del fluido idraulico a causa delle soffiature. La ghisa fonde a circa 1200 °C. Le caratteristiche che consentono il conveniente 143


uso della ghisa in molte applicazioni sono: • economicità nella produzione; • resistenza all’usura; • buona lavorabilità con macchine utensili; • possibilità di realizzare forme molto complesse mediante semplice fusione; • ottima colabilità. Tipi di ghisa • Ghisa grigia • Ghisa duttile • Ghisa malleabile • Ghisa bianca -La ghisa lamellare o ghisa grigia costituisce la tipologia di ghisa più diffusa ed è prodotta con la fusione di rottame di ghisa e di acciaio, con l’aggiunta di elementi grafitizzanti (C compreso tra il 2.5% e il 4% in peso, Si tra l’1% e il 3% sempre in peso, P). Il silicio è l’elemento grafitizzante per eccellenza. A causa delle lamelle, del silicio e del fosforo, spesso si ha fragilità; per ridurla si inocula il bagno con CaSi, che favorisce la nucleazione eterogenea e quindi la formazione di lamelle corte -Una ghisa duttile è una ghisa in cui la grafite, anziché sotto forma di lamelle, si presenta in noduli a forma di sferoidi. I noduli si trovano in una matrice metallica la cui struttura è funzione della composizione chimica del tipo specifico di ghisa, della velocità di raffreddamento al momento della solidificazione e degli eventuali trattamenti termici successivi. La forma sferoidale della grafite produce una minore concentrazione di tensione rispetto a quella lamellare; inoltre la forma sferica è quella che a parità di volume presenta la minore superficie e la matrice risulta perciò meno danneggiata riuscendo così a sfruttarne meglio le caratteristiche. 144


-La ghisa malleabile , risalente al XVIII secolo, contiene grafite in forma di fiocchi grazie alla decomposizione termica della cementite presente nella ghisa bianca a seguito di un trattamento termico di ricottura ( malleabilizzazione): partendo dalla ghisa bianca non legata, in pezzi di piccolo spessore, il processo termico prevede un riscaldamento a 950 °C per molte ore in modo da favorire la decomposizione: * Fe3C -> 3 Fe + Cg. La formazione di grafite in fiocchi (in matrice ferritica o perlitica) conferisce maggiore snervamento e duttilità, avvicinandosi in questo all’acciaio dolce. Alla ghisa vengono aggiunti elementi di lega per migliorarne alcune proprietà ad esempio un tenore di rame tra lo 0.25 e l’1.25% aumenta la resistenza alla corrosione, mantenendo elevata durezza, carico di rottura e di snervamento e duttilità. La ghisa bianca è una particolare varietà di ghisa che non contiene carbonio grafitico, ma esclusivamente cementite. La ghisa bianca si presenta argentea alla frattura, ha una altissima durezza (fino a 500 Vickers, HV), resistenza all’usura e alla corrosione ma risulta notevolmente fragile e non lavorabile all’utensile, solo per fusione. In prima approssimazione differisce dalla ghisa grigia per composizione e tempo di raffreddamento. Infatti le ghise bianche si ottengono per rapido raffreddamento e, come già detto, contengono solo cementite, mentre le ghise grigie si ottengono per lento raffreddamento e contengono quantità variabili di perlite e grafite e pertanto risultano più tenaci e lavorabili. Per diminuire i tempi di raffreddamento e favorire la formazione di cementite, si utilizzano anime metalliche o inserti metallici raffreddanti nelle comuni forme in sabbia o in terra. Per tale motivo in fonderia viene chiamata anche ghisa in conchiglia. La ghisa bianca viene utilizzata per oggetti che devono resistere all’usura, come ruote di carrelli o cilindri di laminazione.

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Capitolo 3 Le tecniche : analisi delle fusioni


Analisi delle fusioni 1. Fusione a cera persa 2. Fusione a staffa 3.1 Fusione a cera persa La fusione a cera persa è una tecnica scultorea originariamente introdotta nell’età del bronzo e che nei secoli ha conosciuto una notevole fioritura, soprattutto nell’arte greca, romana e nella scultura monumentale. Tecniche base: Esistono due modi di servirsi di questa tecnica: • Modo diretto - Consiste nel creare un modello di cera e utilizzarlo per farne uno stampo di argilla. Praticando due fori sullo stampo, uno in alto e uno in basso si fa uscire la cera scaldandola e si versa del bronzo fuso al suo posto. Se ne ricava un modello identico a quello di cera. • Modo indiretto - Assomiglia al primo metodo, ma il modello di cera è realizzato su di un altro in creta in modo che la statua finale sia vuota all’interno (o meglio, contenga solamente argilla per limitare il peso e la quantità di metallo usata). Storia: La tecnica a cera persa, per la fusione di statue cave in bronzo di grandi dimensioni, era conosciuta fin dall’antichità. Tra gli esempi antichi meglio conservati, realizzati con questa tecnica, ci sono i Bronzi di Riace, di epoca classica. La tecnica passò in disuso durante il medioevo, restando viva solo nell’Impero bizantino. Fusioni in bronzo di piccoli oggetti erano sempre praticate, ma si trattava comunque di opere “piene”, impensabili su grandi dimensioni. Con il Rinascimento, nel quadro del recupero di tutti gli aspetti della civiltà classica, la tecnica venne 148


riprese. La prima statua di grandi dimensioni fusa con la tecnica della cera persa in epoca moderna è il San Giovanni Battista di Lorenzo Ghiberti (1412-1416), che venne prudentemente fatta in più pezzi separati, assemblati in un secondo momento. La tecnica del bronzo aveva innegabili vantaggi rispetto alla pietra, poiché la maggiore coesione del materiale permetteva un atteggiarsi più libero nello spazio dei soggetti senza timori di fratture, ottenendo risultati di maggiore naturalezza e vivacità. La tecnica usata è descritta in vari trattati. Per il Rinascimento è una dettagliata testimonianza il Trattato della scultura di Benvenuto Cellini. La tecnica: Il primo passo da realizzare era un bozzetto in cera in scala, che servisse come guida per il lavoro ed eventualmente si fondeva anche un modellino in bronzo pieno da mostrare alla committenza. Il passo successivo era modellare la statua in creta (armata all’interno per evitare fratture) nelle dimensioni definitive, che veniva detta “anima” e che era poi cotta diventando terracotta. Per il naturale restringimento dovuto alla cottura, il modello in terracotta era leggermente più piccolo del risultato finale, e su questo si stendeva uno spessore di cera che ricreava le dimensioni definitive dell’opera. La modellazione della cera doveva essere particolarmente accurata in tutti i dettagli, poiché è da essa che dipendeva l’aspetto finale della statua. All’”anima” rivestita di cera si applicano quindi una serie di segmenti di tubicini di varie dimensioni, detti sfiatatoi, e dei chiodi come sostegni. Su questa struttura “a porcospino” si stende quindi un altro strato di creta (detta “tonaca” o “camicia” o “forma”), dalla quale andavano lasciate spuntare le buche degli sfiatatoi. Il modello così acconciato veniva di nuovo cotto in forno, a fuoco lento in modo da lasciar sciogliere e colare via, tramite gli 149


sfiatatoi, tutta la cera. Intanto il fuoco trasforma anche la tonaca in terracotta e la presenza dei chiodi di sostegno permette la creazione di un’intercapedine tra “anima” e “tonaca” dove sarà colato il bronzo fuso. Prima di procedere alla gettata finale si riveste il complesso con mattoni, creando la cosiddetta “cappa di fusione”, rinforzata da legature con piastre in ferro. La cappa viene calata in una fossa predisposta sotto le bocche della fornace da cui verrà versato il bronzo fuso. Il bronzo, entrando nell’intercapedine, forma la statua, che ha uno spessore pari a quello della cera eliminata.

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La rifinitura : Avvenuto il getto, e atteso il raffreddamento (uno o due giorni), la statua viene rialzata e liberata dalla cassa e dalla tonaca, e si presenta come irta di tubi in bronzo (dagli sfiatatoi) e chiodi. Per evitare il pericolo di dilatazioni, l’anima in terracotta viene estratta, di solito dal fondo, oppure da apposite aperture che poi devono essere otturate. Eventuali parti rimaste incompiute vanno gettate di nuovo e saldate. Dopo l’eliminazione dei chiodi e degli sfiatatoi la statua poteva apparire, a seconda della lega usata, anche molto grezza, per cui si poteva rendere necessaria una lunga opera di “rinettatura”, che comprendeva la levigazione delle superfici (limatura e lucidatura), l’integrazione delle lacune e l’eliminazione dei difetti di fusione (con l’inserzione dei cosiddetti tasselli), la rifinitura dei dettagli (spesso col bulino e col cesello) e l’eliminazione di tutte le imperfezioni. In alcuni casi era prevista un’operazione finale di patinatura o doratura, che avveniva essenzialmente applicando un sottile strato di un amalgama di mercurio e oro. Riscaldando poi il pezzo il mercurio evaporava, lasciando l’oro depositato. La lega La lega di bronzo è ottenuta solitamente da rame e stagno, le cui rispettive percentuali influenzavano le modalità esecutive e la resa. Il rame era di facile reperimento, malleabile e lavorabile a freddo, ma poco fluido allo stato fuso. Lo stagno era invece fragile, poco malleabile e fluidissimo quando liquido. Una maggiore percentuale di stagno rendeva quindi la lega più fluida e meno malleabile. In epoca romanica si usavano di solito leghe abbondanti di stagno, che fluivano facilmente riempiendo le intercapedini e riproducendo fedelmente il modellato morbido della cera, senza bisogno di rilavorazioni a freddo. Nel Rinascimento la percentuale di stagno era generalmente 151


bassa, per cui i getti risultavano spesso poco fedeli al modello e difettosi per via della difficoltà di scorrimento della lega fusa. Per esempio Lorenzo Ghiberti alla rinettatura delle porte bronzee del Battistero di Firenze dedicò rispettivamente 22 e 23 anni ciascuna con una schiera di assistenti, mentre la pulitura del Perseo di Cellini ne richiese cinque. Il risultato finale era simile a quello delle oreficerie, con profili taglienti e dettagli incisi graficamente. La fusione a cera persa in gioielleria Il metodo di fusione a cera persa, viene tuttora utilizzato nel settore della gioielleria (ma anche nel settore odontotecnico): una riproduzione del gioiello viene realizzata in cera (a mano o mediante apposite macchine a stereolitografia). In seguito vengono aggiunti i canali di entrata/uscita (sempre in cera) e viene realizzato lo stampo in gesso appositamente studiato per questa operazione. Per favorire la perfetta adesione del gesso alle cere e l’eliminazione delle bolle d’aria, il cilindro pieno può essere collocato su un piatto vibrante e quindi sottoposto all’azione del vuoto sotto una campana collegata a una pompa. Questo stampo (che di solito per contenere i costi del gesso, contiene molti oggetti, disposti a “grappolo” intorno a un canale centrale) viene riscaldato in un forno, in modo che la cera (per questa operazione in genere si porta il forno a 200 °C circa) esca dai canali, una volta uscita la cera è possibile colare all’interno dello stampo il metallo fuso. Poi il gesso viene rotto e si ottiene l’oggetto dal quale vanno tolti i canali di entrata/uscita. Il gioiello viene rifinito mediante lucidatura o altre lavorazioni per ottenere il risultato finale.

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Fusione a staffa La fusione a staffa permette il riutilizzo delle matrici: il modello, che deve necessariamente essere in materiale consistente, viene inserito in una “staffa” composta da due cornici accoppiabili in ferro, nella quale viene pressata la terra refrattaria ottenendo la forma in negativo del modello da riprodurre che viene poi rimosso e nell’incavo che si è venuto a formare e tramite i canali di ingresso precedentemente preparati, si getterà il metallo fuso, che andrà a riempire tutti gli spazi vuoti. Questa tecnica è usata soprattutto con modelli a basso rilievo privi di sottosquadro, ma è comunque applicabile anche se con maggiori difficoltà e grande maestria ad altorilievi, eseguendo la formatura creando dei tasselli sempre in terra posizionati e fissati tramite spilli metallici nei punti di sottosquadro. Uno dei sistemi più antichi è la fusione con osso di seppia: questo materiale si comporta infatti come terra refrattaria, mantenendo la forma del modello privo di sottosquadri, senza bruciare immediatamente anche a contatto con l’elevata temperatura del metallo fuso.

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Capitolo quattro Tecniche dell’arte orafa e attrezzature


Tecniche dell’ arte orafa e attrezzature La conoscenza delle tecniche di lavorazione dei metalli è fondamentale per la realizzazione di un gioiello non prodotto in serie. La tecnica in unione alla sapienza millenaria dell’artigiano orafo dà vita e splendore al nudo metallo ottenendo da esso forme ed effetti in grado di valorizzare gemme, coralli, cammei, smalti e quant’altro l’immaginario collettivo del genere umano riesca ad esprimere. 1. Modellazione 5. Incastonatura 2. Attrezzature e tecniche 6. Sistemi di congiunzione 3. Tecniche di smaltatura a fuoco 7. Chiusure – Fermezze - Clips 4. Tipi di smalti 4.1 Modellazione Volendo realizzare un modello direttamente in cera da fusione (per orafi), è possibile utilizzare dei semilavorati in cera dura (immag. 2 dis. A), che si trovano già pronti in commercio sotto forma di blocchi, di lastre di diverso spessore, per oggetti vari e di profilati per gli anelli. Questi ultimi sono disponibili in sezioni tubolari, ellittiche e semitubolari aventi una parte piatta. Per realizzare un anello in cera, distaccare con il seghetto una sezione che possa contenere il volume dell’oggetto (immag. 2 dis. B), portare il foro alla misura desiderata (immag. 2 dis. C) con l’aiuto di una lima mezza tonda, o con il trapano elettrico munito di una fresa cllindrica, o ancora a mano con l’uso di una fresa grande per svasare. Dopo di che segnare le mezzerie lungo tutta la circonferenza del bordo dell’anello (immag. 2 dis. D) in modo da poter riportare in maniera simmetrica il disegno dell’anello (immag. 1 dis. E), segnare poi il centro verticale dell’anello sia nella parte superiore che inferiore del gambo (Assi Y,X,Z vedi “Progetto di un anello” dis. 3 A7 in “18 Kt n. 27”). Una volta fatto 156


questo e controllato bene il tutto, si inizierà a togliere il materiale di contorno “verticale” in eccedenza (immag. 2 dis. F), che non ha niente a che fare con il disegno. Sbozzato il contorno della testata si elimina l’eccedenza laterale sul gambo (immag. 2 dis. G), e controllatane la simmetria si asporterà (immag. 2 dis. H) l’eccedenza dai piani inclinati. In questa fase si possono eliminare quei mezzi spigoli che impediscono il raccordo morbido di tutte le forma evolume in base al disegno. Infine con della carta smeriglio mediamente, si può levigare ulteriormente l’oggetto lisciandolo tutto. Per unire, aggiungere o riparare delle parti rotte, si può adoperare la stecca elettrica per ceristi, che si riscalda tramite una resistenza elettrica oppure la punta di una stecca inmetallo riscaldata alla fiamma; in tutti e due i casi un poco di pratica porterà ad un buon uso del rapporto “calore - cera fusa” con l’attrezzo riscaldato. Nel voler rappresentare i volumi di un disegno è bene partire, le prime volte, da forme semplici e poco complesse. Una volta segnati con la matita sul nostro supporto (immag. 3 A-B-C-D) quelli che sono i contorni dell’oggetto, (se si usa il plexiglass quale supporto si può fissare il disegno sotto di esso e leggerlo in trasparenza), prendere una piccola quantità di pongo (immag. 2 E) e incominciare poi a disporla sul disegno seguendone i contorni (immag. 3 C-D-E) andandolo a riempire verso il centro e cercando di aumentare lo spessore là dove il disegno lo richieda (immag. 3 F-G). Aggiungendo il materiale di volta in volta si verranno a formare dei gradini che andranno levigati (immag. 3 H) con la stecca più adatta, per dimensione e forma. Tenendo sotto controllo le viste laterali e la prospettiva con l’aiuto del disegno (immag. 3 A), si cercherà di dare al modello quel volume studiato nel progetto (immag. 3 H-I). Per ottenere un’esatta copia ci si può aiutare con un compasso a doppie punte riportando dal disegno quelle misure o punti di riferimento che determinano l’immagine del pezzo (immag. 3 L). Con le stecche 157


più grosse si abbozzerà il volume generale mentre con quelle più piccole si cercherà di evidenziare il particolare fino ad usare le punte degli aghi più fini. Adoperando il pongo di due o tre colori diversi, si potrà avere quell’effetto-contrasto ottenuto con materiali differenti (immag. 3 M). Quando si è ormai sicuri delle dimensioni fare attenzione, poichè premendo ed asportando il materiale è facile spostarlo su quello di colore diverso nelle ultime fasi di lavorazione. Volendo aumentare quella che sarà la resa dell’effetto finale dell’oggetto, qualora il progetto lo richieda, si possono aggiungere le pietre; una volta sviluppato tutto il volume nel modo corretto, si deve asportare il materiale sottostante le pietre (immag. 3 N), in ragione dell’altezza della coulasse della pietra (immag.3 O) e del suo perimetro. Fatto questo si può adagiare la pietra nell’assestatura preparata (immag. 3 P). Per oggetti di gioielleria che richiedono solo pietre, una volta disposto il disegno (immag. 4 A) si utilizzano dei bastoncini fini di pongo, dai quali si ricavano piccole pani aventi la misura di chicchi di riso, facendone delle palline (immag. 2 E-F) che dovranno essere proporzionate alla dimensione delle pietre (immag. 4 B). Aiutandosi poi con una stecca si posiziona la pallina in corrispondenza del centro di ogni pietra (immag. 4 C). Una volta fissate, le palline dovranno avere una larghezza di poco inferiore a quella delle pietra. Così segnata la posizione delle pietre con altre palline aventi la medesinta misura della precedente, se ne sovrappongono altre (immag. 4 D) schiacciandole leggermente per farle aderire. Resisi conto di avere ottenuto un’altezza giusta, vi si appoggiano con una leggera pressione le pietre (immag. 4 E). Solo dopo essere sicuri del movimento e delle distanze verticali ed orizzontali tra le pietre (immag. 4 F) le si potranno fissare, con la certezza di non avere troppa aria tra una pietra e l’altra. Questo per evitare di 158


avere dei traversini di sostegno allo scoperto che sarebbero visibili una volta realizzato l’oggetto e che toglierebbero allo stesso quella leggerezza tipica della gioielleria, che permette di esaltare le pietre senza far notare i supporti della struttura. Sia per le spille che per gli orecchini è bene avere sempre almeno tre punti di appoggi sul piano, che serviranno da piano di riscontro all’altezza e al volume per un’eventuale inclinazione da dare all’oggetto ed al movimento delle pietre.

Immag. 2 (A,B,C,D,E,F,G,H)

Immag. 3 (A,B,C,D,E,F, G,H,I,L, M,N,O,P,)

Immag. 4 (A,B,C,D,E)

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4.2 Attrezzature e tecniche Casello Il cesello è un piccolo scalpello con cui si possono lavorare tutti i metalli e le pietre dure. Viene usato per decorare, ma anche rifinire in ogni particolare le lastre di metallo e gli oggetti realizzati a fusioni, dando il nome ad una delle più importanti tecniche orafe. Non si conosce con esattezza l’epoca in cui questo strumento è stato usato per la prima volta. I ferri da cesello, utilizzati anche nelle operazioni di sbalzo, sono delle aste, un tempo in ferro, adesso in acciaio, a sezione quadrata o tonda, con la testa (la parte in contatto con il metallo) di forme diverse, mentre il capo opposto è destinato a ricevere i colpi dei martelletti. Fino a pochi anni fa veniva usato il cianuro per dare la massima durezza all’acciaio. Le forme dei ferri da cesello dipendono dall’uso che l’orefice vuole farne: ci sono ferri lisci dalla testa tondeggiante, altri più appuntiti o con puntini, quelli con piccoli motivi a stelle, fiori o cerchietti ma anche dotati di una texture particolarmente ruvida che rende la superficie dei metalli granulosa (lavorazione detta sàble), utilizzata anche come supporto per la stesura degli smalti. I ferri da cesello possono essere utilizzati sia sul rovescio della lastra per creare rilievi sia sul recto per definire anche con estrema minuzia i particolari. I principali utensili sono tre: profilatore, unghietta e pianatoio. Possono essere di diversa grandezza e misura: l’unghietta è usata per tracciare le linee curve, il profilatore, per le linee diritte, i pianatoi per spianare la superficie intorno al disegno. Tutti i ferri sono sempre lucidi sulla testa. I martelli sono di diverso peso, generalmente intorno ai 100 grammi, manico incluso, e a testa piatta e larga. Con il cesello non ci si limita solo ai lavori su lastra, perché esso si usa anche nelle finiture delle fusioni di qualunque grandezza. 160


Con il cesello che schiaccia e il bulino che taglia il metallo si correggono le piccole e grandi imperfezioni delle statue, si perfezionano le parti incavate e quelle piĂš superficiali e “graficheâ€?, come le capigliature, certi motivi decorativi, o i particolari dei panneggi.

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Bulino Con il termine bulino si definiscono sia un sottile scalpello con punta in acciaio, utilizzato per particolari incisioni, sia la tecnica di incisione, normalmente una lastra calcografica realizzata con tale strumento. Per ottenere queste decorazioni, che sembrano disegni in bianco e nero tratteggiati, si adoperano i bulini. Composti da una parte in metallo temperato lunga circa 12 cm. (immag. A) la cui punta ha una sezione triangolare di 3 mm. che sarà a forma di ‘V’ più o meno aperta a seconda del tipo di taglio voluto (immag. B). La parte terminale opposta è fissata ad un manico di legno a mezza sfera o a pera che servirà da impugnatura. Essa dovrà essere tenuta nel palmo della mano mentre il pollice e l’indice terranno la parte in metallo. La punta del bulino viene assottigliata a degradare in due punti ben precisi (immag. C) per non indebolire troppo l’estremità che avrà un’angolazione di circa 30 gradi: questo per permettere lo scarico del ricciolo dl metallo che si sarà formato sulla punta del ferro. La sezione del ferro cambia a seconda del taglio desiderato (immag. D). Su di una pietra “Arkansas” bagnata con un po’ di olio, affilare la punta del bulino tenendola quasi verticalmente, di traverso rispetto alla lunghezza della pietra e a questo punto percorrerla con tratti decisi 4 - 5 volte; controllare la regolarità del triangolo formatosi sulla punta, infine levigare su carta lucida, apposita per bulini, i lati del bulino in direzione della punta. in modo da togliere la bava di metallo formatasi lateralmente. Tenendo il bulino in verticale sulla pietra, inclinarlo leggermente dalla parte dello scarico e percorrere due o tre volte la pietra. Questa volta si formerà un triangolo più piccolo che permetterà di avere tratti leggerissimi. Ripassare infine sempre lateralmente con la carta lucida per togliere la bavetta dall’affilatura. Più i lati saranno lisci, meglio scorreranno nel,metallo e questo brillerà di più. E bene ripetere 162


tale operazione più volte durante il lavoro. Una volta effettuata tale operazione, s’impugna il ferro nel palmo della mano e si spinge poi la punta nel metallo da incidere per 4-5 mm. a seconda del disegno tenendola quasi parallelo al piano; se si aumenta l’inclinazione, l’incisione risulterà più profonda. Si tenga presente che ad ogni spinta equivale un ricciolino di metallo sollevato e perciò un movimento del polso verso l’alto aiuterà a distaccarlo. Bisogna evitare di lasciare delle rimanenze poiché esse attaccherebbero dappertutto rendendo puntinata e sgradevole l’incisione. Alcune rimanenze potranno essere schiacciate con il brunitore, matita in acciaio avente una punta conica e una ricurva ad oliva lucidissime, che servirà anche a riprendere eventuali errori facendola scorrere incrociando i passaggi, sul tratto da correggere. E’ sempre meglio che l’incisione avvenga ad oggetto finito data la delicatezza dei tratti. Per lavorare senza riflessi si può opacizzare l’oggetto con polvere di talco. Per ottenere un’esecuzione precisa ed accurata, preparare dapprima il disegno e riportarlo se sì può sulla superfice cosparsa leggermente di vernice “Damar”, che tratterrà la matita della carta da lucido adoperata per il riporto del lato negativo del disegno. Una volta essiccata la vernice, il disegno rimarrà a disposizione dell’incisore senza dover rigirare la superficie. A lavoro ultimato la si toglie con del solvente. Il movimento del polso della mano che incide e la rotazione della lastra con l’altra aiuteranno a curvare. L’oggetto da incidere solitamente è fermato su di una base (immag. E) in legno per mezzo della pece. Si pone tale base sudi un cuscino in pelle leggermente bombato (immag. F) per facilitare i movimenti.

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( A,B,C,D,E,F)

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Ageminatura I lavori detti all’agemina (dal latino ad gemina metalla, a doppi metalli, e dall’arabo àgamī, ossia straniero, proveniente dalla Persia) consistono nell’incastro di piccole parti di uno o più metalli di vario colore, in sedi appositamente scavate su un oggetto di metallo diverso preventivamente preparato (in genere oro su argento), per ottenere una colorazione policroma. Una variante superficiale prende il nome di damaschinatura, termine derivato dalla città di Damasco. L’agemina è in definitiva una specie di niello, non realizzato a mistura ma con un metallo germine, il quale inoltre non è più colato negli incavi come per il niello propriamente detto, ma battuto dentro a mo’ d’intarsio. L’aderenza dei tratti incisi non si determina con effetti di saldatura, ma per effetto della presa che deriva dallo schiacciamento del filo stesso negli incavi. Gli incavi perciò devono essere eseguiti a sottosquadri e devono presentare le pareti inclinate verso l’interno in modo che il filo che è battuto dentro non si allarghi sul fondo e rimanga stretto alla superficie della parete incisa che ne determina il disegno. Condizione importante è che il filo sia più molle del metallo nel quale deve essere battuto, in modo che non abbia a danneggiare la forma dell’incavo. Per tale ragione è d’uso praticare la damaschinatura impegnando metalli preziosi sul bronzo, ferro, acciaio come usavano fare largamente gli antichi per incastrare le loro armi. L’agemina è una particolare tecnica, nata in Cina nell’ambito della lavorazione del bronzo. I racconti tradizionali narrano della rilevanza del bronzo in Cina nel suo passaggio dal neolitico all’età del bronzo nel III millennio, attraverso le tre dinastie Xia, Shang e Zhou che costituiscono un continuum economico e culturale. I bronzi orientali sono universalmente noti per l’alto livello delle tecniche, l’originalità delle forme, la varietà degli stili. Le lavorazioni sempre più accurate e complesse corrispon165


-dono con il susseguirsi delle varie dinastie e con le loro vicende politiche; con la dinastia Hsia (XXI-XVI secolo a.C.) durante la quale si cominciò a praticare l’arte della fusione del bronzo, si pone la questione dell’origine dello stato cinese. L’eroe civilizzatore, fondatore della dinastica, You il Grande, è detto il “traforatore delle montagne”, è il “minatore felice che bonifica la terra”. Ciò lo apparenta a Hang, il Signore del cielo e della terra, che è il “primo fonditore”. L’arte del bronzo in Cina ha avuto un veloce sviluppo in corrispondenza con il nuovo potere statale e con il nascere della regalità. Ciò è detto limpidamente nel mito o leggenda dei Nove Tripodi o calderoni, di cui tuttavia esistono molte versioni. I Nove Tripodi, grandi vasi di bronzo, sono i simboli della consacrazione del potere regale e corrispondono, nella nostra tradizione, alla corona, al gladio, allo scettro. Sui vasi sono rappresentati i wu, gli spiriti degli animali protettori dei singoli villaggi o regioni, garanti dell’unione e dell’armonia dell’alto con il basso, della comunicazione del cielo con la terra. Nel mito viene quindi adombrato il processo di accentramento e concentrazione dei poteri sacrali di cui ogni villaggio è depositario nelle mani di una dinastia in quanto il suo potere politico deriva in parte proprio dal possesso e dal controllo esclusivo sui Nove Tripodi. Il sovrano è tale perché controlla le risorse naturali delle varie regioni e, insieme, i loro strumenti di accesso al cielo (i wu). Il passaggio da una dinastia alla successiva sancisce anche il trasferimento dei Nove Tripodi. La fine di una dinastia è indicata come perdita di favore del cielo, e il nascere della nuova dinastia come ulteriore sviluppo delle sue capacità di comunicazione con il cielo, corrispondenti con lo sviluppo delle capacità di forgiatura, permettendoci di comprendere lo straordinario sviluppo dell’arte del bronzo in Cina, con le sue officine specializzate e le sue raffinatissime tecniche, che comprendono, per esempio, 166


l’agemina d’oro e d’argento per la decorazione dei bronzi. L’esame dei bronzi permette infatti di evidenziare alcune particolarità del potere e della cultura in Cina. I bronzi sono essenzialmente oggetti rituali, anche se non mancano le armi e gli attrezzi artigianali, e dunque non interessano il lavoro dei campi e la vita quotidiana. I bronzi rappresentano gli spiriti animali o essi stessi sono in forma animale e sono portatori di una visione religiosa e filosofica che interessa il potere.

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Niello Il termine deriva dal latino nigellum (“nerastro”), diminutivo di niger (“nero”). Il niello è una lega metallica di colore nero che include zolfo, rame, argento e spesso anche piombo, usata come intarsio nell’incisione di metalli. Il metallo inciso viene riempito con questa lega macinata lungo i tratti prodotti dall’incisione a bulino. La tecnica prende il nome di niellatura. In particolare, la niellatura è una tecnica che consiste nel coprire i tratti di un’incisione con il niello ridotto in polvere. Il niello è una lega fusibile a basse temperature: lo si fonde nei solchi e si elimina il superfluo, affinché torni ad apparire il disegno. Il nero del disegno, a questo punto, appare in nero, risaltando sul colore del metallo prezioso. Come per la saldatura, occorre anche nella niellatura un’attenta preparazione del procedimento. Innanzitutto, la mistura viene cotta. Dopo la si macina e la grana viene misurata secondo la finezza dell’incisione da riempire. La macinazione si compie in acqua, in modo che nel frattempo la mistura sia sottoposta ad una prima lavatura. Il macinato viene poi sottoposto a un secondo razionale lavaggio perebollizione in nuova acqua semplice, operazione che l’orefice valuta se è opportuno ripetere. La mistura, così trattata nell’acqua, sedimenta in un panno di lino. Successivamente, si miscela con del borace, in quantità sufficiente perché la mistura resti insieme ed abbia nel contempo il necessario fondente. Le lastre che devono ricevere il niello devono essere assolutamente deterse e ben imbiancate e i tratti incisi vanno spalmati con un lievissimo strato di borace liquido. Per facilitare l’imposizione del niello, è bene porre la mistura, macinata e preparata come s’è detto, in una cannuccia d’oca appuntita simile a quelle per la scrittura, dalle quali è possibile con un’adeguata punta del pennello far scendere il niello con esattezza negli incavi del disegno. Ciò per evitare di spargere la mistura sulla superficie del metallo prezioso. L’imposizione 168


deve essere abbondante, in modo che quando il niello si ricompatta non determini ammanchi. Il borace liquido viene fatto asciugare e, successivamente, portato a fusione, senza che la sua ebollizione provochi la caduta del niello: in considerazione di ciò, bisogna miscelare il macinato al minimo quantitativo di borace possibile. Benvenuto Cellini preferiva lesinare il borace nella miscela per aggiungerlo invece in forma di polvere sopra il niello imposto. Condotta l’operazione fino a questo punto si lascia raffreddare, si imbianchisce, ecc. e si passa alla levigazione del piano. La levigazione serve a eliminare l’eccedenza del niello e le eventuali fuoriuscite di questo sopra il piano della lastra, in maniera da ottenere una superficie piana. Si procede quindi alla limatura, cui segue la spianatura con carta smerigliata. Dopo si utilizzano abrasivi per la lucidatura, cui segue la brunitura. I lavori niellati con la mistura classica del niello nero non si possono ulteriormente sottoporre a battitura, stiratura, laminazione o altri simili trattamenti: essendo il niello quasi come uno smalto, all’urto violento si spezza.

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4.3 Tecnica di smaltatura a fuoco Per decorare un oggetto, oltre alle pietre è possibile ricorrere a tecniche atte a trattenere altri materiali colorati con l’oro. Alcuni vengono incassati come fossero pietre, mentre altri, come lo smalto, vengono trattenuti in alveoli raggiungendo un elevato grado di maestria attraverso l’uso di polveri vetrose fuse. Fin dall’epoca degli Egizi la tecnica dello smalto ha incontrato vari momenti di successo, permettendo lo sviluppo di alcune tecniche principali dovute al loro diverso tipo di effetto. I Francesi furono grandi maestri nelle tecniche di smaltatura come pure gli Scandinavi, i Russi e i Cinesi. Per poter smaltare a fuoco un oggetto è necessario prima di tutto che il materiale di questo sia idoneo allo svolgimento di tale tecnica: oro, argento e rame soprattutto, poiché non tutti i metalli possono essere smaltati a causa della loro diversa dilatazione termica, che in fase di raffreddamento farebbe incrinare lo smalto, distaccandolo. Se l’oggetto in questione è composto da più parti saldate tra loro, è necessario che la saldatura sia resistente alle alte temperature, adatta agli oggetti da smaltare. In ogni modo è bene eliminare ogni eccedenza di saldatura nelle parti da smaltare, perché essa può alterare il colore dello smalto. Lo smalto lo si trova già pronto in polvere oppure, sebbene raramente, in frammenti vetrosi che andranno ridotti in polvere finissima pestandoli in un mortaio di agata, con un pestello sempre in agata o in altro materiale che non lasci impurità. Procedere a tale operazione tenendo bagnati con acqua i grani o la polvere; per facilitare l’operazione di polverizzazione, dare un moto rotatorio alla pressione del pestello, lasciare depositare ogni tanto sul fondo lo smalto e versare l’acqua sporca di impurità del materiale grezzo; ripetere tale operazione più volte sino ad ottenere una acqua limpida. Pochi bagni, solitamente una decina, basteranno per ottenere un buon materiale, in altri casi 170


sarà invece necessario raddoppiare. Terminata questa operazione, che dovrà essere ripetuta per tutti i colori che s’intendono adoperare (usare di volta in volta la quantità necessaria alla decora-zione dato che lo smalto una volta preparato si deteriora a contatto dell’aria), se avanza del materiale dovrà essere messo in un contenitore di vetro assente da impurità, coperto con uno strato di acqua e da un foglio di carta per le ragioni precedentemente dette. Per poter essere smaltato, l’oggetto deve avere uno spessore minimo di circa 1-1,5 mm, considerando uno scavo per l’assestatura dello smalto di circa 0,5 mm; questo dipende dal tipo di metallo e dalla dimensione della parte da smaltare. Se la smaltatura sarà sui due lati (fronte e retro) lo spessore potrà essere più fine dato che essa bilancerebbe il movimento di ondulazione della lastra. Una superficie bombè sarà più adatta, poiché si ondula meno rispetto ad una piatta mentre quest’ultima sarà più facile da smaltare e rifinire. Al fine di avere sempre un oggetto privo di impurità (ossido, grassi, polvere, ecc.) è bene ef fettuare, a seconda dei casi e delle lavorazioni fatte, dei bagni di decappaggio con soluzioni diluite di acido ed abbondanti sciacquature con acqua corrente. i metallo ottenuto per scavo (dis. A) o per riporto, non superiore al mezzo millimetro di spessore, dato che con uno strato di smalto maggiore questo potrebbe incrinarsi. ll fondo da smaltare può avere dei disegni, motivi, ed effetti di taglio i quali oltre a dare una maggiore tenuta allo smalto, se questi è trasparente, saranno visibili ed aumenteranno di vivacità il colore dello smalto (dis. B). Prima di ricevere lo smalto, l’oggetto di metallo dovrà essere pulito da ossido, grasso e polvere. Lo smalto verrà depositato con pennelli diversi per ogni colore adoperato, per non correre il rischio di contaminare le polveri con altre tinte. Una buona qualità di smalto prevede generalmente da due a quattro fasi di smaltatura e cottura per colore, con strati molto sottili e sovrapposti. Una volta che lo smalto è 171


stato messo sull’oggetto (non deve risultare nè troppo bagnato nè troppo asciutto, non deve avere formato grani e non deve scivolare), controllare che non vi sia dello smalto fuori dal disegno; a questo punto appoggiare il tutto su di una griglia di acciaio che tenga l’oggetto leggermente sollevato dalla base Interna del forno, in modo da riscaldarlo uniformemente e da poterlo rimuovere (dis. C). La temperatura ottimale nel forno è di circa 1000 gradi; una volta raggiunta la temperatura, aprire il forno e fare sostare l’oggetto sulla soglia per lasciare evaporare l’acqua rimasta; tale operazione eviterà che una repentina introduzione dell’oggetto nel forno porti l’acqua all’ebollizione distaccandone lo smalto. Dopo neanche un minuto lo smalto cotto avrà un aspetto a “buccia di limone”; estrarre quindi l’oggetto e lasciarlo raffreddare lentamente, togliere l’ossidazione del metallo con uno spazzolino di vetro e sciacquare abbondantemente; se é il caso, procedere con un bagno di decapaggio. Ripetere l’operazione di smaltatura per gli altri strati. L’ultima cottura dovrà essere portata oltre all’effetto “buccia di limone” fino ad ottenere una superficie uniformemente liscia. Una volta smaltato, l’oggetto potrà essere levigato con pietra pomice ed acqua corrente, e poi risciacquato. Una volta asciutto verrà ricotto. Se e il caso ripetere l’operazione con abrasivi piu fini e lucidanti Per decorare con smalto un oggetto avente base metallica, solitamente si usa la tecnica dello “smalto a notte” o “champlevé” Si appoggia lo smalto sul fondo liscio di una cavità appositamente creata (dis. 1-A) adoperando smalti opachi o trasparenti, mentre se il fondo è inciso o lavorato a cesello tale tecnica verrà chiamata “basse-taille” e verranno usati smalti trasparenti (dis. 1-B). Si dice smaltatura “plique-à-jour” la tecnica dello smalto a giorno o cattedrale. Qui lo smalto é privo della base metallica ed ècontenuto solo da bordi di metallo (dis. A). 172


La trasparenza dello smalto permette alla luce di esaltarne i colori. Nelle fasi di smaltatura e cottura, l’oggetto viene appoggiato su di un piano di metallo in platino, che non aderendo allo smalto ne permette il distacco.

immag. 1 (A,B,C)

immag. 2 (A,B,)

immag 3 (A,B)

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4.4 Tipi di smalti La smaltatura può essere a notte o a giorno su supporti piani o non piani. La smaltatura a notte può a sua volta essere: su incisione, su modellato, tramezzata, zigrinata e filigranata. Smaltatura su incisione. E’ conosciuta con la denominazione francese “champlever”. L’incisione può essere ottenuta con il bulino o per stampatura. Nella gioielleria più fine si ricorre al bulino per creare la sede da riempire di smalto, lasciando tra un colore e l’altro un filo metallico più o meno sottile. Questo fondo serve ai trattenere lo strato smaltato. Quando si desidera conferire anche vivacità al disegno, si accentuano i riflessi ricorrendo alla zigrinatura, all’arabescatura, al guilloché, e poi si passa lo smalto trasparente. E’ però un procedimento molto delicato. La zigrinatura è data dallo stampaggio di un tratteggio finissimo, l’arabescatura è una cesellatura ad arabeschi, mentre il guilloché deve essere scelto in base alla destinazione dell’oggetto e consiste in una incisione fatta a bulino più o meno profonda a seconda del rilievo cromatico che si vuole dare al pezzo. Smaltatura su modellato. E’ praticata solo su metalli nobili e usa esclusivamente smalti trasparenti. La sede da smaltare può essere modellata al cesello oppure per stampatura. A seconda dello spessore lo smalto riflette la luce in maniera diversa: più è profondo, più i toni sono scuri. Se il rilievo si sviluppa nello spazio curvo, la smaltatura è detta “a tondo”, a ronde basse in francese. Questa tecnica fu usata molto dall’oreficeria manieristica, di cui costituisce una caratteristica importante. Smaltatura tramezzata. E’ detta “cloisonné”, dal francese cloison (tramezzo, paratia, muro di separazione), e richiede molta pazienza e molta abilità da parte dell’operatore. Questa lavorazione consiste nel costruire il disegno sulla superficie da smaltare piana o sagomata mediante un filetto metallico, ottenuto per trafila o tagliando una lastra 174


con le cesoie. Il filetto viene opportunamente sagomato in modo da ottenere il disegno voluto che si dispone poi sulla superficie metallica da smaltare. Per fissare il disegno si possono seguire due tecniche: o si salda al filetto lungo tutta la superficie, oppure si fissano solo alcuni punti con chiodature e incastro, mediante fusione di fondente (sostanza capace di facilitare la fusione dei metalli). Le saldature pos sono anche essere molto piccole, come la testa di uno spillo. Il filetto metallico può essere fissato sul supporto già ricoperto in precedenza di uno strato di fondente, al quale aderirà grazie alla gomma arabica o alla dragante (colla a base vegetale). Si fonde quindi a moderato calore. Il filetto, così fissato, delimita, con il suo contorno, cavità che vengono poi smaltate in tutti i colori possibili. Smaltatura filogranata. E’ una varietà di smaltatura tramezzata usata nel Rinascimento. Divenuta una tecnica in uso soprattutto a Venezia, si differenzia dalla smaltatura tramezzata perché i fili sono in filigrana e sono questi a trattenere lo smalto. Qui non si può usare la finitura al forno perché i bordi della filigrana non combaciano perfettamente con la superficie dello smalto e rischiano quindi di appiattirsi. Smaltatura a giorno. Detto anche “a cattedrale”, si distingue dalla smaltatura a tramezzi riportati perché le cavità non hanno fondo e lo smalto rimane agganciato soltanto lungo le pareti interne. L’effetto è simile a quello delle vetrate. Gli smalti che si impiegano sono trasparenti.

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4.5 Incastonatura Castone Parte dell’anello, o di altro gioiello, ove è posta e fissata la gemma; può essere formato da una cavità coronata da un sottile bordino che si ripiega sul contorno della gemma o, nelle montature a giorno, da piccole griffe, che trattengono la gemma stessa in più punti. Sono così chiamati per analogia anche gli alveoli cui sono fissati i rubini degli orologi. Incastonatura L’incassatura o incastonatura è la tecnica usata per incastonare pietre preziose di vario genere in castoni di varie forme. L’incassatore (detto anche incastonatore) di pietre preziose su gioielli è quell’artigiano altamente specializzato che si occupa di incastonare, appunto, le pietre preziose e le gemme varie sul corpo dei gioielli. Le tecniche necessarie a portare a termine questo tipo di lavoro sono molto complesse, poiché si tratta di operare su grandezze davvero infinitesimali (non a caso si utilizza un microscopio per tenere sotto controllo le fasi di lavorazione). Ma il lavoro dell’incastonatore è anche carico di responsabilità: in nessun caso ci si può infatti permettere che la pietra preziosa non sia saldamente fermata sul gioiello, il che causerebbe al cliente una perdita economica di grande entità, e getterebbe enorme discredito sull’artigiano che si è occupato della lavorazione. L’incastonatura, o incassatura, può avvenire mediante l’inserimento, tra la pietra e il castone, di supporti metallici di piccolissime dimensioni, che l’artigiano provvede a saldare e lavorare a seconda delle dimensioni della pietra. Ma questa è solo una delle diverse metodologie di intervento: l’orafo di talento si riconosce proprio dalla sua capacità di scegliere la tecnica più adatta al singolo caso.

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Tecniche ed utilizzi dell’incastonatura Per trattenere le pietre su un gioiello ed evidenziarle nel migliore dei modi, si ricorre all’uso di punte (griffe), di bordi di metallo (castone all’inglese è di riccioli di metallo che vengono schiacciati contro le pietre e le trattengono (granffette). In tutti i tipi d’incassatura il supporto di metallo dovrà avere una sede di appoggio per le pietre al di sotto della cintura delle medesime, in modo che il metallo sovrastante sia sufficiente a trattenerle. Incassatura a griffes Il griffe è un supporto costituito da un filo tondo che forma un cestino composto da due anelli sovrapposti (immag. 1 A) uno grande ed uno piccolo di base; sul primo appoggia la parte della pietra che si trova sotto la cintura e per tenere distanti i due anelli si adoperano quattro fili verticali aperti a “V’, equidistanti (immag. 1 B) che vengono saldati contro gli anelli. L’eccedenza del filo sopra la cintura della pietra. che verrà assestata tacendo un crano nel filo, viene piegata contro la corona della stessa, lisciata e poi levigata (immag. 1 C). I griffes possono essere a 3,4,6,8 punte Normalmente si usano le 4 punte, mentre per le pietre più piccole le 3 punte e per quelle piu grandi le 6 o 8 punte. Per le pietre centrali degli anelli aventi una certa dimensione, vengono usate le cosiddette “doppie punte”; si tratta di un griffe a punte ognuna delle quali è doppia. Questo particolare tipo di griffe viene adoperato per ragioni estetiche perché non solo dà molta leggerezza all’oggetto ma mette anche in risalto la bellezza nuda delle pietre aiutandole a prendere luce. Il griffe oltre ad essere costruito a filo viene realizzato anche in lastra a 4,6,8 punte, con delle gole di metallo fra una punta e l’altra disposte in modo tale da ottenere un riflesso di luce che tenda ad ingrandire la pietra (immag. 2 A-B-C). L’effetto è più pesante di quello a “filo”, ma la sicurezza della pietra è maggiore. Il griffe e il castone a bastine con doppie punte sono 177


usati per pietre centrali negli anelli ed in alcuni centri di collana di notevoli dimensioni (immag. E). Per non segnare le pietre, a volte le punte sono in oro più morbido specialmente per gli smeraldi, oppure in platino per i diamanti. lì primo anello del griffe o la prima bastina sono in oro giallo per mantenere meglio il colore della pietra ed in alcuni casi speciali l’interno di questa risulterà più o meno lucido in modo da mitigare certi difetti di colore. Le doppie punte si utilizzano anche quando una pietra non è regolare o simmetrica e questo tipo d’incassatura ne mitiga il difetto che risulterebbe evidenziato con l’impiego di altri tipi d’incassatura.

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Immag. 1 (A,B,C)

Immag. 2 (A,B,C)

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Castone all’inglese Il castone all’inglese è un supporto circolare continuo attorno alla pietra avente un bordo di metallo anch’esso continuo che la trattiene. Una volta assestata la pietra all’interno del castone (immag. 1 A) per circa metà spessore del bordo, questo viene ripiegato a martello contro la pietra in modo da bloccarla (immag. 1 B) e poi levigato lasciando il bordo lucido. Questa incassatura non è consigliabile data la pressione che viene fatta anche sugli angoli che si potrebbero rompere. Viene utilizzata in prevalenza per anelli e braccialetti perche evita quei fastidi d’impigliatura che si verificano con gli altri tipi d’incassatura.

Immag. 1 (A;B)

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Incassatura a baffi L’incassatura a baffi viene utilizzata in alternativa a quella inglese che tende sempre a coprire un poco le pietre. Si inserisce la pietra nel castone e la si ferma con dei riccioli di metallo (baffi) ottenuti con il bulino nel bordo che circonda la pietra. Sarà opportuno utilizzare questo tipo di incassatura con pietre piccole non soggette a sfregamento, per la poca resistenza meccanica dei baffi (immag. 1 A). Viene utilizzata a volte anche su superfici a pavè o nastri di metallo (la si nota specialmente negli oggetti antichi). Incassatura su lastra a granetta L’incassatura su lastra a granetta viene impiegata sia per una pietra che per più pietre assieme a seconda del disegno dell’oggetto e dell’effetto d’incassatura che si vuole ottenere. La lastra viene preparata con uno o più fori (immag. 2 A) e tali fori dovranno avere una svasatura tale che la culas della pietra vi appoggi in maniera uniforme; la cintura della pietra stessa dovrà risultare leggermente più bassa rispetto al piano della superficie stessa (immag. 3 B). A questo punto l’incassatore solleverà con il bulino delle punte di metallo (3 o 4) attorno alla pietra a seconda del disegno e della dimensione. della pietra stessa (immag. 3. C). Fatto ciò l’incassatore asporterà il metallo rimanente fra queste granette in modo tale da far convergere il bordo piano della superficie verso la cintura della pietra (immag. D). Questi piani inclinati valorizzeranno la pietra facendola sembrare più grande (immag. E). Fatto questo, si premera contro la pietra la granetta ottenuta, levigandola a forma di mezza pallina perché non s’impigi nei tessuti.

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Incassatura a pavè Qualora più pietre si trovassero vicine (effetto pavè) la procedura è la medesima fino ai punti A e B precedenti e poiché lo spazio tra le pietre è minore si creeranno altre granette nei piccoli punti vuoti per ottenere così un effetto di puntinatura. Le granette vicino alle pietre serviranno a fissarle mentre le altre avranno un effetto decorativo (immag. A-B-C-D). Incassatura a punte L’incassatura a punte è una variazione dell’incassatura su lastra a granetta e di quella a griffe. Viene utilizzata per dei pavè molto importanti e di grande effetto, specialmente su superfici bombate. La lastra viene preparata con dei fori che dovrannò ospitare le pietre (stesso procedimento usato per l’incassatura su lastra a granetta) solo che invece di sollevare le granette in quella posizione, vengono praticati dei forellini e saldati nei medesimi dei fili (effetto griffe) (immag. A). Ogni pietra a seconda del disegno-forma avrà da 3,4,5 punte. A lavoro ultimato non dovranno esserci spazi tra le pietre (vuoti d’aria), ma si dovranno vedere solamente le pietre e le punte dei griffes arrotondate a mezza pallina, che daranno all’oggetto una grande morbidezza ed una leggera impressione di trapuntato. Questo effetto si ottiene grazie alla vicinanza delle pietre e al fatto che una punta tiene 2,3,4 pietre contemporaneamente (immag. B). Incassatura invisibile L’incassatura invisibile è un bellissimo effetto di pavè che si ottiene con le pietre di taglio carrè le quali vengono ritoccate dal tagliatore di pietre appositamente per ogni oggetto. Poiché non vi deve essere aria nel contorno tra una pietra e l’altra, per meglio seguire il disegno, queste avranno nella culasse un crano che permetterà ai binari di metallo posti fra una pietra 182


e l’altra di trattenerle (immag. A). Le pietre che risulteranno esterne nel disegno, faranno da chiusura alla linea di ogni binario (immag. B). Incassatura dl una pietra in un’altra Per esigenze di disegno e di originalità a volte capita di dover inserire una pietra in un’altra (dis. A). La prima è un diamante o rotondo o di forma particolare che viene incassato in un castone all’inglese solita in platino. Esso dovrà risultare il più aderente possibile alla pietra e il metallo al di sotto della cintura dovrà essere il più fine possibile (immag. B).La seconda pietra che dovrà fare da supporto-contenitore alla prima, o sarà una pietra semipreziosa oppure uno zaffiro (purché non abbia difetti interni che ne pregiudichino l’integrità). Verrà scavata in modo speculare e ospiterà la prima pietra montata (immag. C). A seconda del colore e del tipo di pietra, questo incavo sarà più o menolucido per rendere meno visibile il castone all’interno della pietra e si potrà fissare con collanti speciali all’altra pietra montata. lì tutto verrà poi montato sull’oggetto come una normale pietra con un particolare effetto (immag. D). Tale effetto potrà essere otte-nuto anche con altre combina-zioni: turchesi, coralli, perle, ecc., ma in alcuni casi a causa dei collanti adoperati e della mancanza di trasparenza (immag. E), è possibile fissare la pietra con un perno in un foro cieco o con un perno a cannuccia passante attraverso la pietra supporto (immag. F). Senz’altro il contrasto ottenuto è molto efficace e sarà comunque opportuno valutarne i costi e l’uso in fase di progettazione.

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Incassatura a baffi (A)

Incassatura su lastra a granetta (A,B,C,D,E)

Incassatura a pavè (A,B,C,D)

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Incassatura a punte (A,B)

Incassatura invisibile (A,B)

Incassatura dl una pietra in un’altra (A,B,C,D,E,F)

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4.6 Sistemi di congiunzione Per poter unire due o più parti di un gioiello in modo che queste si possano muovere con un certo agio funzionale, si ricorre a quei sistemi di base ad incastro e a concatenazione che permettono all’oggetto di muoversi e di adattarsi alle forme del corpo. L’anello che concatena due parti è l’esempio più classico di questa unione. La sua funzionalità è spesso contrastata dal fatto estetico che trova questa soluzione inadeguata, così come accade per le congiunzioni a cerniera invisibile (perché nascoste nella parte interna). Esse danno all’oggetto una pulizia di forma eccezionale a scapito della morbidezza; il giusto compromesso è assai difficile da ottenere. Vediamo i principali tipi di congiunzione. L’uso di un anello libero permette un buon movimento in base al gioco degli attacchi delle due parti collegate; più ègrande il gioco, maggiore è il movimento in tutte le direzioni.

Congiunzione su lastra con anello verticale (immag. A) Congiunzione semplice orizzontale con piantone (immag. B) Congiunzione doppia orizzontale con piantone (immag. C) Congiunzione per griffes orizzontale con piantone (immag. D)

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Congiunzione con mezzo anello per castoni e griffes Questa unione è più vincolata del (immag. B) precedente, dato che il mezzo anello ad “U” è saldato per le punte su di una parte da unire, mentre l’altra parte curva gira intorno al piantoneperno dell’altro pezzo. li movimento è ottenuto dallo spazio del gioco attorno al perno, il quale fa da fermo al mezzo anello. Più è ridotto questo spazio, più il tutto risulterà rigido. Congiunzione con traversino impernato Si usa di solito per unire dei castoni. lì castone ha due fori passanti (immag. A) per lato ed un taglio nella direzione opposta, dove sarà alloggiato il traversino (immag. B), che sarà bloccato dal perno il quale attraverserà il castone ed il traversino (immag. C). Tale congiunzione, pur dando un buon movimento in un direzione, mantiene una certa rigidità se le sedi di asse statura dei traversini sono molto precise. Può capitare che i traversini si pieghino se troppo fini (i bracciali sono soggetti ad urti e trazioni notevoli). Congiunzione ornocinetica È l’unione di due parti che si tengono ferme incernierandole ai diametri opposti di un elemento sferico (immag. A), ottenendo un movimen-to orizzontale e uno verticale contrapposti. Questa congiunzione è molto funzionale, ma non sempre utilizzabile data la sua tecnica di funzionamento.

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Congiunzione a chiodo Per trattenere due parti, una con un foro attraverso il quale passa un perno collegato all’altra parte, regolata la distanza di gioco, si fonde la parte terminale formando una testapallina di fermo al movimento. L’eventuale gioco ottenuto renderà la rotazione ed il movimento laterale della congiunzione delicata e adatta a piccoli movimenti. Congiunzione miste L’uso di tecniche miste è condizionato dal tipo di oggetto e dal disegno-effetto che si desidera ottenere: è necessario aiutare bene la resistenza meccanica del sistema all’uso prolungato, dato che le riparazioni in questi casi non sono facili. Disegno A - anello più cerniera. Disegno B - anello più chiodo. Disegno C - cerniera più mezzo chiodo.

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Congiunzione con mezzo anello per castoni e griffes

Congiunzione ad incastro con cerniere (A,B,C)

Congiunzione con traversino impernato (A,B)

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Congiunzione con traversino impernato

Congiunzione miste

esempi di altre congiunzioni

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4.7 Chiusure – fermezze – clips Chiusura a barilotto Questa chiusura è utilizzata per oggetti piccoli e viene costruita in due parti, una parte femmina che è un cilindro con il foro di entrata un po più stretto del diametro interno (immag. A) ed una parte maschio formata da una linguetta a “V” di forma mezza tonda, che viene realizzata in oro bianco poiché questo metallo è più elastico. Una parte è attaccata al cilindro e l’altra, poco più corta, porta una cresta di gallo che funge da bottoncino da premersi onde aprire il meccanismo (immag. B-C). Sulla parte mezzo tonda della linguetta all’altezza della parte più stretta del cilindro femmina, viene fatto un crano di fermo della chiusura. La precisione dello scatto del meccanismo (un tick nitido) ne da l’affidabilità. E bene aggiungere talvolta un “otto” di sicurezza lateralmente. Chiusura a cassettina con cricchetto Questo tipo di chiusura viene utilizzata per bracciali e collane, e può essere di diverse misure. Essa è costituita da una parte a cassetta (immag. A) la quale serve a trattenere la linguetta (immag. B) avente la forma esterna quadrata o rettangolare a seconda delle necessità, ed una sezione laterale a “V” (immag. C). lì foro di entrata della linguetta è rettangolare con un crano quadrato che è situato nella parte centro-superiore della medesima (immag. A). Questo farà da fermo al porta bottone di apertura una volta scattata la molla della linguetta all’interno della cassetta. Chiusura a moschettone e ad anello a molla Queste vengono doperate per oggetti piccoli e leggeri. Sono soggetti ad aprirsi facilmente se adoperatindo parti più resistenti. Il moschettone (immag. A) è un gancio ovale con un tratto 191


rettilineo spostabile a molla, che ne ermette l’aggancio.L’anello a molla è un gancio circolare con una parte tubolare a forma di “C” avente una molla interna che spinge un perno al di fuori del tubo per completare la chiusura del cerchio (immag. B ). Chiusura a baionetta La chiusura a baionetta è di forma cilindrica e consiste in due elementi, uno avente una “T” (immag. A) che verrà inserita nell’altro elemento (immag. B) avente un foro ed una molla interna che porrà resistenza alla “T”. Questa una volta inserita nel foro sarà ruotata di mezzo giro per essere bloccata (immag. C e D). Per le varianti di questa tecnica vedere immag. E-F-G. Chiusura con molla laterale Adatta a forme molto basse, è composta da una cassettina femmina (immag. A) che trattiene lateralmente la linguetta della parte maschio con un crano (immag. B). La linguetta è una lastra in oro bianco che può bloccarsi lateralmente su entrambi i lati a seconda del modello. lì taglio che la percorre (immag .B) le permette di avere i lati esterni elastici in modo da poterla bloccare. Variazione della precedente (immag. C). Essa funziona anche come gancio di sicurezza, dato che per aprirlo bisogna far rotare la linguetta attorno al perno della cassettina. Chiusura regolabile Solitamente adoperata per cinturini di orologi, permette di regolare velocemente piccole differenze di lunghezza. È formata da una parte a libro di solito rettangolare (immag. A) ed è attaccata al bracciale con una cerniera. La parte a libro è composta da delle traverse equidistanti che serviranno ad agganciare l’anello rettangolare dell’altra parte (immag. B) e da un coperchio che chiudendosi a scatto terrà fermo il tutto (immag. C).

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Chiusura a perno laterale Le due parti da unire terminano ad incastro diritto con una cerniera maschio e femmina (immag.A). La cerniera avrà all’interno un agio tale da far passare un perno cilindrico diviso in due parti nel senso della lunghezzà e leggermente aperto a “V” con un crano sulle punte in senso circolare (immag. B) che le farà scattare a fine corsa nella virola che si trova all’interno dell’ultima cerniera rispetto a quella d’entrata (immag. C). Sarà opportuno munire il perno di una catenella di sicurezza per non perderlo. Con spazio maggiore il perno a forma di “V” può essere trattenuto da un altro perno che lo attraversi (immag. D).Altra variante per lo stesso tipo di attacco è con il perno filettato in testa e ovviamente anche l’ultima cerniera dovrà essere filettata all’interno (immag E). In tal modo il perno non si perderà perché trattenuto dall’invito pii stretto della cerniera opposta (immag. E): vi sarà un po’ più di gioco con la cerniera maschio. In alternativa il perno con il terminale più piccolo filettato (immag. F) eviterà questo gioco e sarà meglio munirlo di catena di sicurezza. FERMEZZE Per fermare una spilla ad un abito si è soliti appuntarla tramite l’uso di uno spillo-ago che può essere fisso o montato su di una cerniera (immag. A). Si fa passare l’ago nel tessuto e la parte terminale la si blocca sotto un ricciolo di metallo situato al lato opposto (immag. B). L’ago ha una spinta verso l’alto esercitata da uno spessore di metallo vicino alla cerniera d’attacco. A questa versione sono state fatte delle varianti per impedire lo sganciamento casuale dell’ago. Il ricciolo (immag. C) è stato sostituito con una cresta di gallo. Essa consiste in una “C” di metallo che trattiene una cannuccia aperta nella lunghezza con un perno esterno che scorre nel crano situato nel “C”. Una volta accostato l’ago alla “C”, si fa scorrere il perno nel crano così la 193


cannuccia girerà intorno all’ago fermandolo. Altra soluzione utilizzata è una pompetta (immag. D) dove ad accogliere l’ago vi è una mezza canna che li trattiene. All’altra estremità un cannuccia scorrerà verso l’ago fermandolo. In alcuni casi per le spille piccole si desidera adoperare dei doppi aghi senza l’uso della fermezza finale (immag. A). L’ago è fissato su di una cerniera esternamente quadrata la parte femmina ha al centro una molla (immag. B) sopra la quale verrà impernato l’ago stesso (immag. C). La molla è in oro bianco che lavorando contro lo spigolo della cerniera dell’ago lo manterrà aperto o chiuso (immag. D). Vi possono essere altri tipi di molle (immag. E-G). Clips per orecchini Per fermare un orecchino al lobo è bene proporzionare la forma della dip con quella dell’oggetto sia per motivi estetici che per un buon equilibrio. Se questo non è corretto farà pendere o girare l’orecchino sul lobo qualora la forza meccanica esercitata non fosse giusta. La forma più semplice per indossare un orecchino avendo i lobi forati è quella a “monachina” (immag. 1 A) che consiste in un filo curvo il quale passando attraverso il lobo si aggancia alla base di attacco dell’orecchino stesso. Adoperando un perno filettato come punto di fermo (immag.1 B) questo viene trattenuto dall’altra parte del lobo tramite una farfallina. Qualora il perno fosse liscio (immag.1 C) all’estremità avrà un crano circolare che farà scattare le ali della farfallina fermandolo. Una variante che permette di non forare il lobo è il sistema a vite detto americano (immag. 1 D). Consiste in un filo curvato ad “U” che, ad un terminale, ha saldato l’orecchino e all’altro una cerniera filettata con un perno passante avente due rondelle all’estremità: una all’esterno per avvitare e l’altra come fermo contro il lobo. La dip più usata è in lastra piatta, dove la parte centrale divisa 194


da due tagli, fa da molla alla tenuta (immag. 2 A) e lavora sopra lo zoccolo di attacco (immag. 2 B) della dip, mentre i lati hanno una cerniera che con un perno ne permette il fissaggio allo zoccolo. Un sistema simile è fatto in filo tondo che forma una specie di “U” (immag. 2 C) le cui punte forate sono trattenute (immag. 2 D) all’interno di due cerniere montate sullo zoccolo le quali hanno un crano orizzontale di misura uguale al diametro del filo della “U”. Il perno passante le terrà vincolate (immag. 2 E) e permetterà alla “U” di muoversi all’interno delle cerniere qualora essa venisse sollevata per aprire la dip. A questo tipo di dip si può mettere un perno passante per il lobo per maggior sicurezza (immag. 2 F). Vi sono alcuni orafi che preferiscono montare le clips con una molla centrale più spessa (immag. 2 G). Ad ogni dip, come fermo di battuta, va fissata una mezza coppetta rigata o un anellino doppio (immag. 2 H) per migliorare la presa. Alcune spille piccole montate con aghi doppi, possono trasformarsi in orecchini incappucciando (immag. 3 A) le punte per mezzo di due cannucce mantenute parallele da un doppio anello (immag. 3 B) per consentire la battuta contro il lobo. Nella costruzione della spilla va prevista questa soluzione inserendo un fermo di battuta per la dip (immag. 3 C).

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Chiusura a barilotto (a,b,c,d)

Chiusura a cassettina con cricchetto (a,b,c)

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Chiusura a moschettone e ad anello a molla (a,b)

chiusura a baionetta (a,b,c,d,e,f,g)

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Chiusura con molla laterale (a,b,c,d,e)

Chiusura regolabile (a,b,c)

Chiusura a perno laterale (a,b,c,d,e,f)

Fermezze (A,B,C,D)

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Fermezze (A,B,C,D,E,F,G)

Clips Per Orecchini (Immag. 1 A,B,C,D)

Clips Per Orecchini (Immag. 2 A,B,C,D,E,F,G,H)

Clips Per Orecchini (Immag. 3 A,B,C)

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Sitigrafia http://www.arteliberty.it/storia.html http://www.battiloro.it/tipologie-di-oro-e-argento/ http://www.bbpanormus.com/bb_palermo_liberty.html http://www.chimica-online.it http://compro-oro-perugia.com/caratteristiche-oro/ http://www.goldsmith.it/it/culturale/tecniche/incastonatura/ incastona4.html http://www.ing.unitn.it http://www.minerali.it http://www.regione.sicilia.it http://it.wikipedia.org/wiki/Cesello https://it.wikipedia.org/wiki/Laurus_nobilis http://it.wikipedia.org/wiki/Minerale https://it.wikipedia.org/wiki/Quadrifoglio



Ringraziamenti Ringrazio il Professore Sergio Pausig per la sua sapiente guida artistica, per avermi seguita con grande impegno e serietà in tutti questi anni, compreso quest’ultimo percorso progettuale. Un ringraziamento particolare va alla mia famiglia ed Emanuele Macagnone che mi hanno sostenuto e incoraggiato.



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