Cultura Commestibile 96

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uesta settimana il menu è

DA NON SALTARE La medicina d’amore di Noa

Siliani da pagina 2

PICCOLE VUOTI&PIENI ARCHITETTURE I colori di S.Lorenzo

Stammer a pagina 5

ISTANTANEE AD ARTE Frammenti aurei

Decidetevi

Monaldi a pagina 6

OCCHIO X OCCHIO Il doppio volto di Louis Faurer

RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4

Atlantismo piombinese

Il cavaliere polacco Cecchi a pagina 7


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DA NON SALTARE

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di Simone SIliani

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s.siliani@tin.it

chinoam Nini, in arte Noa, ha chiuso con uno splendido concerto lunedì 20 ottobre al teatro Verdi di Firenze COOLt, la prima settimana della cultura organizzata dalla Regione Toscana. Canzoni di speranza e di disperazione (come “Uri”, dal nome del figlio dello scrittore David Grossman ucciso nel 2006 da un razzo anticarro durante l'offensiva dell'esercito israeliano in Libano), musiche tradizionali yemenite accanto al jazz di Pat Metheny, fino alle canzoni del suo ultimo lavoro “Love medicine”. Un trio di veri talenti musicali: la sua chitarra storica Gil Dor, il contrabbassista Adam Ben Ezra e Gadi Seri alla batteria. Noa è stata accolta da un pubblico affezionato, ma anche da un gruppo di contestatori sedicenti filo-palestinesi che chiedevano di boicottare la finta pacifista Noa: persone cariche di risentimento, vittime del clima d'odio e di volontà di eliminare il vicino israeliano o palestinese che si è ormai innescato in Medio Oriente e che operano fattivamente contro il popolo palestinese prima ancora di quello israeliano. Indirettamente, mi sembra, che Noa risponda con questa intervista che abbiamo raccolto alcuni giorni prima del concerto fiorentino. Prima di tutto, consentimi di ringraziarti per il tuo lavoro e anche per il tuo impegno per la causa della pace e del dialogo. Nella tua recente “Lettera aperta al vento” (http://noa-the-singer.blogspot.it/2014/07/letteraaperta-al-vento.html) hai descritto la tua vita in Israele come un incubo, nel quale ogni civile è un obiettivo, dove i bambini passano la maggior parte del loro tempo nei rifugi. Ma, allo stesso tempo, mostri una grande comprensione e compassione per la terribile vita cui sono costretti i Palestinesi (bambini feriti, madri in lacrime, devastazione, terrore), oppressi dai caccia F16 di Tsahal da un lato e dagli estremisti oscurantisti di Hamas da un lato. Non due parti, una contro l'altra; ma una sola parte, quella delle vittime, israeliani e palestinesi. Contrapposti a questa parte, l'altra, gli estremisti Israeliani e Palestinesi. E tu ti schieri con le vittime. E politicamente per i moderati. Vinceranno mai i moderati in Medio Oriente? E come dovrebbero agire per avere una possibilità di cambiare le cose? Grazie per le tue parole. Ma permettimi di chiarire due punti: ho descritto la specifica situazione durante la guerra, quando così tanti israeliano stavano soffrendo, ma questo non riflette la vita in generale in Israele, che è buona o cattiva come in ogni altro paese occidentale, come l'Italia. Dico

La medicina di

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questo perché mi rendo conto che ancora oggi, molte persone qui conoscono così poco del mio paese e della nostra vita. Israele è un bellissimo paese con enormi potenzialità di essere un piccolo giardino dell'Eden se solo potessimo avere pace!! Quanto a Gaza, posso solo immaginare quale debba essere la loro vita quotidiana là, perché disgraziatamente conosco così poco di loro. Il muro che ci separa non ci permette neppure ad una persona curiosa e dalla mente aperta come me di attraversare il confine e conoscere i vicini. Quel che è certo è che gli abitanti di Gaza hanno sofferto enormemente durante l'ultima offensiva, come ho scritto nella mia lettera. Il secondo punto che voglio chiarire è il mio pensiero rispetto alla parola vittime: non mi piace questa parola. Sì, siamo vittime degli estremisti e della stupidità, degli interessi economici e politici che spingono le superpotenze ad agire non necessariamente nell'interesse della vita umana, e sicuramente non nell'interesse delle vite dei Palestinesi e degli Israeliani, e quel che è peggio, siamo vittime della nostra storia e della nostra memoria. Sebbene io rispetti la necessità di ricordare, sono contraria all'uso delle tragedie del passato per imprigionare il futuro. Dobbiamo liberarci di questo infinito senso di vittimismo; ebrei, Israeliani, arabi e Palestinesi, tutti. Dobbiamo impiegare la grande autocritica, ognuno nella propria parte, fare difficili domande a noi stessi e ai nostri leader, educare noi stessi nel senso più ampio del termine e, ciò che è più importante, dobbiamo tenderci la mano l'un l'altro per il bene dei nostri figli e costruire il futuro insieme. Non è impossibile. E l'alternativa è una guerra senza fine ed eventualmente l'annichilimento. Tu hai invocato un'alleanza per il dialogo fra le voci moderate del mondo musulmano e quelle dell'ebraismo. Ma sembra che la politica in Medio Oriente respinga la moderazione. Entrambe le parti sono occupate dagli estremisti; da uomini che sistematicamente tradiscono il loro popolo, che mentono al loro popolo dicendo che essi vogliono proteggerlo mentre invece lo pongono in continuo pericolo semplicemente perseguendo i propri interessi; fanatici religiosi che agiscono per distruggere altri esseri umani in nome di Dio (anche se credono nello stesso Dio). Vedi alcuna possibilità che nelle due società e nella politica i moderati possano riprendere il campo? Mi incoraggia il fatto che in questi tempi e in questi giorni, ci possiamo attendere l'inaspettato. Tutte le tendenze, le profezie e le previsioni si sono dimostrati miserevoli fallimenti. Gli eventi più importanti del nostro tempo non erano stati previsti da nessuno, dalla caduta del Muro di Berlino al crollo dei mercati finanziari, dalla nascita di google alle primavere arabe. Dove c'è vita umana, c'è spe-

DA NON SALTARE ranza e io non ho perso la speranza. Le persone si alzeranno, assumeranno l'iniziativa. Alcuni eventi sposteranno le molecole, il battito d'ali di una farfalla basterà per iniziare uno tsunami di cambiamenti. La nostra responsabilità è di essere pronti quando questo succederà, di preparare lo scenario per il prossimo grande spettacolo della storia, sperando che sia uno spettacolo magnifico. Cosa sta succedendo nelle società Israeliana e Palestinese? Sono anch'esse conquistate dal fanatismo, dalla cecità, dall'egoismo, oppure vedi della speranza, dei movimenti, pensieri e azioni indipendenti che possano spingere i moderati di entrambe le parti a mettere

Intervista alla cantante isrealiana in tour in Italia

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pressione sulla politica per cambiare la direzione del Medio Oriente? Ci sono molte persone che stanno facendo cose meravigliose, che lavorano per la pace, a costruire ponti, a tendere le mani. Queste persone lavorano silenziosamente, sono gli eroi misconosciuti dei nostri tempi. Tristemente, i media non prestano loro alcuna attenzione, preferendo sempre presentare lo spargimento di sangue e la violenza, per cui la loro presenza difficilmente è avvertita come reale, ma sono la nostra grande speranza! Sul mio sito web ( http://www.noasmusic.com/), potete trovare una lista di organizzazioni che io sostengo, che sono solo una piccola percentuale di tutte quelle che fanno il bene, alle quali dobbiamo la nostra salute e la nostra anima. Qual è il ruolo della cultura, degli artisti, della musica in queste società? Cosa possono fare per incrementare il dialogo, la reciproca comprensione? Tutti noi ricordiamo la tua collaborazione artistica con Khaled. Ci sono movimenti culturali e artistici che favoriscono la collaborazione fra i giovani artisti Israeliani e Palestinesi? La cultura può fare molto, può aprire le menti e i cuori, costituire una alternativa. Io ho anni di esperienza in questo genere di cose. Ma la cultura non può operare nel vuoto. Il solo modo per realizzare il cambiamento è che ogni individuo si assuma la propria personale responsabilità per il suo futuro. Se fosse per me, saremmo tutti a marciare per le strade, milioni, come ai tempi di Ghandi o di Martin Luther King. Questo è quello di cui abbiamo bisogno. Dobbiamo chiedere a gran voce il cambiamento! Gli artisti possono essere da guida su questa strada, possono aiutare il sogno dandogli voce, ma è il popolo, la gente normale, non solo i leader, che devono fare il lavoro.


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RIUNIONE DI FAMIGLIA

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I CUGINI ENGELS

LE SORELLE MARX

Atlantismo piombinese Instancabile globe-trotter e raffinato stratega internazionale,il presidente della Delegazione Italiana presso l'Assemblea parlamentare della Nato, nonché Vicepresidente della Commissione Affari esteri della Camera dei Deputati, al secolo Andrea Manciulli da Piombino, è stato il padrino di una tanto fondamentale quanto misteriosa riunione del GSM NATO Mediterraneo e Medio Oriente tenutasi in Italia nei giorni scorso. Apodittico, eppure irrinunciabile, Manciulli dichiara urbi et orbi: “È importante che l’Italia ospiti il GSM NATO Mediterraneo e Medio Oriente in questo momento delicatissimo. Ed è significativo che il dibattito si tenga a Catania, in Sicilia, la più mediterranea delle regioni”. Che sagacia strategica! Pare ereditata dal suo antenato Andreas von Manciulsewitz, che con grande lungimiranza, pare sia l'autore di un presagio che dal Settecento arriva dritto al XXI secolo: “Spesso è assai difficile dire, nel caso concreto, dove termini la forza di carattere e cominci la testardaggine”. Dopo aver regolato i conflitti secolari del Golfo di Baratti e contribuito a spegnere i bollenti spiriti (e forni) di Piombino, ora il Manciulli del XXI secolo è impegnato sui più delicati fronti della diplomazia globale. Così lo abbiamo visto risolvere brillantemente i conflitti in Afghanistan e in Somalia a seguito dell'incontro con i loro rappresentanti all'ONU, Jan Kubis e Nicholas Kay, durante la 69° Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre scorso, insieme ad un manipolo di intrepidi negoziatori qui ritratti accanto a lui. Del resto l'auspicio del diplomatico parla-

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti

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mentare democratico si estende all'area balcanica, dopo l'incontro con il ministro della difesa montenegrino Milica Pejanovic Durisic, a Pisa dove ha inaugurato la sede dell’associazione culturale Italia-Montenegro (qui in foto): bisogna includere entro il 2015 il Montenegro in Europa perché si sa, dopo mangiato un bell'amaro ci sta bene.

Il cavaliere polacco A salvare i grillini a Strasburgo è arrivata la cavalleria polacca: al gruppo del Parlamento Europeo cui aderiscono i 5 Stelle – “Europa della Libertà e della Democrazia Diretta”, ça va sans dire – aveva perso la deputata lettone Iveta Grigule e con lei il numero minimo per formare un gruppo (che vuol dire, risorse economiche, umane e strumentali, ri- ça va sans dire), ed ecco un cavaliere senza macchia e senza paura accorrere in soccorso: Robert Jaroslaw Iwaszkievicz. Il buon Jaroslaw si è fatto subito notare per essere uomo di larghe vedute. Nell'intervista ad un quotidiano polacco si è detto rammaricato di non aver mai picchiato i figli, ma solo sculacciati: se lo avesse fatto questo “avrebbe rafforzato il loro carattere e li avrebbe resi capaci di comportarsi meglio in situazioni di crisi”. Magari li avrebbe difesi anche dai rigidi inverni polacchi, chi lo sa? E poi anche alle donne qualche bel ceffone le avrebbe

LA GEOPOLITICA DI EUGENIO

Remarquable initiative

Finzionario

di Paolo della Bella e Aldo Frangioni

Una guida che proprio ci voleva: “Fans clubs” indica tutti i luoghi in cui gli affetti da ipocondria si troveranno a loro agio. In primo luogo l'elenco dei medici che assecondano e sviluppano i sintomi che vengono loro riferiti dai pazienti. Lo fanno con una disponibilità che da l'impressione che credano proprio al dolore narrato, anzi lo spiegano e, naturalmente, rassicurano, la malattia è sì fastidiosa, ma non grave. Parlano, al bisogno, con i parenti stretti del “malato” e li pregano di prendere in seria considerazione il suo stato di salute, esagerandone la gravità. I compiacenti medici sanno benissimo che il malato è immaginario. Categoria di persone che stanno bene solo se stanno male. L'autore indica poi le farmacie dove chi è di là dal banco è così deliziosamente cortese da far uscire il “bencapitato” con molte più medicine di quelle prescritte. Contentissimi lui e il farmacista. Infine c'è l'elenco dei luoghi, molto esclusivi, dove solo ipocondriaci, e ben selezionati, possono avere accesso: veri luoghi di piacere dove si scambiano impressioni sulle fantastiche patologie che ognuno pensa di avere, dove è possibile scoprire malattie finora non temute, non diagnosticate o sconosciute, aggiungendo serenità alla consueta preoccupazione di essere troppo in buona salute.

aiutate a “tornare con i piedi per terra”. Che uomo! C'è da immaginarsi la riunione dei leader del gruppo: Iwaszkievicz, Grillo e Farange in un pub fra birra, rutti e infamie contro gli euroburocrati e l'euro (di cui, tuttavia, non hanno schifo ogni 27 del mese). Nel suo programma Iwaszkievicz ha la riabilitazione delle pena di morte; noi ci accontenteremmo del ripristino della sculacciata educativa, ma per certi parlamentari europei.

LO ZIO DI TROTSKY

Il bullo del paese virtuale Di personaggi bizzarri eran pieni i bar di paese per cui non si capisce perché in quel grande bar sport virtuale che è twitter non debba esser così. Il problema è che allo spaccone da bar normalmente non si davano incarichi di responsabilità nemmeno nel consiglio della casa del popolo, figurarsi se si facevano diventare deputati e persino ministri. Invece a Maurizio Gasparri han fatto fare tutto questo, ignorando le teorie di Lombroso, e il comune buonsenso. Una volta sbarcato su twitter, incapace di distinguere il ruolo istituzionale da quello del bullo da tastiera, ha inteso attaccar briga con più o meno chiunque si incrociasse col suo account. Ha offeso intere nazioni (l’Inghilterra dopo la partita della nazionale agli ultimi mondiali), personaggi pubblici ma soprattutto privati cittadini. L’ultimo caso una ragazzina che aveva difeso il suo idolo, il rapper Fedez, precedentemente attaccato dal parlamentare, apostrofata per la sua figura non esile. Certo si potrebbe pensare ad una precisa strategia di comunicazione di Gasparri, che dietro queste sue esternazioni ci sia studio, tattica, movente; invece temiamo proprio che si tratti di un disvelamento di un indole da bullo che la grisaglia parlamentare aveva tenuto a bada e che riemerge di fronte alla tastiera. Imperiosa e implacabile come il braccio di Peter Seller ne il Dottor Stranamore, che si tende automaticamente a comporre il saluto romano. Insomma siccome presumiamo che persino Gasparri abbia qualcuno che a lui tiene, gli tolga la connessione internet e gli sequestri lo smartphone. Proprio come si fa ai bulletti in erba.


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PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ

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di John Stammer

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l quartiere di San Lorenzo a Firenze è oggi spesso raccontato sulle cronache cittadine. E lo è spesso più per i suoi problemi che per le sue opere d’arte. Si parla infatti del braccio di ferro fra il Comune e i gestori delle bancarelle, che non vogliono spostarsi in altra sede, dell’infinita storia del “recupero” dell’ex convento di Sant’Orsola, e di alcuni interventi recentemente realizzati nella vecchia struttura del Mercato Centrale progettato dal Mengoni un secolo e mezza fa. Il quartiere è uno dei luoghi centrali della Firenze Medicea. Qui non solo c’è il palazzo di famiglia in via Larga (ora via Cavour), non solo ci sono le tombe di famiglia (nelle cappelle con le sculture di Michelangiolo, ma ci sono anche la biblioteca ( con la scala di Michelangiolo) e la basilica laurenziana. Insomma è il quartiere dove i Medici avevano colto concentrare i “loro” luoghi di maggiore rappresentanza fno ad arrivare al Casino Buontalentiano. Questo quartiere è, da diversi anni, un luogo di confine fra la città aulica e turistica e il retro urbano della stazione di Santa Maria Novella. E’ un quartiere dove si manifesta, più che altrove, la complessità della contemporaneità e dove il convivere urbano fra diverse culture conosce un importante terreno di sperimentazione, che evidenzia anche le crescenti difficoltà di questa condizione urbana. Un contesto delicato, un quartiere di frontiera dove sono stati avviati, nel recente passato, studi innovativi nel campo della ricerca sociologica e dell’architettura. Per gli aspetti sociologici Mirella Loda ha svolto un importante studio su “Morfologia sociale, comportamenti di consumo e domanda di città nel quartiere di San Lorenzo a Firenze” (Storia Urbana n°113,anno 2006). Lo studio evidenzia in particolare come il quartiere (ma in parte questa considerazione vale per l’intero centro storico della città) sia soggetto, più che a un decremento demografico, ad un vera e propria sostituzione dei residenti tradizionali con nuove componenti sociali. Un fatto di per sé non negativo ma che può ingenerare rischi per la coesione sociale. Che infatti puntualmente si sono verificati. Questa considerazione, verificata anche sperimentalmente dalla ricerca che evidenzia come gli effettivi residenti nel quartiere siano circa il 25% in più di quelle censiti ufficialmente all’anagrafe cittadina, comporta una strategia di risposta che punti anche sulla qualificazione del contesto urbano. In questa direzione si è sviluppata un’altra ricerca, svolta con il coordinamento di Giuseppe Alberto Centauro, sulle caratteristiche del sistema urbano. Di questo studio è particolarmente interessante l’approfondita analisi morfologica e delle trasformazioni edilizie (realizzata attraverso un’innovativa lettura dei dati catastali) e l’allestimento di un abaco delle tipologie delle facciate e dei colori, che costituisce un valido contributo non solo alla ricostruzione della “immagine” del quartiere, ma anche un metodo applicabile all’intero

I colori di San Lorenzo

centro storico. Questo studio sui colori della città, ricorda a tutti che la città monocromatica è un’invenzione dell’età moderna. Basta solo “guardare” le immagine delle città rappresentate negli affreschi e nei dipinti del passato per averne conferma. E ci ricorda citando G.A.Centauro che “ I colori dell’architettura realizzano anche i

colori della città, svolgendo un ruolo fondamentale nei processi identificativi e culturali dei diversi insediamenti umani”. La riscoperta di una città “colorata” e dipinta può essere un elemento che aiuta anche a migliorare la qualità del vivere urbano, in quanto ne migliora i processi identitari. Dallo studio sono emersi valutazioni e documenti che sono lasciati al-

l’attenzione di chi, in futuro, avrà a cuore l’interesse per la città e per il quartiere di San Lorenzo. In particolare si riportano qui alcune tavole dello studio che evidenziano il senso cromatico di alcune cortine edilizie, gli aspetti compositivi e formali di alcune facciate, oltre alla bellissima facciata dipinta del Palazzo Benci in Piazza Madonna degli Aldobrandini.


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ISTANTANEE AD ARTE

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Fra mme nti aurei di Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com

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el corso della sua attività artistica, Elisa Zadi è stata in grado di donare allo spettatore la forte sensazione di immergersi visivamente in un mondo interiore, denso di opportunità comunicative, espressive e sensoriali. La sua intima complessità si offre alla tela, come spinta esistenziale a una completa aderenza al mondo e al sentire quotidiano, in un luogo in cui le distanze fra pubblico e privato si annullano, in virtù di un tacito dialogo e di una concreta e coerente comunione universale e spirituale con l’altro. Frammenti aurei è l’opera dell’artista che supera la tradizionale bidimensionalità del quadro, procedendo in modo dinamico – ossia evolvendosi verso l’altro in una spirale logaritmica – alla scoperta di verità misteriose, ignote, spesso nascoste, e difficilmente comprensibili. La citazione della sezione aurea rispecchia la ricerca di perfezione e armonia, che l’artista indaga nell’atto e nell’attimo stesso della creazione pittorica, con quelle semplici pennellate di colore, di luce e contorni che caratterizzano il suo personalissimo stile. Lo sguardo allo specchio – da cui deriva il ritratto – scruta nell’orizzonte più sconfinato dello spirito umano e nella tela rivive in tutta la sua energia vitale. Tempo e Spazio si amalgamano e si confondono nell’attimo della meditazione e della contemplazione: il Tutto si articola in un assemblaggio dinamico ed evolutivo che richiama il cambiamento, in quanto scoperta e continua investigazione di sé, del mondo e dell’attuale epoca contemporanea. Nel momento in cui tutto cambia a una velocità tale da rendere il quotidiano ciclo vitale caotico, quasi a perdersi e percepirsi solo nella staticità e nella mancanza di una piena aderenza delle

cose al mondo, l’artista reinventa il proprio linguaggio pittorico, facendo del frammento un punto di partenza, una via di fuga e un ancoraggio dal quale muoversi in direzione e prospettive sempre diverse. Frammenti aurei è un climax ascendente e una parafrasi del sentire quotidiano, in cui lo spettatore può riflettersi per trovarsi in un intimo specchio, lontano dalla complessità contemporanea, a cui affidare le più inconfessabili sensazioni, in un dialogo intimo e un viaggio estetico dal gusto diaristico. In alto Frammenti Aurei, in mostra a Quadro 0,96 a Fiesole, via del Cecilia 4 fino al 25 novembre. Al centro Elisa Zadi e Giulia Huober - Le vie di Michelangelo - Palazzo Medici Riccardi – Firenze. A fianco un particolare dell’opera

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di Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it

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OCCHIO X OCCHIO

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ella vita (e nell’opera) di ogni serio professionista intellettuale esistono sempre almeno due volti, due aspetti, due modi di esistere diversi e talvolta contraddittori. Da una parte c’è il lavoro (talvolta anche creativo) svolto per conto dei committenti, dei clienti, o comunque di un pubblico pagante. Dall’altra parte c’è il lavoro (spesso ancora più creativo) svolto per noi stessi, senza incarico, senza scadenze, senza contratto, soprattutto senza vincoli, e senza l’ansia di dovere in qualche modo accontentare (o per lo meno incontrare) il gusto, le esigenze e l’approvazione di qualcuno. I fotografi, in quanto professionisti intellettuali, non fanno eccezione, anzi. Avere fra le mani uno strumento potenzialmente creativo come la fotocamera, e doverlo utilizzare per registrare gli aspetti visibili di un mondo che non è il loro e che non gli appartiene, appare spesso insopportabile. Così molto fotografi utilizzano il proprio strumento ed il proprio tempo libero per quelle “ricerche personali” che magari non sono sufficienti per sopravvivere, ma che riescono a dare un senso alla vita. Louis Faurer (1916-2001) è uno di quei personaggi che trovandosi per le mani una fotocamera ed una serie di relazioni importanti, inizia nei primi anni Quaranta a fotografare la moda per riviste come Harper’s Bazaar, Vogue, Mademoiselle e Glamour, ma anche Look e Life, e continua questa attività per una ventina di anni. Amico di Robert Frank e di Walker Evans, Faurer sviluppa in parallelo le proprie “ricerche personali” vagabondando per le strade di Philadelphia, sua città di origine, e per quelle di New York, sua città di adozione fino alla fine degli anni Sessanta, quando comincia a preferire città come Parigi, abbandonando la fotografia professionale per dedicarsi all’insegnamento. Le sue “ricerche personali” si fermano definitivamente nel 1984, quando rimane coinvolto in un incidente stradale e decide di smettere di fotografare. Nel suo errare fotografico Faurer esperimenta a fondo i diversi aspetti del linguaggio fotografico e delle sue possibili applicazioni, dal mosso ai riflessi, dalla grana alle doppie esposizioni, dalla luce ambiente ai diversi tipi di pellicola, fino alle diverse e raffinate tecniche di stampa. Oggi Faurer, piuttosto che per le sue foto di moda, all’epoca abbastanza poco convenzionali, è conosciuto per le sue immagini scattate nelle strade, immagini che sono incentrate sull’umanità, sui personaggi, sulle figure che passano, sostano, si incontrano o si scontrano nell’ambiente urbano. Immagini talvolta crude, un poco malinconiche, fortemente caratterizzate psicologicamente, quasi sempre evocative di una esistenza in bilico fra la solitudine e la frenesia della vita, fra il movimento di persone, auto, insegne luminose, cinema, vetrine illuminate, e la individualità esasperata di personaggi sempre poco coinvolti, quasi estranei, ripiegati su se stessi. I per-

sonaggi di Faurer sono gente comune, passanti anonimi, talvolta coppie bene o male assortite, coppie di gemelli, piccoli gruppi di persone in atteggiamenti mai troppo definiti, creature crepuscolari o notturne, figure che appartengono all’ambiente urbano, così come appartengono allo sguardo del foto-

Il di

grafo che lentamente le fa uscire dalla semi oscurità di cui si nutrono per esporli alle luci fredde dei neon. Non lavorando per i giornali, né in vista di pubblicazioni, esposizioni, fotolibri o mostre (a cui tuttavia partecipa) , Faurer realizza immagini del tutto personali, dotate di uno stile individuale, che

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non mancano di influenzare i fotografi suoi contemporanei e quelli più giovani. Per molti Faurer è stato un maestro, ma più che un maestro di fotografia, un maestro di coerenza. Perché ancora prima di essere un fotografo, ha dimostrato di essere un uomo libero.

doppio volto Louis Faurer


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erchè un pittore toscano espone i suoi quadri presso un’enoteca di Dortmund?” Qesta è la prima domanda che ha rivolto un giornalista a Davide Vinattieri, in arte Vidà, durante l’inaugurazione della personale all’ Enoteca Villa Grimaldi di Dortmund. Vidà ha risposto: “grazie all’amicizia con Vincenzo (titolare del locale) e alla Toscanità”. Ebbene, sì perchè Vincenzo, innamorato della Toscana, dopo aver conosciuto Davide non voleva proprio farsi sfuggire l’occasione di “importare un nuovo prodotto” da far conoscere ai suoi concittadini tedeschi. Da qui nasce l’idea della mostra personale . Dopo il Bistrot “Les Halles” di Reims, un’ enoteca tedesca, luoghi nuovi dove poter far conoscere le opere di Vidà ad un pubblico non canonico, forse meno esperto, ma indubbiamente attento e curioso. Davide Vinattieri, in arte Vidà, artista toscano, intuitivo, autodidatta. Il suo percorso è iniziato dalla passione per il legno. A lungo ha prodotto artigianalmente oggetti di arredo ispirati alle vecchie forme della tradizione italilana, che ha cominciato poi ad arricchire con decorazioni varie mettendo infine su tela le immagini che la sua fantasia gli suggeriva. L’arte di Vidà si fonda su un’attenta ricerca del colore. Ogni elemento presente nella natura è per l’artista fonte di ispirazione e materia prima da cui estrarre sempre colori nuovi, sfumature inesplorate da liberare su tavole di legno. "Tutto è partito dalla ricerca del colore. Da bambino ho sempre cercato di sco-

Da Scandicci a Dortmund

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vare pietre o fiori particolari, mi affascinavano i colori e le forme, capire come potevo fare a ricrearli con la stessa lucentezza. Il seme va bollito, il fiore va essiccato, la pietra schiacciata e la terra macinata. Alcune materie prime le raccolgo durante i viaggi all’estero. Anche nei nostri boschi ci sono tanti colori che attendono solo di essere scoperti. E’ un’emozione unica veder spuntare una nuova tonalità dopo mesi di ricerca". Ad oggi sono oltre 130 i colori scoperti da Vidà, che vengono estratti dai pigmenti presenti in natura nel laboratorio aperto al pubblico a Gaiole in Chianti (Castello di Meleto). Dal 2005 a oggi l’artista ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia e all’estero: Firenze, Milano, Capri, Parigi, Reims, Dortmund sono solo alcune delle tappe. L’artista è in continua evoluzione e sperimentazione di tecniche e materiali nuovi, per questo la sua arte è avanguardista senza allontanarsi troppo dal classicismo del suo background culturale. I temi da lui trattati sono quelli che ci accompagnano per una vita intera: l’amore, la vita, la passione, l’arte stessa che diventa soggetto dei suoi quadri, la natura che incontriamo in tutte le sue manifestazioni come il vento, la pioggia, la tempesta, la mareggiata…L’artista non è spettatore del mondo, ma ne è immerso e lo vive a pieno cogliendone tutte le sue espressioni. Le sue opere sono sempre visionabili presso il “Bar Cristina” (via Pisana 274 - Scandicci) oppure sul sito www.thevida-art.it.

BIZZARRIA DEGLI OGGETTI a cura di Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it

Pare si chiami anche picchiotto, ma anche “battaglio”, “mazzapicchio” e “bussarello”, tutti nomi suggestivi della sua destinazione d’uso, battere ad una porta chiusa per segnalare e presenza e desiderio che essa ci venga aperta. Questo nostro è all’incirca di metà ‘800 ed ha il leone in ghisa e l’anello in ferro. Pare che esistessero anche in epoca greco-romana, inizialmente di forme molto semplici, hanno acquisito nei secoli, soprattutto dopo il ‘400, valenze sempre più decorative ed artistiche, ne esistevano esemplari di ferro finemente scolpiti ed elaborati. Nell’800 si diffondono quelli in ghisa che rappresentano figure di animali, meduse o elementi decorativi di ispirazione egiziana. Molto in uso anche,successivamente, la rappresentazione della mano nell’atto di battere. Poichè a loro si è da sempre attribuita una magica funzione di protezione della casa da spiriti maligni e malocchi, spesso venivano scelti soggetti con espressioni minacciose o animali feroci. Il nostro infatti è un leone. La ghisa è una lega ferrosa che, grazie alla sua maggiore resistenza alla ruggine, è stata impiegata per la costruzione di arredi urbani e decorazioni esterne delle case, panchine, cancellate, ringhiere. Fra i vari Musei della Ghisa, ove anche i

Battente

battenti fanno bella mostra di sè, scelgo di parlare del MAGMA di Follonica, ricavato nell’edificio che fu l’Altoforno che ha visto passare tutto il ferro del-

narrano storia del luogo e del lavoro che

Dalla collezione di Rossano vi si svolgeva. In milanese “el ghisa” è il

l’Elba e che si chiama di San Ferdinando, nei suoi tre piani si trovano, oltre ad una collezione di bellissimi ed elaborati oggetti, due altri percorsi che

Vigile Urbano, forse per la divisa nera, come la ghisa o per uno stemma di ghisa sul cappello o per la forma che esso aveva nel 1860, un alto cilindro simile ad un tubo di ghisa. Sempre giocando con le parole si chiamano “battenti” ,perchè camminando scalzi battono i piedi a terra in modo ritmato, quei fedeli che, il Lunedì dell’Angelo, percorrono le strade che conducono al Santuario della Madonna dell’Arco, nel Comune di S.Anastasia vicino a Napoli. Essi sono vestiti, come da antichissima tradizione, completamente di bianco con una fascia azzurra che reca il volto della Mamma Celeste a tracolla ed una rossa, cioè del colore del sangue uscito dalla sua ferita al volto, in vita. Il cammino per moltissimi inizia a notte fonda e il sacrificio del pellegrinaggio è volto a ringraziare la Vergine di una qualche grazia ricevuta. Questa tradizione nasce nel 1460 quando, si narra, nel corso di un litigio fra due giocatori uno di essi scagliò via con forza la sua biglia che andò a colpire il volto della Madonna di un vicino tabernacolo che iniziò a sanguinare dalla ferita. Il tiglio a cui il reo doveva essere impiccato seccò all’improvviso...La ricchezza di eventi sacri e presagi indicò l’opportunità di presevare e glorificare con adeguato Santuario la miracolosa immagine....


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VISIONARIA

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di Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com

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l 27 ottobre si inaugurerà a Parigi la nuova sede della Fondation Luis Vuitton al Bois de Boulogne. Un evento importante perché l’edificio progettato dall’architetto Frank Gehry viene già considerato uno dei futuri simboli della città al pari della Tour Eiffel o della Piramide del Louvre. La mostra di apertura sarà appunto dedicata allo straordinario progetto architettonico con un percorso visuale e sonoro che parte dai primi schizzi fino ad arrivare ai modelli che, stagliati su uno sfondo nero, daranno la sensazione di galleggiare in un ambiente liquido. Frank Gehry, visionario architetto nato nel 1929 in Canada, è uno dei maggiori esponenti del decostruttivismo caratterizzato da un processo di scomposizione degli edifici in unità volumetriche ricomposte poi tra loro in un’apparente illogicità. I risultati per quanto riguarda Gehry sono dirompenti: parallelepipedi sospesi nel vuoto, geometrie “arruffate” che sembrano sfidare la forza di gravità, soluzioni volumetriche avveniristiche o semplicemente sorprendenti come “La casa danzante” a Praga dove tutto l’edificio sembra seguire, in mezzo alle altre facciate banalmente immobili, il ritmo sfrenato di una musica o il museo Guggenheim, incredibile costruzione rivestita in titanio che ha trasformato l’anonima Bilbao nella seconda città turistica della Spagna. Nel 2007 il regista Sydney Pollack gli ha dedicato un documentario dal titolo Frank Gehry creatore di sogni. Naturalmente sarebbe impossibile arrivare a questi risultati senza la possibilità della progettazione virtuale. Per la costruzione della Fondation Luis Vuitton l’assemblaggio dei 3.600 pannelli di vetro e dei 19.000 pannelli di cemento sono stati simulati durante la progettazione utilizzando tecniche matematiche e modelli digitali 3D ottenuti attraverso un nuovo software e l’impegno del team dell’architetto di oltre 400 persone tra tecnici, ingegneri, informatici...Del resto la sfida tecnologica di Gehry, nei 11.700 mq. a disposizione, era questa volta rivoluzionare l’uso del vetro per creare con 12 enormi vele una nave di luce sulle quali riflettere il giardino acquatico dell’ingresso, gli alberi del bosco e i cambiamenti di luminosità durante il giorno. All’interno un jardin d’acclimatation, romantica citazione degli edifici in vetro con giardino della tradizione del XIX secolo, e le sale espositive nelle quali le opere si integrano al paesaggio circostante ben visibile dalle grandi vetrate. L’edificio è stato classificato HQE, Alta qualità ambientale, perché risponde a tutti i 14 requisiti di bioedilizia (scelta dei materiali, armonizzazione con l’ambiente, riduzione dell’inquinamento...) che vengono richiesti per ottenere questo ambito titolo. Un gioiello architettonico voluto

dalla Fondation che porta avanti il suo mecenatismo industriale per promuovere l’arte contemporanea da oltre 20 anni. Dal 2006, prima di questo enorme salto di immagine, gli artisti venivano presentati in raffinate mostre nell’ Espace Culturel, al settimo piano dell’edificio sugli Champs Elysées dove si trova la boutique storica di Luis Vuitton, aperta nel 1913. Per arrivare all’Espace, mimetizzato dietro un enorme specchio, c’era il memorabile ascensore ideato da Olafur Eliasson, star dell’arte contemporanea, intitolato La perdita dei sensi. Nell’intenzione dell’artista il breve tragitto di poche decine di secondi nell’ascensore, insonorizzato dalle pareti nere, completamente immersi nel buio dovevano invitare alla riflessione sul contrasto che si svelava all’arrivo nell’accecante luminosità dello spazio espositivo. Chissà se Eliasson si è ispirato all’esperienza mistica creata da certi antichissimi stupa birmani dove chi entra è costretto a procedere in uno spazio angusto completamente al buio per poi arrivare in un largo ambiente inondato dalla luce del sole. In qualche caso il passato veramente remoto continua ad avere qualcosa da insegnare...

Vuitton: la nave di luce


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LUCE CATTURATA

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di Stefano Bartolini stefanobartolini1@gmail.com

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I confini dei luoghi

MUSICA MAESTRO di Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it

Nel panorama musicale italiano troviamo molti pianisti che vengono definiti “di frontiera”, cioè caratterizzati da linguaggi che rifiutano le etichette: artisti eterogenei come Remo Anzovino, Ludovico Einaudi e Fabrizio Ottaviucci, tanto per fare qualche esempio. Sebbene si tratti di un panorama dominato dalle figure maschili, esistono anche diverse donne che non devono essere trascurate. Una di queste è Alessandra Garosi, pianista e compositrice di solida formazione classica, sempre spinta dalla curiosità e dall’apertura nei confronti dei linguaggi più diversi. Nel passato prossimo della musicista senese spicca una delle esperienze più luminose degli ultimi vent’anni, quella del gruppo cameristico Harmonia Ensemble, attivo dal 1992 al 2008. Nato come trio, questo la vedeva accanto ad altri musicisti di ottimo livello come Orio Odori (clarinetto) e Damiano Puliti (violoncello). Con Ulixes (Materiali Sonori, 2002), realizzato insieme a una fanfara macedone, la Kocani Orchestar, si aggiungeva il batterista Paolo Corsi. Nei nove CD pubblicati l’Harmonia Ensemble non ha proposto soltanto materiale proprio, ma ha rielaborato con gusto quello di compositori molto

Un omaggio che nasce dal cuore diversi: da Nino Rota a Roger Eno, da Frank Zappa a Gavin Bryars. Dopo lo scioglimento del gruppo Alessandra Garosi ha imboccato con decisione una

strada molto interessante che si è diramata in varie direzioni. Insieme all’attrice teatrale Lorella Serni ha realizzato il CD Teresa Wilms Montt. Diario (EMA, 2009), dedicato alla scrittrice anarchica cilena del primo Novecento. Ha soggiornato più volte in Australia, dove ha collaborato con vari musicisti locali.

Al tempo stesso, però, non ha perso il gusto di misurarsi con l’opera di altri musicisti, come faceva al tempo dell’Harmonia Ensemble. Lo conferma Chansons et carillons (EMA, 2014), dove la pianista rielabora musiche di Giorgio Gaslini. In genere si tratta di pezzi tratti dal suo repertorio più recente e meno legato al jazz. Sulla copertina si nota un dettaglio eloquente: il nome di Alessandra Garosi non compare. Lo si legge sul retro, ma accanto a quello degli altri musicisti, senza che abbia un rilievo particolare. Al contrario, il nome di Gaslini è sempre in evidenza. In un mondo dove tanti musicisti si affannano per apparire, la modestia è un’espressione di stile. Accanto ad Alessandra troviamo un batterista jazz (Paolo Corsi), una cantante legata al repertorio popolare (Francesca Breschi) e un flautista classico (Stefano Parrino). Questa varietà stilistica è un omaggio alla “musica totale” teorizzata e praticata da Gaslini,

come a sottolineare che esiste una forte sintonia fra i due musicisti. All’iniziale “Les carillons fou”, fatta di brevissime pennellate, Garosi risponde con “Le carillon perdu”, quattro composizioni originali perfettamente intonate all’architettura complessiva del disco. Nella parte finale, “Le voyage”, spicca la batteria di Corsi. La “Suite elisabettiana”, con testi di autori inglesi dell’epoca, viene proposta in una versione più breve rispetto all’originale. La voce di Francesca Breschi passa con disinvoltura dal canto popolare a quello di sapore rinascimentale. Umori jazz e classici si rincorrono e si intrecciano fecondamente in vari brani. Un musicista serio e appassionato non smette mai d’imparare. Dopo il primo maestro, quello dal quale apprende i rudimenti della musica, ne trova sempre altri. A quel punto non si tratta più di maestri in senso stretto, ma di fratelli maggiori. È proprio questo lo spirito con cui la pianista si è accostata al grande jazzista milanese. Chansons et carillons non è soltanto il frutto di uno studio attento, ma anche un omaggio sincero che nasce dal cuore.


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di Simone Siliani

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s.siliani@tin.it

on sono frequenti le belle notizie nel campo del teatro come in quello dell'editoria, per cui il numero zero della nuova rivista trimestrale della Fondazione Toscana Spettacolo, “Il teatro e il mondo”, è una festa. Una rivista che a noi di “Cultura Commestibile” è apparsa subito simpatica perché nell'editoriale del direttore Curzio Maltese abbiamo sentito toni e concetti a noi familiari, come quando si propone di “trasformare la retorica del petrolio italiano in atti concreti legislativi per favorire lo sviluppo della più grande risorsa di cui gode il nostro paese”. Una rivista di teatro per quel “mondo senza limiti” (Sara Nocentini) nel quale gli spettatori in un anno sono più di quelli che seguono la serie A di calcio e nel quale lavorano oltre 250 mila addetti. Eppure un mondo “altro”, ritenuto lontano, irreale, lontano dalla vita quotidiana, astruso a volte, un sogno; ma forse proprio per questo così affascinante, indistruttibile, necessario. La rivista trimestrale intende addentrarsi in questo mondo “altro” per renderlo vicino, aperto, accogliente, senza che se ne perda la magia. Nell'occasione del 25° della Fondazione Toscana Spettacolo, essa si dota di un altro strumento per compiere la sua missione di infrangere le barriere fra il teatro e il territorio, le persone e i non-spettatori, come programmaticamente spiega in un bell'editoriale la presidente Beatrice Magnolfi: non solo per i 180.000 spettatori della stagione 2013-2014, ma soprattutto per loro, i “lontani” che devono essere contagiati “col vizio del teatro”. C'è bisogno di ricostruzione culturale, scrive Magnolfi, e nessuno – neppure la teatralmente colta e popolare Toscana – può chiamarsi fuori perché in questi anni di crisi e disimpegno dei soggetti pubblici dall'impegno diretto in cultura, il teatro può invece costituire l'antidoto, un bisogno primario non un lusso perché primaria è la necessità di una capacità di riflessione critica sul mondo in cui viviamo. Appunto, il Mondo contemporaneo, la sua complessità, le sue contraddizioni eppure la sua estrema vitalità, anche a latitudini lontane dalle nostre: il teatro è ancora uno dei pochi alfabeti in grado di operare una “trascrizione critica del contemporaneo”, per consentirci qualche parziale eppure profonda forma di comprensione di questo mondo, soprattutto “qui ed ora, di fronte alla dittatura del tempo reale che sembra aver bandito la complessità”. Così, il numero zero ci presenta una bella intervista di Gabriele Salvatores sulla sua esperienza, passione, allontanamento e annunciato prossimo ritorno al teatro; Alvaro Piccardi, testimone diretto, rievoca i tempi della Bottega Teatrale di Gassman a Firenze; Nicola Piovani delle difficoltà del teatro musicale in Italia e di esperienze nuove come il Valle Occupato

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Il teatroe il mondo

a Roma; Manuela D'Angelo ci presenta un teatro sconosciuto ai più nella periferia di Toscana, il “Guglielmi” di Massa; Gabriele Rizza pone a confronto generazioni lontane di “teatranti”; Emilio Campolunghi ci porta a conoscere il teatro contempo-

raneo austriaco. Una rivista necessaria, da leggere davvero (sia online che su carta), viva e attiva, che rappresenta una realtà pulsante, in continuo fermento come ancora oggi è il teatro, nonostante la dieta dimagrante impostagli, come a

tutta la cultura, in questo schizofrenico paese che dichiara ipocritamente petrolio una cosa e poi la lascia marcire in fondo al pozzo. Alla Fondazione Spettacolo Toscana e alla sua rivista i nostri auguri di buona e lunga vita.

SCAVEZZACOLLO

Tuo…Catullo

di Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com

E’ notte Lesbia. Ma non dormo. Pensavo: è morto il passero! Mi è dispiaciuto tanto. Non vorrei mai vedere ii tuoi occhi rossi di pianto. Anche il leprotto ha intrapreso la via dell’Ade. E la pernice non è più fra noi. L’usignolo giace ai piedi della quercia e solo ieri avevo posato due fiori gialli sulla tomba del mio grillo. E una rosa su quella della tua cicala. A proposito di cicala, quando ci vediamo? Ti penso sempre. In modo ellenistico s’intende. Quando ero più giovane, i carmi calmavano le mie pulsioni. Quanti carmi mi sono fatto pensando a te, Lesbia! Anche più di cinque ogni giorno. Mi avevi detto che mi preferivi a Giove, e invece mi hai tradito! Stronza! Quem nunc amabis? Quem basiabis? Cui labella mordebis? Ah! Sono fragili le promesse degli amanti! Lo so. Sono scritte sul vento. Sull’acqua che scorre. Anche Cicerone ha parlato male di te, Lesbia. Quel vecchio trombone! Quindi, deinde, ti amo e ti odio ma ti ho perdonato. Vivamus. Amemus. Cosamus. E allora dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi ancora cento, deinde mille, poi centum, mille, centum…siamo a quattromilaquattrocentum…deinde usque altera mille, deinde centum… e siamo a cinquemila seicentum…sono stanco di contare baci e pecorine…tanto non dormo…tuo… Catullo.


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TEMPO RITROVATO

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di Paolo Marini

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p.marini@inwind.it

quietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, e fugge come un'ombra”, non possiamo non rispondere, con il divin Poeta, che fatti non fummo “a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. E allora a tutti i 'grandi', ai 'generosi' che la vita ha chiuso (più o meno momentaneamente) nella 'tenaglia', mi permetto di suggerire una 'fuga sul Kenya'. Se dovessero lasciarsi assalire dalla tentazione dell'antidepressivo... questa fuga è più potente di qualunque pasticca.

L’impresa della vita

iamo agli inizi del 1943. Tre italiani, prigionieri di guerra nel campo inglese di Nanyuki, in Kenya, dopo lunga preparazione e comunque male equipaggiati evadono per conquistare la vetta del monte Kenya. La raggiungono, vi piantano il tricolore, riscendono, tornano sui propri passi e si riportano rapidamente entro i reticolati del campo per consegnarsi alla inevitabile (ma ammirata) punizione. Con ciò hanno affrontato, malnutriti, mille peripezie; a tutti gli effetti si può dire una follia se non fosse che leggendo “Fuga sul Kenya” (Corbaccio, 2012) si scopre che l'autore, Felice Benuzzi, uno dei protagonisti, l'ha rappresentata per ciò che già era: l'impresa di una vita, “una vittoria sulla quotidianità inerte della prigionia, sulla passività, sul presente schiacciante e immutabile che incombeva su di noi da due anni”. Nella bellezza e nel silenzio dei cinquemila i tre si sono appropriati di una ricchezza che nessuno mai potrà loro sottrarre. Ma c'è di più, c'è molto da imparare: fondamentalmente, qui si è compiuto il miracolo di concepire dal nulla ciò che difficilmente avrebbero osato alpinisti di ben altra fama, tecnicamente superiori e magari “allenati, ben nutriti, serviti da portatori, insomma da uomini liberi”; dunque si possono fare grandi cose anche con niente, sol che si sia animati da un fuoco interiore; anche nelle situazioni le più anguste, le più scomode – ammonisce Benuzzi - “esiste un futuro! Se si sa crearlo, se si sa osare (…). Tu puoi rimettere in moto il tempo se ti sai impegnare a fondo con tutto se stesso”. Una volta nella vita Felice, Enzo e “Giuàn” sono stati quello che desideravano essere, liberi, spregiudicati e senza compromessi di sorta. E poi, vi sembran poco l'entusiasmo (“eravamo felici, giovani, leggeri, come non ci eravamo sentiti da chi sa quanti anni”), l'umanità, l'amicizia, quella capacità di stupore tipicamente infantile, l'amore per il creato e l'“inesauribile desiderio di purezza” che sollecitano l'anima via via che la lettura procede? La vicenda della prigionia non è poi diversa da quella di una vita intera. “Per veramente nascere occorre morire”: il diario dell'impresa diventa avventura interiore, spirituale, sempre con un pensiero rivolto 'lassù', nell'ammirazione e nel senso di indegnità dinanzi allo spettacolo “dell'inesauribile vena del Creatore”. Eppure, quando tenta il bilancio dell'impresa, quest'uomo mostra un equilibro disarmante: “il bilancio è questo: riprendi il tuo fardello e ridiscendi ai reticolati (ognuno vi veda pure i propri, di 'reticolati', ndr). A tuo agio in questo mondo non ti troverai mai, perché il tarlo che ti rode è anelito, aspirazione all'Eterno”. Se per il biblico Giobbe “l'uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di in-

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Arte per la sicurezza sulle strade

17 ottobre 2014, Roma. Due auto distrutte da un incidente, nel cuore di piazza Montecitorio, riprendono vita grazie ai colori degli studenti. E con loro due pittrici di eccezione: la presidente della Camera, Laura Boldrini, e la presidente della Rai, Anna Maria Tarantola. Si tratta di Crash Art l'installazione-progetto dell'artista Alexander Jakhnagiev che è stata realizzata a piazza Montecitorio per sensibilizzare sul tema della sicurezza stradale e del rispetto della vita. Nel 2012 ci sono stati circa 3600 morti e quasi 260.000 feriti sulle strade italiane. La gran parte delle vittime degli incidenti, sono giovani o giovanissimi. l'Europa, nel programma 2010-2020, ha chiesto ai paesi aderenti di dimezzare il numero delle vittime attraverso tutta una serie di iniziative, tra le quali anche l'educazione stradale e la diffusione della cultura della sicurezza. La performance è stata organizzata da Rai Isoradio in collaborazione con Aci e Polizia stradale e patrocinata dalla Camera dei Deputati.


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Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

L’insetto narcisista è un kamikaze per disperazione: sa che solo tuffandosi e morendo, può fuggire dal buio che lo attanaglia.

HORROR VACUI

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ODORE DI LIBRI

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di Marco Ricci

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marco_3194@hotmail.it

on capita spesso di leggere un giallo e trovarci dentro molto più di semplici arguzie narrative, colpi di scena o suspence interminabili. Scovare piuttosto i sentimenti più profondi dell’animo umano, i moti che regolano lo spesso irrazionale agire dell’uomo tra le pagine di quello che di primo impatto si presenta come un libro di tutt’altro genere, consono alla trasmissione di ben altre emozioni, rende ancor più piacevole e riflessiva la lettura, di per sé già intrigante, di “Gotico fiorentino”, l’ultimo lavoro di Giacomo Aloigi. Tra le pagine di quello che inizia e si sviluppa a tutti gli effetti come il racconto di vicende intricate, nelle quali il protagonista viene costretto dalle circostanze a rivangare un passato pesante che , con la fuga dalla sua Firenze, aveva cercato di seppellire più di vent’anni prima insieme alla morte di Lodovico, si intrecciano vari piani di lettura ai quali le frequenti digressioni temporali

L'intricato Gotico fiorentino

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forniscono materiale e spunti non solo per una più chiara lettura delle vicende narrate, bensì per una visione a tutto tondo della personalità di tutti i personaggi. La narrazione in tal senso è un punto di partenza interessante per l’autore per raccontare la “vera” storia, o almeno la storia parallela a quella della vita, cioè quella dei sentimenti e in particolare del sentimento più alto, l’amore, non nella sua purezza ma piuttosto nelle sue sfaccettature più varie e nei suoi rovesci spesso confusi. Fa da sfondo all’intreccio un’accurata panoramica della musica dell’epoca, la new wave, così come traspare dai ricordi dei protagonisti, dalla memoria di quegli adulti che ritrovano nelle vecchie incisioni, nei luoghi clou, nient’altro che un’occasione in più per far rivivere qualcosa che non esiste più nella realtà ma pulsa ancora vivida e sempre viva nella memoria. Una morte che dà inizio a tutto, oggetti e persone che sbucano da luoghi e storie quasi dimenticate, o meglio volute dimenticare, e la costante ricerca del protagonista, ancor prima che di risposte sui misteri continui, di sé stesso, coinvolgono e sorprendono ad ogni pagina di più il lettore.

MENÙ di Michele Rescio mikirolla@gmail.com

Prepariamo la ricetta del calzone di cipolla alla barese, una torta salata molto gustosa da preparare con facilità ma con un procedimento un po’ lungo per far lievitare per bene la pasta. Si tratta di una torta salata molto simile alla tiella di Gaeta per la forma ma ripiena di cipolle insaporite con olio, formaggio, olive snocciolate e pomodorini. Per la ricetta originale pugliese sarebbero necessari gli sponsali, in altre parole dei cipollotti bianchi e di forma allungata, ma delle cipolle bianche possono andare bene ugualmente. Il calzone è un rustico di assoluta bontà, per nulla pesante, adatto per ogni occasione. Ingredienti per il calzone di cipolla: 400 g di farina 00 100 g di olio di oliva 1 bicchiere di acqua 100 ml di vino bianco 1 pezzo di lievito di birra 2 cucchiaini di sale fino Per il ripieno: 800 g di cipolle bianche 150 g di olive snocciolate 2 cucchiai di formaggio parmigiano grattugiato 100 ml di olio extra vergine 500 g di pomodori ciliegina Sale Pepe q.b.

Calzone alla barese Preparazione: 1. Disponete la farina a fontana e unitevi al centro vino, olio e lievito sciolto in un poco di acqua tiepida. Impastate e unite il sale, per poi mescolare ancora almeno 15 minuti. Lasciate riposare per almeno 2 ore fino a far raddoppiare il volume dell’impasto. 2. Nel frattempo mondate le ci-

polle eliminandone la parte esterna, tagliatele a fette sottili e lasciatele in ammollo per circa 30 minuti in acqua. Poi scolatele e asciugatele con carta assorbente da cucina e fatele insaporire in olio fino a farle ammorbidire. Salate e pepate, unite le olive. i pomodorini tagliati a metà, il formaggio e mescolate.

3. Una volta pronta la pasta stendetela con un mattarello per ricavarne due cerchi del diametro di circa 28 cm. Disponete un cerchio in conformità a una teglia unta di olio, disponetevi il ripieno e richiudete stando attenti a far aderire i bordi. 4. Infornate il calzone di cipolla a 200°C in forno preriscaldato per almeno 40 minuti o fino a che la superficie sarà ben dorata. Servite tiepida.


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CITTÀ DI CULTURA

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di Ilaria Sabbatini Ilaria.sabbatini@gmail.com

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a poco ho saputo che la capitale europea non sarà nostra. Nostra come Toscana, intendo. Mi dispiace, perché ci tenevo a che fosse rappresentata la mia regione. Ma penso anche che noi siamo una terra fortunata. Senza falsa modestia, credo di abitare in uno dei luoghi più belli che mi poteva capitare. La cultura contadina dietro l’angolo, le città come universi compiuti, le campagne morbide, i colori naturali del senese, l’aura selvaggia del maremmano, le aspirazioni liguri del carrarino, le rivalità rituali del livornese-pisano, la ritrosia lucchese, la sorpresa del volterrano, l’opulenza fiorentina. Ho vissuto metà della mia vita in una città così carica di storia da poterla sentire come un liquido amniotico. Anche nel vicolo del biciclettaio e nel parcheggio a gettone. Di ogni città nuova dove vado, quello che mi preoccupa è ritrovare questo stesso respiro. “Il buon storico - sosteneva Bloch - somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta la carne umana, sa che è la sua preda”. Non posso e non voglio giudicare me stessa, ma so per certo che questo istinto all’umano mi si è radicato dentro ed è diventato potente. Forse anche per la terra dove mi sono formata. Leggere la storia sui muri e nei reticoli delle strade è come avere una finestra interiore sempre aperta sul panorama umano. Ché poi è la cosa più interessante che possa capitare. C’è un senso di continuità intrinseco nella storia che spinge a rivolgere lo sguardo verso il futuro. Gli storici sono gli astronauti del tempo. Amare la storia non significa opporsi alle trasformazioni, tantomeno in questo periodo. E’ una gioia autentica vedere qualcosa rinascere dalle macerie di questi anni bui. Nel piccolo delle nostre città bastano alla gratitudine una caffetteria nuova, una merceria, un panettiere, una libreria che riapre, un alimentari che ritorna in vita al posto delle trappole per turisti. Tutto ciò è umano ed è nostro: fatto a misura di noi che viviamo un paese piccolo, sgarrupato e prezioso. Reso fecondo dalla varietà innumerevole e dall’irriducibile singolarità. E’ per questo che mi piace la nomina di Matera, con la sua storia unica, eppure così significativa per tutti. Matera è parte di quel panorama umano da cui trare forza quello che oggi siamo e ne è la figura per antonomasia. E’ bello osservare tutto ciò che si sta muovendo intorno a questa nomina di capitale europea della cultura. L’ambizione realizzata di una città è diventata l’ambizione di tutti, in un momento storico tanto difficile e tanto speciale come quello che viviamo. C’è fermento nel paese, sta succedendo qualcosa. Non è un fenomeno che ha un nome. E’ più un sentire comune, come una speranza condivisa. Rinascono faticosamente attività e iniziative. Ci vorrà una forza straordinaria. Ed è proprio questa voglia di risalire che Matera incarna. Basta guardare il suo profilo per avvertire la presenza recente di Pasolini. Quel Pasolini che raccontava le città come organismi viventi.

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Per Matera, per tutti

L’APPUNTAMENTO

Anda e rianda in Olanda


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KINO&VIDEO

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di Francesco Cusa

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info@francescocusa.it

on è facile, immaginiamo, fare un film su Leopardi. Martone si cimenta in un’opera ciclopica, ovvero nella trasposizione cinematografica della vita del sommo poeta. “Il giovane favoloso” ha il grande merito di restituirci un Leopardi ironico, tagliente, pur nella sua caustica e determinata concezione del meccanicismo naturale e del pessimismo che governa i destini di uomini, piante e bestie. In realtà ci troviamo di fronte ad un film abbastanza strano, ad una creazione ambigua e controversa. Gli elementi surreali e visionari rampollano a sprazzi, per poi venire riassorbiti dalla cornice classica della narrazione, giacché Martone concepisce l’opera in maniera prettamente didascalica, seguendo un percorso rigorosamente biografico ed una focalizzazione deii tratti salienti della vita tormentata del poeta di Recanati. A tal proposito mi sovviene lo straordinario inizio (da un punto di vista squisitamente visivo, ché cominciare con la siepe e l’allucinata declamazione del poeta non depone affatto bene), con la camera che alterna le riprese in soggettiva (à la Von Trier di “Idiots") del delirio leopardiano rivolto agli alberi, ai boschi, alla selva. O ancora, la scena dello sconcertante confronto con la personificazione gigantesca della Natura medesima, dalle edipiche fattezze della severa ed anaffettiva madre. Sono splendidi squarci che denotano però una sorta di schizofrenia stilistica che non riscontriamo in altri film di Martone. Il quale peraltro gira magnificamente, soprattutto quando si tratta di far muovere la camera negli spazi aperti, con sublimi inquadrature dall’alto. Il costante, pedissequo richiamo alle vicende della vita di Leopardi, che paiono costringere la stessa creatività del regista entro il canovaccio progettuale della sceneggiatura (scritta dallo stesso Martone), finisce così per determinare una sorta di straniamento nello spettatore, che rimane esitante fra le differenti pulsioni narrative. In ciò non aiuta di certo la scelta infelice delle musiche di Sascha Ring, invadenti per tutta la prima parte del film (la sequenza di accordi col synth a fare da bordone è decisamente insostenibile). Anche qui notiamo una certa incoerenza stilistica. La straordinaria prova di Elio Germano inoltre, non trova sempre il contrappunto armonico con gli altri attori comprimari, fatta forse eccezione per le figure del padre, Il Conte Monaldo e dello zio, Carlo Antici (buone le prove di Massimo Popolizio e Paolo Graziosi, anche se un po’ troppo affettate). Il film fa comunque breccia, ma non sapremmo dire se per ragioni relative al fascino intrinseco esercitato da Leopardi, o se per merito di Martone e del suo anelito descrittivo. Propendo più per la prima ipotesi: siamo di fronte a

La schizofrenia stilistica del giovane favoloso

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quella che Furio Jesi definirebbe “tecnicizzazione del mito”, o meglio “macchina mitologica”. In questo caso, della vita “mitologica" di Giacomo Leopardi, qui "messa in scena” nel paradosso didascalico che finisce col divenire deriva mitopoietica. In definitiva, potremmo considerare “Il giovane favoloso” come una sorta di ragionieristico zibaldone, troppo aderente e prossimo alla morfologia della vita e delle opere di Leopardi. Manca, in buona sostanza, lo sguardo distante, il disincanto partecipe che fa di ogni trasposizione cinematografica un’opera prima.

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Bagni Mani d’autore di luce

Eclettico Spazi d'Arte presenta Toletta bagno retrospettivo con una selezione di pezzi unici. L’allestimento del PopUp Show Toletta all’interno della galleria negozio fiorentino propone 4 consolle della collezione composta da 14 pezzi unici, a stretto contatto con la selezione d’arredo di Design del XX secolo e opere di fotografia e arte contemporanea, che lo spazio espone. L’intera gamma dei prodotti di Toletta si può visualizzare nel nuovo sito:www.toletta.net

L’alluminio come palinsesto ideale per sperimentazioni su luce e colore, ma soprattutto come mezzo di riflessione sulla figura umana e sul rapporto tra mondo terreno e ultraterreno. L’artista slovacco Robert Hromec espone per la prima volta a Lucca con la mostra personale dal titolo “Mani di luce”, allestita nel Lu.C.C.A. Lounge fino al 2 novembre 2014 (ingresso libero), e che sarà inaugurata alla sua presenza venerdì 10 ottobre alle ore 18. Nelle sue opere, che giocano con l’illusione ottica, ricorre frequentemente il simbolo della mano. Espressione dell’idea di attività, di emblema regale, di strumento di autorità, di potenza e di dominio, la mano si associa anche, nella cultura dell’Estremo Oriente, ad azioni legate all’accoglienza spirituale e all’esperienza interiore. “Robert Hromec – sottolinea Maurizio Vanni, direttore del Lu.C.C.A. –, prima ancora di manifestare segni e simboli, macchie di colore in una superficie considerata parte attiva, si appropria di uno spazio, più mentale che fisico, tra-

sformandolo nella dimensione del qui e ora dove la composizione si apre ai nostri occhi quasi come un enigma da decifrare”. Nelle opere dell’artista di Bratislava è come se si componesse una sorta di danza delle mani legata sia ai movimenti e alle forme che esse assumono sulla superficie dei suoi lavori, sia per la loro posizione rispetto al resto del corpo. “Hromec – continua Vanni – utilizza spesso la simbologia delle mani, la loro differente postura, il diverso posizionamento delle dita, e la loro relazione con lo spazio e tra loro stesse. In modo quasi ossessivo, le mani si trasformano in tracce esistenziali, in orme cerebrali che sembrano volerci suggerire qualcosa di primordiale e magico”.


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REBUS ISPANICO

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di Valentina Monaca

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espulsi, nel 1492, durante il regno di Isabella La Cattolica, molti si convertirono al cristianesimo e cambiarono il proprio nome in Manuel o Manuela, da lì la tradizione ancora in voga di chiamare gli abitanti del quartiere Manolos. Oggi però, più che Manolos ci sono tanti Mustafà, Abdul, Jiang, Xu, Wei, Amal, Raji… con le loro relative attività commerciali: saloni di bellezza cinesi, ristoranti indiani, egiziani, marocchini e negozietti di alimentari pa-

guidata dal deputato missino Pietro Cerullo, con diversi feriti fra i dipendenti del Motta Grill e l’arresto di un attivista del FUAN; il 22 telefonata anonima che segnala una bomba; il 24 manifestazione conclusiva della Festa dell’Unità a Venezia: a Cantagallo si fermano centinaia di pullman con la gente che scandisce lo slogan

“Almirante sciacallo digiuno a Cantagallo”; il 25 due studenti di estrema destra picchiati a Bologna; il 26 finisce all’ospedale Giorgio Cremaschi, delle Federazione Universitaria del PCI Inoltre 16 lavoratori vengono incredibilmente denunciati per violazione della legge sugli scioperi. Il Canzoniere delle Lame, gruppo musicale di Bologna, produsse quasi in tempo reale un 45 giri con la canzone “All’armi siam digiuni” (la trovate fra le canzoni raccolte da http://www.ildeposito.org/) e regalò il disco ai lavoratori denunciati che lo vendevano sottobanco ai clienti del Grill per sostenere le spese processuali: qualche tempo dopo furono tutti assolti perchè “il fatto non costituiva reato”. Fra i benpensanti che stigmatizzarono l’azione spontanea dei lavoratori, si distinse il “Resto del Carlino”, ma, come chiude la canzone “Poc da fèr mo’ què a Bulagna pr’i fasesta an’gn’è gnanc un panein" (ovvero “C'è poco da fare, qui a Bologna per i fascisti non c'è nemmeno un panino”)

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Di tapa in tapa lera a centro tavola. Con queste premesse, all’ora X del giorno X ci ritroviamo 5 amici nel quartiere più multiculturale della città, Lavapiés. Nome curioso in effetti: la leggenda vuole che il quartiere debba questo nome alle cerimonie che gli ebrei facevano nella piazza centrale prima di entrare nel tempio e fra queste, per l’appunto, anche la lavanda dei piedi da cui il nome “Lavapiedi”. Quando poi gli ebrei vennero

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chistani, nepalesi… Quale cornice migliore, quindi, per ospitare tapas internazionali e fusion e fare un bel giretto fra le cucine di mezzo mondo! L’occasione è letteralmente troppo ghiotta e così andiamo di bar in bar assaggiando le tapas più originali e gli accostamenti più insoliti, tutto rigorosamente da condividere. E fra un boccone e l’altro, passiamo per i Paesi Baschi, con il Pane di mais con gelatina di pomodoro e il Baccalà marinato con cipolla e acciughe ricoperto di basilico e olive, poi per il Giappone, rappresentato dalla Tartar Washoku di salmone e medusa e dalla Galizia, con le sardine al peperone verde, per approdare infine in Italia con le Barchette di pizza ai peperoni e scamorza… il tutto irrigato dalla nostrana birra Estrella Damm, sponsor di Tapapiés, a solo 1€ la bottiglia. Quando barcollando decidiamo di avviarci verso la metro, siamo investiti dalle note di una samba che un gruppo di artisti di strada sta suonando non lontano, e anche stavolta, come poco prima davanti al Pollo Thai in salsa di mandorle, non resistiamo e sgomitiamo fra la folla. Dopo di loro canterà un’artista senegalese e poi ci sarà la performance di un trio di ballerini colombiani e i ritmi balcanici di un quartetto di musicisti. In totale, secondo il programma, sono previsti 60 concerti en plein air per tutta la durata del Festival. Ormai siamo in ballo e non ci resta altro che ballare, ma quando ci lasciamo prendere dai ritmi caraibici non sappiamo ancora che il nostro viaggio non è finito lì e che il Messico, la China e l’Andalusia ci aspettano a un tavolino dall’altra parte della strada…

valentina.monaca@piccolomoresco.com

on di solo pane vive l’uomo... e infatti, da quando è iniziato il Festival della Gastronomia “Tapapiés”, a Madrid strafogarsi di tapas è un imperativo categorico, prima di tutto perché ir de tapas è quasi uno sport nazionale e poi perché adesso è persino low-cost. Nel centralissimo quartiere di Lavapiés, dal 17 al 26 ottobre, si tiene infatti la fiera gastronomica più multietnica ed economica della penisola, con 90 tipi di tapas provenienti da ben 21 paesi a solo un euro l’una. Per chi non avesse dimestichezza con gli usi e costumi della gastronomia spagnola ecco un ultile prontuario. La Real Academia Española, alla voce tapas, recita: “piccole porzioni di cibo da condividere e che accompagnano la bibita”. La parola chiave della definizione e’ “condividere”. A me è sempre piaciuto il concetto di condivisione: condividere una casa in affitto durante gli anni dell’università, condividere le spese, condividere l’ufficio con un collega, la connessione wireless con un vicino, condividere gioie e dolori con amici e con parenti, condividere un tavolo al bar… ma qui si esagera davvero! Perché in Spagna, al grido di compartir es vivir (condividere è vivere), le forchette affondano all’unisono, a casa come al bar o al ristrorante, in uno stesso piatto comune e si condivide persino un’insalata o delle sugose albondigas polpettine di carne cucinate con una salsa a base di pomodoro spezie, cipolla, carote ecc. ecc…- per non parlare della paella domenicale, servita nella tradizionale e immancabile pael-

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GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI di Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it

Premetto che il legame di questa storia con Firenze è evidentemente molto labile, solo il fatto che l’A1 passa anche sul territorio comunale fiorentino, oltre che su quello di qualche altro centinaio di Comuni. Ma poiché, come ho potuto constatare, si sta perdendo il ricordo di quei fatti, avvenuti tutto sommato non moltissimi anni fa, mi è parso giusto proporla perché, secondo me, è una “grande” storia, anche se non in “piccoli” spazi. Sono le 12:30 circa del 18 Giugno 1973; è una giornata caldissima e, sull’A1, un piccolo corteo di macchine ha appena superato Bologna e prosegue per Roma via Firenze. E’ l’ora di pranzo e le auto si fermano al Motta Grill di Cantagallo: è intenzione dei loro occupanti pranzare e fare rifornimento di benzina. Il gruppetto di uomini entra nell’Autogrill, ma un barista riconosce uno di loro: è Giorgio Almirante, segreta-

Autostrada del Sole

Sciopero

rio del Movimento Sociale e gli altri sono suoi collaboratori e guardie del corpo. Proprio in quel periodo Almirante aveva denunciato per diffamazione L’Unità, che aveva pubblicato un bando dei tempi della Repubblica Sociale, a sua firma, che comminava la pena di morte ai renitenti alla leva (nel 1974 il processo avrebbe stabilito che i giornalisti dell’Unità avevano “dimostrato la veridicità dei fatti”). La voce si sparge in un attimo: c’è il “fucilatore di partigiani” e immediatamente il personale del bar e del ristorante entra in sciopero e si rifiuta di servire i missini; stessa sorte anche per il rifornimento, con i benzinai che incrociano le braccia. Il gruppo riparte a pancia vuota e con le macchine in riserva. L’episodio ebbe numerosi strascichi: il 21 giugno “spedizione punitiva”,


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L’ULTIMA IMMAGINE

n 95 PAG. sabato 18 ottobre 2014 o

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San Jose, California, 1972

berlincioni@gmail.com

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni

Pesantezza e leggerezza, questo rappresentano ai miei occhi le due immagini scattate durante il mio primo viaggio in California. Tutte e due riprese dal sedile dell’auto su cui in quel momento mi trovavo. Per ciò che riguarda la visione quotidiana il sedile di un’auto è uno dei punti di vista più comuni da queste parti e, anche se i momenti sono molto diversi, il punto di vista rimane sempre più o meno lo stesso. Il contrasto tra le due immagini è decisamente evidente e mi pace

per questo il loro accostamento. Una strada di grande comunicazione la prima, con suoni, rumori, traffico pesante e inquinamento, visioni molto frequenti in questa area industriale della città. Il senso di pesantezza sonora e fisica balza all’occhio con grande evidenza e mi ha spinto per converso all’accostamento con l’immagine in basso. Qui ero fermo, seduto al volante, in attesa che mia moglie tornasse alla macchina dopo aver fatto un po’ di shopping. Con la coda del-

l’occhio mi sono accorto che questa ragazzina “down” stava correndo verso l’onnipresente “U.S. Mailbox”, la cassetta delle poste che noi abbiamo imparato a conoscere attraverso le pellicole americane. Sono stato immediatamente colpito dal senso di grande leggerezza e dalla delicatezza con cui si apprestava a consegnare alla posta quello che ho sempre voluto immaginare come un messaggio per lei molto importante!


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