Padalo dunque sono

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea in Filosofia

Laurea Triennale in Filosofia Etico-politica

“PEDALO, DUNQUE SONO”: PERCHÉ ANDARE IN BICICLETTA PUÒ ESSERE UNA FILOSOFIA DI VITA

RELATORE Chiar. mo Prof. Ottavio Marzocca LAUREANDA Luisa Gissi

ANNO ACCADEMICO 2010-2011 1


Indice

INTRODUZIONE.................................................................................3 CAP. 1 Abitare il/nel mondo: tra Heidegger e Arendt.......................................9 CAP. 2 Energia ed equità: pensare la mobilità nell'ottica di Illich..................17 CAP. 3 Critica delle automobili e rapporto tra identità e luoghi.....................26 CAP. 4 Dai nonluoghi al bello della bicicletta: idee dell'antropologo Augé...33 CAP. 5 La bicicletta come movimento politico...............................................42 CAP. 6 Percezione del tempo e questione della velocità: Virilio....................53 CAP. 7 Le città e i luoghi, tra globale e locale................................................61 CAP. 8 La questione ecologica........................................................................71 CONCLUSIONI..................................................................................81 Bibliografia..........................................................................................84 Sitografia.............................................................................................88 Ringraziamenti....................................................................................89

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INTRODUZIONE “Le tentazioni alla passività, che molti individui subiscono nella relazione con i vari mezzi di comunicazione, svaniscono non appena si mettono in sella; diventano responsabili di loro stessi e ne sono subito consapevoli […] Se in più si tiene conto del fatto che l'uso della bicicletta permette loro di ripiombare nei ricordi dell'infanzia e nello scorrere della loro esistenza, si può concludere che l'esperienza del ciclismo è una prova esistenziale fondamentale che rinsalda coloro che vi si dedicano nella loro stessa coscienza identitaria: pedalo, dunque sono.”1 Andare in bicicletta come filosofia: un'idea apparentemente distante dal senso letterale della filosofia greca come “amore per la sapienza”, ma che tanto si avvicina se pensiamo che proprio per i filosofi greci fare filosofia era anzitutto uno stile di vita, un “vivere come si pensa”. L'antropologo Augé ha pensato al ciclismo come “forma di umanesimo”2, foucaultianamente lo definirei una controcondotta: una “reazione diversa” ad abitudini – a questo ethos ormai cambiato – che hanno preso piede nella nostra società. Chiaramente non stiamo 1 Marc Augé, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 63. 2 Ivi, p. 65.

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parlando del ciclismo come sport, quanto piuttosto di quello urbano, quotidiano, di gente comune e non di atleti professionisti. Pensare la bici come una filosofia di vita talvolta rientra tra le “frasi fatte” di giornali e rotocalchi, quasi sempre associata ai “fanatici” dell'ecologia, spesso bistrattata o considerata come un tentativo nostalgico e anti-moderno contro l'ingresso dirompente delle auto nella nostra vita. Proprio per confutare questi luoghi comuni, e per dimostrare la profondità di significato di un gesto apparentemente banale: pedalare (ma che differenza tra i pedali della bicicletta e frizione – freno – acceleratore!), occorre sviluppare una riflessione non superficiale sul tema. Con questo non si vuol dire che per andare in bici bisogna essere filosofi, siamo ben lungi da affermare “un'eresia” del genere, ma le due ruote possono essere un mezzo per aprire la mente a nuovi punti di vista (uno dei modi per vivere una controcondotta). Sono tanti gli aspetti che si possono affrontare se si pensa ad una “filosofia della bicicletta”, tanto che Didier Tronchet3 ha coniato il termine ciclosofia4, caratterizzata da una multidisciplinarietà che coinvolge filosofia, antropologia, ecologia, ma anche urbanistica, sociologia, psicologia. Il suo Piccolo trattato di ciclosofia. Il mondo visto dal sellino è stato lo spunto iniziale per queste riflessioni che hanno trovato poi fondamento, con piacevole stupore, anche nel pensiero di altri autori molto distanti da questo giornalista-tuttofare contemporaneo. Con alto senso pratico e ironia, Tronchet nota che la prima cosa che 3 Giornalista, regista, disegnatore, attore e sceneggiatore francese (anche lui, come Augé.. Sarà un caso?). 4 Didier Tronchet, Piccolo trattato di ciclosofia. Il mondo visto dal sellino, Il Saggiatore, Milano 2004.

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distingue un ciclista da un automobilista è il fondoschiena, che invece accomuna chi guida a chi guarda la televisione, visto che non c'è molta differenza tra un divano e un sedile. Entrambi, rispetto a chi pedala, perdono la dignità. Sono prigionieri, di mura o di lamiere. “La nuova rivoluzione (cicloruzione) può venire semplicemente da questa alternativa mattutina: prendo l'automobile o la bicicletta? Chi avrà scelto la macchina e pertanto avrà coordinato movimenti secchi, precisi e meccanici, subìto con rassegnazione o eccitazione gli ingorghi, lottato per trovare un parcheggio, porterà con sé dall'inizio della

propria

giornata

lavorativa

una

parte

di

questa

Programmazione neurolinguistica casuale. C'è da temere che essa eserciterà il suo nefasto influsso sulle più minute decisioni o relazioni umane. Questi è partito con il piede giusto per alimentare, con il proprio fuoco già ben attizzato, il grande Moloch dello spirito di competizione. Immaginiamo che lo stesso uomo abbia invece scelto di andare in bicicletta a occupare il proprio posto nel Grande Processo di Produzione. La ventiquattrore sul portapacchi, avrà respirato aria viva, avrà fatto surf tra le lamiere d'acciaio accalcate, sarà corso dietro a un passerotto irragionevole, sarà stato trafitto dalla luce mattutina dell'inizio del mondo, e grazie a tutto questo si sentirà rigenerato.”5 “La bicicletta non è una non-auto”, ma la contrapposizione è inevitabile data la “colonizzazione dello spazio vitale da parte delle quattro ruote”. Considerando il numero dei morti per incidenti stradali, Tronchet fa una geniale analogia: “nessun'altra specie, nella 5 Ivi, p. 9.

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storia della creazione, ha mai generato il proprio predatore con tanto entusiasmo. I topi non sono mai andati al Salone del gatto.”6 Il Salone dell'Auto come paradosso del nostro essere preda delle nostre “creature”7. Le sensazioni positive date dal movimento fisico sono un altro aspetto non irrilevante: ormai ci si muove stando fermi (in auto, in treno, in aereo), dimenticando la forza delle nostre gambe. I pensieri sono più puliti e meno nervosi se si è giunti in un posto camminando o pedalando, senza la possibilità di ostacoli insormontabili come un ingorgo infinito o un ritardo ferroviario. Ma per parlare di questo occorre riflettere anche sul cambiamento delle distanze quotidiane. Sulla percezione dello spazio, della velocità e del tempo (Virilio ci aiuta molto in questo). E di se stessi. “Trasportato da un luogo a un altro da un assemblaggio di lamiere a propulsione meccanica, il corpo umano ha forti probabilità di trovarsi nello stesso identico stato all'arrivo […] lo spirito umano sarà complessivamente nel medesimo stato di coscienza.” Invece, “in bicicletta chi parte e chi arriva non è mai esattamente la stessa persona.”8 E a livello sociale? Ancora Tronchet nota che, sulla strada, mentre gli automobilisti sono avversari, i ciclisti sono solidali. Semplicemente perché lo spirito di competizione diverrebbe un suicidio per questi ultimi. Chi guida è convinto, malamente, di essere al sicuro, e si pone in un certo modo. “L'assopimento dei sensi ne è il mortale corollario”. Chi pedala è convinto, giustamente, di essere in pericolo 6 Ivi, p. 11. 7 E quanta storia della filosofia sull'idea del Golem... Perché l'auto non potrebbe essere un Golem? 8 Ivi, p. 36.

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(date le velocità medie, meno dell'automobilista), e si pone in un altro modo. “La bicicletta, prima ancora di essere un mezzo di locomozione, è un meraviglioso strumento per la conoscenza di sé […] La ciclosofia è pertanto l'insieme delle idee, delle intuizioni e delle sensazioni nate sulla bicicletta. […] Mezzo di locomozione fisico, certo la bicicletta è soprattutto un mezzo di locomozione della coscienza. E il principio ciclosofico fondamentale è: ogni corpo su una bicicletta assiste a uno spostamento del proprio sguardo sul mondo. All'esterno, ci si sposta in bicicletta. Ma all'interno, è la bicicletta che ci sposta.”9 Chi meglio degli studiosi dello spazio urbano può aiutarci a capire le potenzialità etiche, filosofiche e politiche della bicicletta? Dai nonluoghi descritti da Augé al rapporto globale-locale secondo Magnaghi, Sassen e Davis, si vedrà come la bicicletta può diventare protagonista di una vita diversa da quella che ci viene propinata dai piani urbanistici a misura non umana. “La bicicletta inventa una nuova geografia della città […] La bicicletta modifica il tempo, ma anche lo spazio. Rifate con la macchina un tragitto particolarmente bello in bicicletta. Fa schifo.”10 “Nello spazio urbano, il criterio di esistenza è ormai proporzionale all'inquinamento acustico.”11 Il silenzio della bicicletta sorprende il pedone che attraversa la strada distratto, ma regala suoni dimenticati quando le strade sono 9 Ibidem. 10 Ivi, p. 55 e p. 131. 11 Ivi, p. 44.

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miracolosamente vuote per brevi istanti di non traffico. Prendendo spunto da diversi autori (filosofi, antropologi, urbanisti, ecologisti) ho scelto alcuni di questi temi, seguendo un ordine “a misura di due ruote”, e provato a parlare di una filosofia dell'andare in bicicletta, che in realtà diventa una vera e propria filosofia di vita coinvolgendo ogni aspetto del quotidiano sino appunto a diventare una “prova esistenziale fondamentale”12. Un circolo che inizia e “finisce” (che però, proprio in quanto circolo, non può finire mai) nello stesso punto: dalle idee prettamente filosofiche di Heidegger e di Arendt sul concetto di abitare il mondo (ecologia è lo studio di oikos, che è ambiente in quanto casa), alla mobilità connessa ad energia ed equità di Illich, all'antropologia di Augé e La Cecla, ad esempi concreti di “controcondotta”: andare in bicicletta come movimento politico (il caso della Critical Mass, ma anche esempi di scelte politiche in senso stretto in alcune realtà urbane), alla percezione del tempo e dello spazio secondo Virilio e altri urbanisti, per chiudere infine con la questione ecologica in senso stretto (siamo così tornati allo studio dell'oikos). L'idea di un circolo (come una ruota di bicicletta) di pensieri multidisciplinari

per

sviluppare

una

controcondotta

(re)imparare ad abitare pedalando: questa è la mia proposta.

12 Marc Augé, Il bello della bicicletta, op. cit., p. 63.

8

volta

a


CAP. 1 Abitare il/nel mondo: tra Heidegger e Arendt “La vera crisi dell'abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca dell'essenza dell'abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare.”13 Non è dato di sapere se Martin Heidegger andasse o meno in bicicletta, ma questa conclusione, a cui perviene nel saggio Costruire abitare pensare, può essere un indizio per constatare la sua attenzione all'ambiente in cui viviamo. Ogni stile di vita richiede (e anche quando non richiede, implica) delle “basi filosofiche” (se, appena, si pensa quando si vive...). Nel saggio su citato e in Vita activa. La condizione umana14 di Arendt, si possono individuare due solidi pilastri filosofici per uno stile di vita attento alla Terra – in opposizione rispetto all'individualismo dell'uomo contemporaneo concentrato su se stesso – proprio per la focalizzazione di alcune riflessioni sul concetto dell'abitare. Da esseri umani, il nostro modo di essere sulla Terra è l'abitare. 13 Martin Heidegger, Costruire abitare pensare. Conferenza del 5 agosto 1951 nel quadro del Secondo Colloquio di Darmstadt su “Uomo e spazio”. In Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 108. 14 Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964.

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“L'abitare è il tratto fondamentale dell'essere in conformità del quale i mortali sono.”15 Abitiamo il mondo e nel mondo: per volontà potremmo estraniarci e non vivere il mondo, rinchiudendoci in luoghi che non ci facciano pensare a quello che c'è “là fuori”, o nel virtuale; ma, pur rinchiusi in un qualsiasi posto (reale o virtuale), questo sarà collocato nel mondo.16 “Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare.”17 Così Heidegger risponde alla domanda “cos'è l'abitare?”: “l'abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell'abitare risiede l'essere dell'uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra.”18 Non potremmo essere se non abitassimo. L'abitare sta nell'essenza dell'essere uomo: un uomo è se abita. Perché risiede, ma anche perché fa. “Non ci limitiamo ad abitare, sarebbe come un non far nulla, ma invece siamo in un certo mestiere, facciamo degli affari, viaggiamo e abitiamo da qualche parte mentre siamo in viaggio, ora in un posto ora in un altro. […] L'abitare è già sempre un soggiornare presso le cose.”19 Soggiornando sulla terra siamo costretti, per co-esistenza, a relazionarci con essa e con gli altri esseri (non solo umani) che la popolano (per questo “soggiorniamo presso le cose”). Haeckel20 così definiva la scienza ecologica: “la conoscenza della somma delle 15 Martin Heidegger, op. cit., p. 107. 16 Forse non siamo molto lontani dal momento in cui potremo rinchiuderci in posti fuori dal mondo, esplorare l'Universo – ma dovremo comunque relazionarci con il posto-Universo! 17 Ivi, p. 97. 18 Ivi, p. 99. 19 Ivi, p. 97, p. 101. 20 Biologo tedesco, che ha coniato appunto il termine “ecologia” (nella sua accezione prettamente scientifica).

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relazioni degli organismi con il mondo esterno circostante con le condizioni organiche ed inorganiche dell’esistenza.”21 Sia che la si veda da una prospettiva scientifica che da una filosofica, l'esistenza non può prescindere da relazioni. Ecologia, etimologicamente, viene da oikos che è “ambiente” in quanto “casa”. L'uno e l'altra li abitiamo. Pare chiaro il nesso inestricabile tra i due concetti, dell'oikos e dell'abitare. Comprenderne il più possibile il significato richiede una complementarità degli studi al loro riguardo. L'uno ci aiuta a capire l'altro. Abitare come soggiornare presso le cose, come risiedere presso i luoghi: di fatto in cosa consiste? E' la nostra quotidianità, la nostra essenza di uomini: è nel modo in cui si abita che si definisce il nostro modo di vivere e quindi di essere. La questione ecologica, nell'accezione appena descritta, è anzitutto ontologica! “Il tratto fondamentale dell'abitare è questo aver cura.”22 Questa definizione contiene in sé una scelta di vita, esistenziale: l'aver cura. Per essere uomini bisogna abitare, questo implica l'aver cura, nell'essere uomini è insito l'aver cura della terra che si abita: argomento semplice, ma non semplicistico, per affermare la necessità di porre attenzione all'ambiente. “I mortali abitano in quanto essi salvano la terra. […] Salvare non significa solo strappare da un pericolo, ma vuol dire propriamente: liberare qualcosa per la sua essenza propria. Salvare la terra è più 21 Ernst Haeckel, Generelle Morphologie der Organismen (1866). 22 Martin Heidegger, op. cit., p. 99.

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che utilizzarla, o, peggio, sfiancarla. Il salvare la terra non la padroneggia e non l'assoggetta; da questi atteggiamenti, manca solo un passo perché si instauri uno sfruttamento senza limiti.”23 Questa attenzione, che è cura, non vuol dire solo non sfiancare la Terra (che è il significato più immediato, e su cui attualmente più si riflette, dello sfruttamento delle risorse24), ma anche risiedere vivendo ed esprimendo la propria essenza umana: rapportarsi in con-vivenza. E' qui che si innesta il discorso antropologico.25 In questo senso la crisi dell'abitare è legata alla nostra necessità di “imparare ad abitare”26. Portare l'abitare nella pienezza della sua essenza dev'essere uno dei compiti dei mortali: “essi compiono ciò quando costruiscono a partire dall'abitare e pensano per l'abitare” 27. Il pensare stesso rientra nell'abitare. “Quello che io propongo, perciò, è molto semplice: niente di più che pensare a ciò che facciamo.”28 Il punto di partenza della riflessione di Hannah Arendt – la condizione umana – è diverso da quello heideggeriano, tuttavia ci sono dei risvolti del suo pensiero che molto si avvicinano a questo problema dell'abitare. Per comprenderli conviene partire dal principio: la definizione delle attività umane a cui corrispondono le “condizioni di base in cui la vita sulla terra è stata data all'uomo”29, e cioè l'attività lavorativa, l'operare e l'agire. La prima è legata alle necessità della vita biologica, 23 24 25 26 27 28 29

Martin Heidegger, op. cit., p. 100. Vedi cap. 8 di questa tesi, “La questione ecologica”. Vedi cap. 3 e ss. Vedi cit. inizio cap., Martin Heidegger, op. cit., p. 108. Ibidem. Hannah Arendt, op. cit., p. 5. Ivi, p. 7.

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la seconda alla mondanità delle cose artificiali, la terza alla condizione della pluralità. Alla nostra riflessione interessano in particolare le prime

due,

che

si

caratterizzano

per

un'altra

distinzione,

rispettivamente: tra la terra, “vera quintessenza della condizione umana”30, che è contesto del vivere; e il mondo artificiale, che è contesto dell'abitare. Il lavoro, contestualizzato materialmente sulla terra, è volto praticamente alla conservazione della vita naturale: mediante il lavoro si svolge un ciclo infinito tra produzione e consumo. Biologicamente, per vivere, dobbiamo lavorare, ossia svolgere quelle attività che consentono al nostro corpo le sue funzioni basilari. I prodotti di queste prestazioni sono effimeri, destinati per natura a consumarsi spesso nell'atto stesso della loro produzione. L'opera, contestualizzata materialmente nel mondo artificiale, invece destina – in teoria – i suoi prodotti all'uso, che si protrae nel tempo. Le cose del mondo servono a stabilizzare la vita umana. “La condizione umana dell'operare è l'essere-nel-mondo.”31 Dunque, prima il lavoro per vivere sulla terra. “Il secondo compito del lavoro è la sua costante, interminabile lotta contro i processi di sviluppo e deperimento attraverso i quali la natura invade sempre il mondo artificiale creato dall'uomo, minacciando la durevolezza del mondo e la sua disponibilità per l'uso umano. La protezione e la preservazione del mondo contro i processi naturali richiedono il compimento monotono di faccende ripetute quotidianamente.”32 Per vivere sulla terra abbiamo bisogno di preservare il mondo, che è propriamente umano. Poi attraverso l'opera ci attiviamo per abitare il 30 Ivi, p. 2. 31 Ivi, p. 7. 32 Ivi, p. 71.

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mondo e relazionarci con le cose artificiali.33 Il problema si pone nel momento in cui si confondono consumo e uso: in teoria un oggetto d'uso permane, a meno che non venga deliberatamente distrutto. La nostra società si è abituata presto all'obsolescenza: abbiamo bisogno di nuovi oggetti d'uso da consumare, anche se quelli vecchi funzionano ancora (ma non abbastanza per il progresso tecnologico). La “questione ecologica” non consiste solo nella sostituzione del mondo naturale con quello artificiale, ma nel consumo di tale mondo e nel problema dell'abitare: abitando il mondo dovremmo usarlo e non consumarlo. Preservarlo dalle insidie della natura non può essere una giustificazione per distruggerla: senza terra non può esserci mondo, la necessità biologica viene prima di quella della mondanità. “Il pericolo della futura automazione non è tanto la deplorata meccanizzazione e artificializzazione della vita naturale, quanto il fatto che, nonostante la sua artificialità, ogni produttività umana sarebbe risucchiata in un processo vitale enormemente intensificato, e seguirebbe automaticamente, senza pena o sforzo, il suo sempre ricorrente ciclo naturale. Il ritmo delle macchine intensificherebbe a dismisura il ritmo naturale della vita, ma non modificherebbe, rendendola solo più micidiale, la funzione principale della vita rispetto al mondo, che consiste nel consumare ciò che è durevole. […] lo spettro di una società di mero consumo è più allarmante in quanto ideale della società attuale che come una realtà da sempre esistente. […] E che cos'altro è, infine, questo ideale della società moderna se non l'antico sogno del povero e dell'indigente, che può avere un 33 La terza attività, l'azione, non ci interessa per il momento. Ne riparleremo nel cap. 5.

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fascino finché rimane un sogno, ma diventa il paradiso di un pazzo non appena è realizzato?”34 Dovremmo trasformare i tempi verbali di queste affermazioni 35: il ritmo delle macchine, ormai, ha intensificato il ritmo della vita. 36 La consumazione di ciò che è durevole in che misura è accettabile? Quanto è lontano questo “paradiso di un pazzo”? L'alienazione del mondo moderno è una duplice fuga: dalla terra all'universo e dal mondo all'io.37 Questo perché: 1) abbiamo dimenticato che l'unico habitat38 che ci accoglie senza problemi “naturali” è quello da cui stiamo fuggendo (da quando siamo riusciti ad andare sulla luna, ma lì non possiamo respirare senza macchine) e che stiamo distruggendo deliberatamente (come se fosse un prodotto da consumare e non un mondo da usare [cioè: abitare] 39); 2) l'intensificarsi del processo vitale causato dall'automazione ci rende difficile relazionarci col mondo e preferiamo chiuderci nell'io. “Ciò che rende la società di massa così difficile da sopportare non è, o almeno non è principalmente, il numero delle persone che la compongono, ma il fatto che il mondo che sta tra loro ha perduto il suo potere di riunirle insieme, di metterle in relazione e di separarle.” 40

Problematico non è solo il processo di distruzione del nostro habitat, ma tutto quello che esso implica: consumando il mondo, velocizzando la vita, non abitiamo più, anche perché cambia il modo di relazionarci 34 35 36 37 38 39

Ivi, pp. 93-4. Vita activa è stato pubblicato (in America) nel 1958, più di mezzo secolo fa. Al problema della velocità è dedicato nello specifico il cap. 6. v. Hannah Arendt, op. cit., p. 6. Non a caso habitat viene dal latino habitare. Si pensi al significato che assume oggi l'espressione bene di consumo, praticamente l'opposto di quello che Arendt intende per consumo. 40 Hannah Arendt, op. cit., p. 39.

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– a noi stessi e all'altro. Il problema dell'abitare si è rivelato più complesso di quello che poteva sembrare. Le implicazioni che comporta, sia da un punto di vista heideggerriano che da un punto di vista arendtiano, sono numerose e riguardano l'uomo sotto diversi aspetti. Per quanto differenti, quello che ci interessa di queste riflessioni è capire come possiamo vivere il mondo rispettandolo, con tutti quelli che ci abitano, noi compresi. La proposta di pensare l'andare in bicicletta come filosofia di vita vuole inserirsi in questo contesto: è un modo di abitare il mondo nella forma del rispetto, anche di se stessi, che comporta delle differenze sostanziali in confronto alle abitudini più diffuse della società contemporanea. Non si vuol certo dire che Arendt o Heidegger sicuramente condividerebbero quest'idea, ma attraverso il loro pensiero si sono poste delle basi per svilupparla, rifacendosi ora non solo alla filosofia in senso stretto, ma attingendo anche da antropologia (soprattutto), sociologia, urbanistica – perché in fin dei conti, tutto ciò che riguarda l'uomo implica il suo pensare, e laddove c'è pensiero bisogna fare in modo che ci sia non solo senno, ma anche filosofia.

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CAP. 2 Energia ed equità41: pensare la mobilità nell'ottica di Illich “La bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un'auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un'unica vettura. Per portare quarantamila persone al di là di un ponte in un'ora, ci vogliono tre corsie di una determinata larghezza se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due se le quarantamila persone vanno in bicicletta.”42 Prima di arrivare al nodo principale, cioè quello strettamente socioantropologico, è la concretezza di un pensatore fuori dagli schemi come Illich che potrebbe convincere anche i più scettici dell'utilità che può avere una diversa idea della mobilità. Parlo di concretezza e utilità non a caso: la questione si può inquadrare non solo seguendo motivazioni “astratte”, psico-sociologiche, ma pure strettamente politico-economiche. Sono i numeri che servono a convincere una società schiava dei criteri economici? Bene, è anche su questo fronte che l'andare in bicicletta “vince” su tutti gli altri mezzi di trasporto! 41 Ivan Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2006, tit. or. Energie et équité. 42 Ivi, p. 58.

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E' del 1973 Energie et équité (in italiano tradotto Elogio della bicicletta) ma forse oggi, più che allora, ci rendiamo conto della significatività delle verità che il filosofo austriaco sosteneva. Il nucleo di questo testo di Illich è, come ci dice il titolo, il rapporto che intercorre tra energia ed equità. Di crisi energetica parla tanto l'opinione pubblica, che è spesso ignara di certe questioni (e questo la dice lunga sull'evidenza del problema), quindi occorre inquadrarla senza trascurare la complessità dei fattori che la determinano.43 “Gli ideologi […] chiamano <<crisi energetica>> la loro frustrazione, […] non riescono a vedere che la minaccia di collasso sociale non deriva né da carenza di combustibile né dal modo dilapidatorio, inquinante e irrazionale con cui viene impiegata la potenza disponibile, bensì dal continuo sforzo dell'industria rivolto a ingozzare la società con quantitativi di energia che inevitabilmente degradano, depauperano e frustrano la maggioranza della gente.”44 Il collasso sociale non è solo un collasso ambientale. Una politica basata sui bassi consumi permetterebbe un'ampia scelta di stili di vita e di culture (sembra un paradosso, il fatto che meno energia usiamo più ci possiamo diversificare, ma è proprio così); viceversa, l'alto consumo veicola la società verso uno stile di vita sempre più uniformato e omologato. L'energia ci serve, ma fino ad un certo punto! Al di sotto di una data soglia, energia ed equità vanno di pari passo: superato il limite, se l'energia continua a crescere lo fa inevitabilmente a spese dell'equità. A questo livello si sviluppa una delle contraddizioni della nostra società: il tentativo – vano – di far andare equità e sviluppo industriale 43 Sulla questione si è approfondito nel cap. 8. 44 Ivi, p. 13.

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di pari passo. “La fede nell'efficacia della potenza impedisce loro [gli ingegneri] di scorgere l'efficacia straordinariamente maggiore che si può ottenere astenendosi dall'usarla.”45 La dimensione naturale è diventata inconcepibile: non ci viene in mente. “Che attraverso un processo politico si possa trovare una dimensione naturale, ineludibile e che segni un limite, è un'idea che non rientra nel mondo delle verità del passeggero.”46 Quello che Illich ci propone, innanzitutto, è una “contro-ricerca” dei limiti energetici necessari: in primis l'imperativo sociale di porre dei limiti, poi l'individuazione della fascia entro cui potrebbe esserci la soglia critica, infine la messa in luce dell'iniquità. Applicando questo metodo alla questione della circolazione, la criticità si troverebbe nel limite di velocità di 25 km orari. Inutile dire che l'industrializzazione del traffico ha portato ben oltre questo limite. “E' l'alta velocità il fattore critico che rende socialmente distruttivo il trasporto. […] La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.”47 Definito il traffico come lo spostamento di persone, le sue componenti sono il transito, cioè gli spostamenti che richiedono l'uso dell'energia metabolica umana, e il trasporto, in cui si utilizzano altre fonti di energia.48 Laddove prevale il primo c'è libertà personale e il 45 46 47 48

Ivi, p. 50. Ivi, p. 52. Ivi, p. 20. Ivi, p. 21.

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movimento

è

efficace,

invece

la

dipendenza

dal

trasporto

(automobilistico e non solo) ci fa perdere la libertà. Inoltre la superiorità di questa componente del traffico è una negazione della giustizia sociale. Dipendendo da energia non umana, il trasporto è iniquo: più sei ricco, più vai veloce. Il trasporto produce un conflitto a somma zero, si vince quando qualcun altro perde, se qualcuno accelera lo fa sempre a scapito di altri (non in senso fisico, ma sociale). Invece, il transito è un'azione indipendente dei transienti, e la somma è sempre positiva: tutti ci guadagnano. “La dipendenza forzata dalle macchine automobili nega allora a una collettività di persone semoventi proprio quei valori che i potenziati mezzi di trasporto dovrebbero in teoria garantire.”49 La mobilità dipende da una rete di percorsi disegnati con criteri industriali. Quando dipendiamo dalle nostre gambe ci muoviamo secondo lo stimolo del momento, in qualunque direzione che non sia materialmente preclusa: l'assenza di una strada (o la sua nonpercorribilità) è un ostacolo solo se usiamo un mezzo che ne ha bisogno. Se si considera poi che aumentando la velocità dei mezzi aumenta pure il traffico in senso stretto, il paradosso è sempre più evidente: l'accelerazione è assolutamente inefficace, ce lo dicono gli ingorghi. Negli Stati Uniti, mediamente, il traffico occupa il 28% del tempo sociale. Per fare 12000 km in un anno, l'americano tipo dedica 1600 ore alla sua auto: cioè si muove in media a 7,5 km/h. 50 La matematica (prima o dopo – lo si può scegliere – del pensiero) ci dice che andando in bici si muoverebbe alla stessa velocità, e con che risparmio! 49 Ibidem. 50 Ivi, p. 26.

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“L'uomo, senza l'aiuto di alcuno strumento, è capace di spostarsi con piena efficienza. […] L'uomo a piedi è una macchina termodinamica più efficiente di qualunque veicolo a motore e della maggioranza degli animali; […] L'uomo in bicicletta può andare tre o quattro volte più svelto del pedone […] La bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l'energia metabolica dell'uomo all'impedenza della locomozione. Munito di questo strumento, l'uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali.”51 Non è l'efficienza l'eterno chiodo fisso del progresso tecnologico? Che le macchine non sono inutili è chiaro a tutti, non si vuole sostenere il contrario. Quello che sembra meno evidente è fino a che punto siano utili: sembra che i più abbiano dimenticato che per fare cinquecento metri si fa prima ad andare a piedi o in bici, tanto più che se oltre al tempo impiegato nell'ingorgo stradale ci si aggiunge quello del parcheggio, l'ago dell'efficienza (così come quello dell'economia) pende chiaramente dal lato dell'energia metabolica umana... Gli effetti distorsivi dell'industrializzazione del trasporto si verificano sulla percezione del tempo, dello spazio e delle potenzialità personali. L'invenzione del cuscinetto a sfera è alla base sia della tecnologia automobilistica che dello “strumento-bicicletta”: le direzioni possibili sono decisamente opposte rispetto alla soglia di velocità (25 km/h), si sceglie o una maggiore libertà nell'equità o una maggiore velocità.52 Al di sotto di essa, i veicoli migliorano il traffico, al di sopra lo ostruiscono, saturando l'ambiente di lamiere e strade – è il territorio che si trasforma in base alle esigenze dei mezzi che utilizziamo. 51 Ivi, p. 54. 52 Ivi, p. 56.

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(Distorsione e distruzione dello spazio). Ci viene espropriato il tempo che vorremmo guadagnare accelerando: grandi velocità per tutti implicano che ognuno ha sempre meno tempo per sé. Anche il tempo sociale è speso per il traffico: il prodotto dell'industria del trasporto è il passeggero abituale, esasperato dalla mancanza di tempo. (Distorsione e distruzione del tempo). “[Il passeggero abituale] drogato dal trasporto, non ha più coscienza dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono.” 53

C'è un monopolio radicale dell'industria sulla mobilità naturale, con il trasporto a scapito del transito. (Distorsione e distruzione delle potenzialità personali). “Tra le conseguenze di questa concessione [il monopolio del trasporto], la distruzione dell'ambiente fisico è quella meno deleteria; i risultati di gran lunga più amari sono le frustrazioni psichiche che si moltiplicano,

le

disutilità

crescenti

generate

dall'incessante

produzione, e l'iniquo trasferimento di potere che si deve subire: fenomeni che manifestano tutti una relazione distorta tra tempo e spazio. Il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può più decidere né la forma né la lunghezza.”54 La conseguenza che Illich ritiene meno deleteria è, tuttavia, quella che salta più all'occhio: quando si parla del problema del traffico, delle automobili, degli “ecologismi”, in un modo o nell'altro si sfocia 53 Ivi, p. 29. 54 Ivi, p. 43.

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sempre nella questione dell'inquinamento – difficilmente si toccano altri temi in proposito. Sarebbe interessante interrogarsi sulla cecità della società nei confronti di questi suoi mutamenti di percezione: è proprio vero che non possiamo accorgercene? O non vogliamo farlo? Oppure lo facciamo, però non lo riteniamo un problema? Ci sembra davvero così assurdo poter pensare di diminuire le nostre frustrazioni psichiche spostandoci – quando possibile – in bicicletta, o a piedi, anziché imbottigliarci nel traffico? Probabilmente una delle difficoltà reali, e non dovute ad una diretta e semplice mancanza di formulazione di un pensiero alternativo a quello sociale di massa (come potrebbero essere gli interrogativi appena formulati), la troviamo nella mutazione degli spazi: se devo percorrere 30 km per andare al lavoro difficilmente mi verrà in mente di andarci in bicicletta. Ma nulla esclude, anzi è più facile pensare che le due questioni siano interconnesse.55 Tornando a Illich, alla luce dei pregi e dell'efficienza dimostrata dal mezzo bicicletta, propone un'interessante ridefinizione dello sviluppo di un Paese: è sottoattrezzato ciascuno Stato che non riesce a dotare ogni cittadino di una bicicletta, che non ha piste ciclabili e un servizio pubblico motorizzato alla velocità ciclistica (al di sotto della soglia dei 25 km/h); è sovraindustrializzato un Paese in cui domina l'industria del trasporto. Infine la maturità tecnologica si misura attraverso la libertà dalla frustrazione del non movimento e dalla dipendenza dal trasporto. “E' il mondo dei lunghi viaggi [quello della maturità tecnologica]: un 55 Cioè, la mutazione spaziale dipende dal fatto che abbiamo adattato le nostre città al mezzo a cui siamo più abituati, ossia l'auto. Vedi in particolare il cap. 7.

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mondo dove ogni luogo è accessibile a ogni persona, secondo il suo talento e la sua velocità, senza fretta e senza paura, per mezzo di veicoli che coprono le distanze senza far violenza alla terra che l'uomo ha calcato per centinaia di migliaia di anni. La sottoattrezzatura […] incoraggia l'asservimento dell'uomo all'uomo.” 56

Le vie per raggiungere la maturità tecnologica sono due: o ci si libera dall'opulenza o ci si libera dalla carenza. “Entrambe hanno la stessa meta, cioè una ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio dove egli sta, cammina e vive.”57 Nel primo caso si dovrebbero ampliare le zone pedonali e renderle meno isolate, per evitare quella solitudine dell'abbondanza per cui ci si incontra solo tra un'isola ed un'altra, e riscoprire la capacità di muoversi nei luoghi dove si vive senza dipendere dal trasporto. Nel secondo caso si dovrebbe essere attenti all'estensione del raggio d'azione della vita quotidiana, ampliando gli orizzonti senza diventare schiavi dell'accelerazione. Quest'ultima strada, che dovrebbe essere intrapresa dai Paesi più poveri, costa meno cara rispetto alle rinunce che dovrebbero fare i ricchi – ma il prezzo che pagheremmo se continuassimo verso l'opulenza sarebbe molto più alto di una rinuncia alla schiavitù dal trasporto. “Scegliere un'economia a contenuto minimo di energia costringe il povero a rinunciare alle attese fantastiche e il ricco a riconoscere nei propri interessi costituiti una passività tremenda.”58

56 Ivi, p. 65. 57 Ivi, p. 67. 58 Ivi, p. 16.

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Pensare la mobilità in questi termini ci mette in grado di riconoscere uno di quei modi dell'abitare il mondo – che vuol dire anche, inevitabilmente, spostarsi al suo interno – rispettandolo senza consumarlo, avendone cura. Sull'utilità dell'energia abbiamo pochi dubbi, forse qualcuno in più ne ha la società sull'utilità dell'equità: ma l'idea che ci sarebbe la possibilità di farle marciare insieme, entrambe necessarie alla nostra essenza di uomini che abitano il mondo ancor prima che utili, è uno dei motivi a cui pensare quando si deve scegliere, uscendo di casa, se prendere o meno le chiavi dell'auto.

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CAP. 3 Critica delle automobili e rapporto tra identità e luoghi “Tracciamo l'identikit dell'homo macchinans: individualista accanito (più io che noi), spirito di competizione (la sindrome <<vrum vrum>>), maschilista (macchina grande = attributi forti), aggressivo (sono circondato da paranoici che ce l'hanno con me), perdita del senso di realtà (esiste un mondo intorno alla macchina?), polluzione diurna (l'ho ancora fatta nel mio strato d'ozono), culto dell'apparenza (mostro, quindi sono) e del superfluo (è indispensabile perché non ne ho bisogno). Sorpresa! Non è forse l'identikit dell'homo oeconomicus liberalis che appare in sovrimpressione?”59 L'uguaglianza homo macchinans = homo oeconomicus liberalis ce la descrive Tronchet, ma non è certo l'unico ad averla ipotizzata. “Se c'è un simbolo che incarna per eccellenza la società neoliberale e che potrebbe essere uno stemma sulla bandiera di vecchi e nuovi governi è l'automobile come diritto di tutti.”60 Architetto e antropologo siciliano, curatore dell'edizione italiana dell'Elogio della bicicletta di Illich, Franco La Cecla accompagna il testo con un saggio dedicato alla critica delle automobili, in cui svolge 59 Didier Tronchet, op. cit., p. 72. 60 Franco La Cecla, Per una critica delle automobili, in Elogio della bicicletta, op. cit., p. 79.

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significative riflessioni alla luce degli anni trascorsi tra la sua pubblicazione originale su Le Monde e la traduzione nel nostro Paese61. 32 anni dopo, la situazione non è affatto cambiata, anzi si può dire peggiorata. E il problema è che non si riesce a comprendere che l'ecologia non è una questione di stile di vita o di scelta, ma l'ultima scelta possibile.62 La critica alle automobili è uno dei cardini della questione, probabilmente anche uno tra i più spinosi, perché facilmente esposto alle accuse di anti-modernismo. Innanzitutto quindi, chiariamo – di nuovo e una volta per tutte – che non si vuole affermare l'inutilità delle auto: sono un'ottima invenzione, con difetti ma anche pregi, a volte quasi indispensabili. “L'auto sarebbe utile se fosse un mezzo tra altri per spostarsi, ma questo è un assurdo. L'auto contiene insito il monopolio, la distruzione di tutte le forme dell'andare.”63 Quello che si critica è l'uso indiscriminato, spregiudicato, l'elevamento a simbolo sociale, la trasformazione in feticcio, la dipendenza, l'adattamento generale delle nostre esigenze a quelle di uno strumento che ci domina, ci sottomette, come fossimo passati da essere inventori a schiavi. La

mobilità

nella

società

contemporanea

detta

“ragioni

aristocratiche”, è una “fede molto prima di essere una pratica e un diritto.”64 61 62 63 64

Energie et équité è stato pubblicato su Le Monde nel 1973, Elogio della bicicletta è del 2006. Ivi, p. 81. Ivi, p. 89. Ivi, p. 84.

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Possiamo pensare alle auto blu (e sognare – immaginare sarebbe troppo poco – che in biciclette blu i pensieri di chi pedala prenderebbero ossigeno, e pare che ne avrebbero proprio bisogno... E che risparmio sarebbe!) che indicano uno status, o più “banalmente” alle equazioni auto più grande = proprietario più ricco = persona più importante (così crede lui/lei, almeno), alle ore di ferie passate a lavare/curare il feticcio (che spavento passare davanti ad un autolavaggio, il sabato o la domenica – che spreco di acqua!), o a sfogliare un giornale specializzato sognando le rate (lavorare per guidare o guidare per lavorare?), o a guardare pubblicità che istigano al sentimento di inferiorità... “Le auto di oggi vi permettono di stare in poltrona, di non accorgervi nemmeno del pericolo che correte o fate correre agli altri.”65 La pericolosità ce la dicono i numeri: solo in Italia, più di 4000 morti all'anno (12 al giorno) per incidenti stradali (più di 200000 all'anno, quasi 600 al giorno),66 per non parlare dei feriti e di chi rimane con disabilità permanenti. Dovremmo accorgerci della velocità, invece le distrazioni in macchina aumentano sempre di più, dagli schermi dei navigatori si è passati ai lettori DVD integrati (!), la stabilità delle quattro ruote è arrivata ad un punto tale che le sensazioni provate all'interno prescindono totalmente da quanto si sta correndo. Anche la bici è pericolosa, ma non in se stessa come le auto, è pericolosa perché fragile ed esposta alle intemperanze degli automobilisti. Forse basterebbero delle piste ciclabili attrezzate per 65 Ivi, p. 87. 66 Dati riferiti al 2009, da studi ACI (Automobile Club d'Italia) e Istat (Istituto nazionale di statistica) su http://www.aci.it/sezione-istituzionale/studi-e-ricerche/dati-e-statistiche.html (ultimo accesso giugno 2011).

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evitare un morto al giorno67. Inoltre c'è una differenza sostanziale, la coscienza del pericolo: averla serve a stare più attenti. Illuminante è il caso di Hanoi citato da La Cecla 68: appena nel traffico cittadino (prevalentemente ciclistico) si introducono i motorini, i giornali parlano di un numero di morti per incidenti pari a quello dei giorni della guerra del Vietnam!69 “L'automobile inventa un handicappato, il pedone, qualcuno che viene definito da una mancanza. E inventa le riserve, i recinti chiusi dove questa minoranza può circolare, le zone pedonali.”70 Accade più o meno lo stesso per ciclisti e piste ciclabili. Il pedone ha smesso di essere un uomo normale: come si fa a non parlare di disumanizzazione? Non può passare inosservato il fatto che si smettano di usare le gambe per muoversi: non dovrebbe essere parte della nostra natura? Se così è, ed essa sta mutando, non dovremmo almeno occuparcene (se non pre-occuparcene)? Serve per andare più veloce? Ma ne abbiamo veramente bisogno in questa misura? L'abuso porta all'effetto opposto della velocità: l'ingorgo, la migliore “illustrazione della deficienza del credo progressista.”71 “La bicicletta è il modo inventato per dare il massimo della libertà a tutti e il massimo della democrazia a una città. Non richiede che le strade divengano piste [come le autostrade, diverse dalle ciclabili, che servono a noi perché non riusciamo (o non vogliamo?) trovare una 67 Fonte Istat. 68 Franco La Cecla, op. cit., p. 90. 69 Chiaramente qui un altro fattore, quello della nuova e sconosciuta modernità, incide profondamente su questo dato. 70 Ivi, p. 85. 71 Ivi, p. 90.

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soluzione migliore per badare all'incolumità di chi pedala] né che i centri storici vengano condannati perché ostili alla circolazione. Oggi l'effetto più controproducente del monopolio automobilistico è l'aver negato la credibilità della convivenza di automobili e urbanità. […] L'auto postula la fine della città, non ne ha bisogno.”72 Così si sono ingigantite le periferie, visto che il centro non “serve più”. Non si gioca per la strada, è troppo pericoloso (le auto sono pericolose, non il gioco!), per questo i bambini sono rinchiusi in altre “isole ludiche”; non si cammina, è troppo pericoloso (le auto o il passeggio?), per questo gli anziani sono rinchiusi in “centri culturali”. La nostra società è una società di “rinchiusi”, viviamo parcheggiati. In Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, La Cecla esamina il rapporto, in disgregazione, tra identità e luoghi. Il punto di partenza è il quotidiano, visto che “l'antropologia […] è la capacità di discernimento rispetto a cose che sfuggono perché troppo visibili, sotto gli occhi di tutti.”73 In questo caso quello che sfugge è lo spazio, in fase di spersonalizzazione, che cerca di essere sempre più funzionale (adattato a ciò che serve), relativo (agli utilizzatori), fluttuante e sradicato (senza storia e uguale dappertutto). Il domicilio, luogo in cui si abita, si trasforma sempre più in residenza, luogo in cui si risiede: perde il suo carattere che ci fa sentire a casa. Se tutti i luoghi sono uguali, ovunque ci sentiamo a casa e ovunque ci sentiamo persi: le due cose si confondono.

72 Ivi, p. 91. 73 Franco La Cecla, Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, in Per un'antropologia del quotidiano, Elèuthera, Milano 2005, p. 9.

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L'abitare è un godimento del mondo, un soddisfarsi di esso avendone bisogno. L'antropologo siciliano individua dei criteri per un sano abitare74: tutti richiedono una differenziazione dei luoghi, un'assegnazione a ciascun luogo del suo proprio. “La perdita di contatto tra abitare e costruito rende difficile quel processo culturale che consiste nel rapporto reciproco tra identità e luoghi. I luoghi sono <<alienati>> e altrettanto lo sono gli abitanti. Nasce il senso desolato delle periferie, l'omologazione delle prospettive, il somigliarsi di tutti i quartieri suburbani del mondo e con essi il senso di anonimità.”75 L'adattamento tra individuo, gruppo e luogo è fragile e complesso: abitando in un posto, se esso non ha identità, la perde inevitabilmente anche l'individuo o la comunità che lo vive – uno influenza l'altro. Per questo occorre fare mente locale: depositare la mente su di un luogo. L'abitare non è una percezione istantanea, ci vuole del tempo perché si costruisca, perché il pensiero si depositi e ci permetta di orientarci e “comprendere” il posto. “Dimorare significa rendersi conto di una separazione, raccogliersi in sé per constatare che da questa separazione emerge la compagnia, una compagnia, sempre da riconfermare, con un luogo. Lo spazio di una città, della propria città, o della città in cui ci si trova a vivere, volenti o nolenti, è l'evidenza che c'è qualcosa fuori di noi. L'agio o il disagio di vivere in un luogo ce lo ricordano continuamente.”76 74 E sono: differenza tra residenza e lavoro, regolamentazione del vicinato, nucleo familiare ristretto, servizi collettivi in luoghi istituzionalizzati, luoghi appropriati differenziati, proporzione tra abitazione e famiglia, ottimizzazione dello spazio domestico. 75 Ivi, p. 37. 76 Ivi, p. 67.

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Ma come possiamo distinguere l'agio dal disagio se gli spazi sono tutti uguali? La perdita di identità e la spersonalizzazione dei luoghi creano spaesamento, da cui derivano contraddizioni sociali. Un esempio è la “sacralità del guard-rail”77: nei luoghi in cui sono avvenuti incidenti stradali si erigono templi sacri a memoria dei “caduti sulla strada”. La loro sacralità è in evidente contrasto con la totale indifferenza del contesto in cui si trovano, tuttavia è uno dei segni che mostrano la necessità (e la volontà?) di voler dare un'identità ad un posto. Per poter abitare abbiamo bisogno che il luogo in cui viviamo abbia una sua identità, altrimenti la perdiamo anche noi. “Macchina, dissi accarezzando il cofano, non ce l'ho con te, tu sei bella e svelta, hai portato anche delle cose buone nel mondo. Bastava che restassi quello che sei, un carriolone con un motore assai raffinato, non la padrona di ogni strada e ogni città. Tu sei disegnata nella bandiera di quelli che hanno distrutto ciò che c'era di più vivo e generoso nel mio Paese. Ce ne sono milioni come te che in questo momento corrono sull'autostrada e si schiantano una contro l'altra, diventano carogne di lamiera, sopra la gente ci muore contenta e rassegnata, e sempre più ne morirà.”78

77 A cui è dedicato l'ultimo capitolo di Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, op. cit. 78 Stefano Benni, Saltatempo, Feltrinelli, Milano 2003, p. 254.

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CAP. 4 Dai nonluoghi al bello della bicicletta: idee dell'antropologo Augé “Il luogo antropologico è principio di senso per coloro che l'abitano.”79 Uno degli studiosi che più ha approfondito la questione dell'identità dei luoghi è l'antropologo francese Marc Augé. Teorico della surmodernità, ha coniato il termine nonluogo proprio per definire quei posti privi di “personalità” propria. La nostra società sta assistendo (forse da protagonista un po' troppo passiva) alla mutazione spaziale80 che caratterizza la globalizzazione: tra le cause – sicuramente non l'unica – il tentativo di annullamento delle distanze attraverso la supervelocità81 (non solo fisica, ma anche di comunicazione). “Diventa ogni giorno più difficile distinguere fra l'esterno e l'interno, l'altrove e il qui.”82 Questo perché il centro del mondo si è demoltiplicato e deterritorializzato: è ovunque e da nessuna parte, sia 79 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione ad un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993, p. 59. 80 Sulle mutazioni delle città v. cap. 7. 81 Sulla scomparsa della città legata alla velocità v. Virilio, cap. 6. 82 Marc Augé, Nonluoghi, op cit., p. 17.

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per l'irrompere nella realtà quotidiana di processi virtuali (come potremmo definire quelli economici delle varie Piazze Affari), sia perché possiamo muoverci facilmente tra posti molto distanti anche in breve tempo. La globalità determina effetti di omogeneizzazione e di esclusione (tutti devono essere uguali, mentre il “diverso” è continuamente demonizzato). Si tende a considerare la cancellazione delle frontiere come qualcosa di positivo. Questo è senza dubbio vero se le concepiamo come un blocco tra un Paese ed un altro. Se però proviamo a immaginare che“una frontiera non è un muro che vieta il passaggio, ma una soglia che invita al passaggio”83 i conti non tornano: annullandola si eliminano anche le differenze che questo passaggio comporterebbe. Spostarsi implica un cambiamento di ciò che ci circonda: ogni posto ha i suoi odori, i suoi colori, i suoi riferimenti, le sue peculiarità, le sue tradizioni, etc. Arrivando in un qualsiasi aeroporto probabilmente non si noterebbero molte differenze con quello di partenza: non si vive il cambiamento che dovrebbe essere intrinseco allo spostamento. Per questo l'aeroporto è il prototipo del nonluogo come lo concepisce Augé, ma non l'unico. “Uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo”84, così “i nonluoghi sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni – strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti – quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta.”85 83 Ivi, p. 14. 84 Ivi, p. 77. 85 Ivi, p. 47.

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Nel “non” di questi “luoghi” la prima cosa che si smarrisce è dunque l'identità, non solo del posto ma anche di chi lo frequenta. Inevitabilmente muta anche il rapporto tra i frequentatori dello spazio (che non è relazionale!). “E' il mondo contemporaneo stesso che, a causa delle sue trasformazioni accelerate, richiama lo sguardo antropologico, cioè una riflessione rinnovata e metodica sulla categoria dell'alterità.”86 La surmodernità è caratterizzata essenzialmente dagli eccessi di spazio, tempo e individuo.87 Il primo è correlato al restringimento del pianeta, ai mutamenti di scala (percepiamo le distanze molto diversamente rispetto anche solo a mezzo secolo fa), ai mezzi di trasporto sempre più rapidi. Per come percepiamo e utilizziamo il tempo, esso non può più essere principio di intelligibilità né di identità: la storia accelera, c'è sovrabbondanza di avvenimenti (anche questo è un problema antropologico!). L'eccesso riguarda anche la produzione di senso individuale, così tutti i riferimenti sono individualizzati (i posti tutti uguali lo richiedono perché ci si possa orientare, quando si riesce a farlo...). Per questo quello che si prospetta sarebbe “un mondo promesso all'individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all'effimero.” 88

Questa prospettiva diviene realtà nei nonluoghi della surmodernità:

dovrebbe bastare questa evidenza a convincerci a preservare l'identità dei posti che non l'hanno ancora persa. “Il nonluogo è il contrario 86 Ivi, p. 40. 87 Ivi, p. 43. 88 Ivi, p. 74.

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dell'utopia: esso esiste e non accoglie una società organica.”89 In un certo senso possiamo notare un paradosso: la perdita identitaria dei luoghi è un effetto quasi diretto della globalizzazione, che dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) volgere verso una società unitaria (davvero necessariamente omologata?), invece comporta un disorientamento sociale generale. “E' il nonluogo a creare l'identità condivisa dei passeggeri, della clientela o dei guidatori della domenica.”90 L'anonimato è il simbolo di questa “identità condivisa” e provvisoria: i passeggeri si riducono a codici, di carte d'imbarco o pedaggi autostradali o sedili prenotati su treni ad alta velocità o tessere dell'ipermercato, a numeri per statistiche che determinano la sorte di uno spazio (il flusso dei passeggeri permette ad un aeroporto o una stazione di ingrandirsi o rimpicciolirsi, o ad un centro commerciale di aprire a nuovi marchi o chiudere magari per la concorrenza di uno più vicino allo svincolo...). “Il passeggero dei nonluoghi non ritrova la sua identità che al controllo della dogana, al casello autostradale o alla cassa. […] Lo spazio del nonluogo crea solitudine e similitudine.”91 Ritrovata la propria identità per breve tempo si torna poi alle folle di anonimi individui, più che mai ci si sente soli tra questa gente per qualche ora tutta uguale (non è assolutamente un caso che, spesso, chi non è in compagnia è al telefono – anzi è più raro vedere qualcuno solo che non lo usa!). La tentazione del narcisismo è forte, e la legge comune dominante è “fare come gli altri per essere se stessi”. 89 Ivi, p. 99. 90 Ivi, p. 92. 91 Ivi, pp. 93-94.

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“I politici hanno finito con il non chiedersi più dove vanno, perché sanno sempre meno dove si trovano.”92 E non solo loro. Lo smarrimento è generale, perché non ci si può orientare in un labirinto di luoghi anonimi. Paradossalmente, i cartelli autostradali sempre più commentano i posti che evitano (in Italia sono di colore marrone le indicazioni turistiche sulle strade); infatti è proprio per questo che esistono le strade ad alta velocità, per evitare i(l traffico dei) paesi, o no? Per permettere gli spostamenti “toccata e fuga”... Citando Malraux, Augé ci fa notare che “le nostre città si trasformano in musei (monumenti intonacati, esposti, illuminati, settori riservati e isole pedonali) proprio mentre tangenziali, autostrade, treni ad alta velocità e strade a scorrimento veloce le aggirano.”93 “E' nell'anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani. Ci sarà dunque posto domani, o forse, malgrado l'apparente contraddizione dei termini, c'è già posto oggi per un'etnologia della solitudine.”94 Proprio perché sono i destini umani ad essere in gioco occorre approfondire e trovare delle soluzioni che vadano nella direzione opposta dello smarrimento. “Non sarà certo la bicicletta a salvarci, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.”95 E' lo stesso Augé che, in un altro testo 96, ci mostra quale potrebbe 92 93 94 95

Ivi, p. 101. Ivi, p. 74. Ivi, pp. 105-6. Luigi Bairo, Bici ribelle. Percorsi di fantasia, resistenza e libertà., Stampa Alternativa Nuovi equilibri, Roma 2009, p. 16. 96 Marc Augé, Il bello della bicicletta, op. cit.

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essere un opposto

positivo dei nonluoghi: il sellino, quale posto

migliore per ritrovare se stessi? “Mettere delle biciclette a disposizione degli abitanti o dei turisti significa obbligarli a vedersi e a incontrarsi, a trasformare le strade in luogo di socializzazione, a ricreare luoghi di vita, a sognare la città.”97 Luoghi di vita: la semplicità di questa espressione ci riporta ancora al senso proprio dell'abitare. L'uso della bicicletta implica l'incontro tra chi si muove, senza filtri di alcun genere, un vero e proprio “faccia a faccia”. Banalmente ci basta pensare al fatto che, in bici, ci si può fermare ogni volta che si vuole, magari per parlare con qualcuno; il saluto tra gli automobilisti, piuttosto blando, generalmente varia tra un colpo di clacson e un lampeggiare di abbaglianti. “La distanza sempre più grande tra luoghi di vita e luoghi di lavoro, l'uso sistematico dell'automobile hanno confinato la bicicletta ai settori dello sport o del tempo libero.”98 L'uso quotidiano è sempre più difficile da adattare alle esigenze determinate socialmente, ma esistono dei margini in cui è ancora possibile fare delle scelte che non siano “di comodo”: in fin dei conti se il supermercato vicino casa un bel giorno chiude dipende anche dal fatto che si preferisce fare qualche km per arrivare all'ipermercato in periferia (ma con quale senno? C'è davvero tutta questa differenza di prezzi o di varietà di prodotti? Non si vuole semplificare troppo la questione: sono diversi i fattori che determinano questo tipo di scelte 97 Ivi, p. 8. 98 Ivi, p. 13.

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dei consumatori, ma proprio per questo è bene interrogarsi in proposito, visto che sono proprio le “scelte collettive” ad avere le conseguenze socialmente più rilevanti). Antropologicamente la bicicletta ha un altro ruolo molto interessante e “producente” di scoperta: di sé e dei propri limiti, oltre che dell'alterità. “Il corpo a corpo con me stesso era un'esperienza intima, scoprivo le mie possibilità e i miei limiti: non si può barare con la bici.”99 Mentire a se stessi – utilizzando motori rombanti (che, purtroppo, nello sport diventano chimici100), acquistati ad un prezzo più o meno alto, a sostituzione della propria impotenza – è pratica molto diffusa. Ma se a “guidare” siamo noi con il nostro corpo, per impratichirci dobbiamo inevitabilmente approfondire la nostra autoconoscenza e autocoscienza! Questo significa adattare i percorsi e gli orari ad esigenze proprie: “andare in bicicletta vuol dire imparare a gestire il tempo: il tempo breve della giornata e il tempo lungo degli anni che si accumulano.”101 Quale altro mezzo ci dà una tale coscienza, anche del tempo che passa? Al di là dell'allenamento (che comunque ci dà segno di una crescita personale, se c'è), in una salita fa differenza – in positivo o in negativo – qualche anno in più o in meno. Conosci te stesso ce lo diceva già l'oracolo di Delfi, forse avremmo bisogno di ripetercelo più spesso. 99 Ivi, p. 22. 100 Probabilmente questo è uno dei motivi per cui il ciclismo ha perso popolarità in quanto sport: i tempi di Bartali e Coppi non sono gli stessi di un Contador in maglia rosa al Giro d'Italia (2011) mentre il Tour de France ancora lo indaga per doping nelle vittorie precedenti (Tour 2010)... Il mito storico è cambiato, per quanto – proprio perché storia – ci sono imprese ciclistiche che rimangono intramontabili, al di là di tutto. 101 Ivi, p. 23.

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“Bisogna aggiungere come altro merito della bicicletta il reinserimento del ciclista nella sua propria individualità, ma anche la reinvenzione di legami sociali gradevoli, leggeri, eventualmente effimeri, ma sempre portatori di una certa gioia di vivere.” 102 Questo perché “l'ebbrezza della solitudine non impedisce il piacere della socializzazione.”103 Semplicemente c'è maggiore libertà di scelta: proseguire diritti coi propri pensieri sfuggenti che prendono aria, oppure fermarsi a fare due chiacchiere. E' molto diverso dallo scegliere di aprire o chiudere il finestrino! “Il fattore urbano si estende ovunque, ma ci siamo persi la città e perdiamo di vista noi stessi. A questo punto la bicicletta forse acquista un ruolo determinante per aiutare gli uomini a riprendere coscienza di loro stessi e dei luoghi in cui vivono, invertendo, per quanto li riguarda, il movimento che proietta le città fuori da loro stesse. Abbiamo bisogno della bicicletta, per ritrovarci in noi stessi, proprio mentre ritroviamo un centro nei luoghi in cui viviamo.”104 Bisogna essere accorti, tuttavia, ed evitare che la bici resti “l'ultima illusione” in una situazione di crisi di senso generalizzata. Dare bellezza al caso e ridare senso alla mobilità: questi gli obiettivi immediati e primari che non devono solo far parte di un'utopia, ma essere parte di un progetto concreto che ha già avuto modo di dimostrare la sua fattibilità in diversi luoghi.105 “Il solo fatto che l'uso della bicicletta offra una dimensione concreta al sogno di un mondo utopico in cui la gioia di vivere sia finalmente 102 Ivi, pp. 26-7. 103 Ivi, p. 25. 104 Ivi, p. 38. 105 V. cap. successivo.

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prioritaria per ognuno e assicuri il rispetto di tutti ci dà una ragione per sperare: ritorno all'utopia e ritorno al reale coincidono. In bicicletta, per cambiare la vita! Il ciclismo come forma di umanesimo.�106 A noi il compito di scegliere, come sempre, se inseguire o meno il sogno.

106 Marc AugĂŠ, Il bello della bicicletta, op. cit., p. 65.

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CAP. 5 La bicicletta come movimento politico “Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta penso che per la razza umana ci sia ancora speranza.”107 Partendo dal fatto che “la bicicletta è un mezzo economico e democratico”108 possiamo contare diversi “esperimenti politici” che hanno sottolineato e sottolineano i vantaggi che questo mezzo comporta, dimostrando come questa bistrattata utopia possa diventare reale. Questi hanno un significato politico nel senso più puro del termine, nella misura in cui riguardano proprio il vivere la polis abitandola in un certo modo. Ci sono casi di trasformazione sociale sia indiretta che diretta. “La metà degli anni '90 del XIX secolo era il culmine del boom delle biciclette in America, e i consumatori ne compravano in grandi quantità. […] Una bicicletta di qualità poteva essere acquistata per meno di 100 dollari. […] In tutto, il numero delle aziende americane coinvolte, in un modo o nell'altro, nel commercio di bici si aggirava 107 Herbert George Wells, in Luigi Bairo, op. cit., p.16. 108 Corrado Augias, Riscoprire la bici, geniale e democratica, la Repubblica, 7 maggio 2011, p. 34.

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intorno a 3000, incluso un negozio di bici a Dayton, in Ohio, di proprietà di due fratelli, Orville e Wilbur Wright, che si stavano ispirando alla tecnologia di questo mezzo per rifinire un'altra invenzione sulla quale stavano lavorando.”109 Questo si verificava contemporaneamente ad un altro fenomeno sociale importantissimo – l'emancipazione femminile – e qualcuno ha sostenuto che le due situazioni fossero intrecciate (non possiamo dire con certezza in che misura la diffusione della bicicletta abbia incentivato l'emancipazione femminile o viceversa, ma non possiamo negare l'intersecarsi degli eventi storici). “Nel momento in cui sale in sella, [una donna] sa che non può succederle niente di male mentre è sulla sua bicicletta, e se ne va come l'immagine della femminilità libera e incondizionata. La bicicletta insegna anche a cambiare in modo pratico l'abbigliamento, dona alle donne aria fresca ed esercizio, e aiuta a renderle uguali agli uomini nel lavoro e nel piacere […] La bicicletta predica la necessità del suffragio femminile.”110 E' una donna di fine Ottocento a dirlo! “I mutamenti sociali portati dalla bicicletta non si limitavano alla moda femminile. Una donna con una bicicletta non doveva più dipendere da un uomo per i propri spostamenti – era libera di andare e venire a suo piacimento. Aveva sperimentato un nuovo genere di <<potere fisico>>, reso possibile dalla velocità del veicolo. La bicicletta offriva una parità con gli uomini che era sia nuova che euforizzante. In breve tempo, <<sempre più donne presero a considerare la bicicletta come una macchina che produceva 109 Peter Zheutlin, Il giro del mondo in bicicletta. La straordinaria avventura di una donna alla conquista della libertà, Elliot, Roma 2011. L'invenzione a cui si riferisce è chiaramente l'aeroplano. 110 Susan B. Anthony, lettera alla rivista Sidepaths, 1898, cit. in ivi, p. 213.

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libertà>>111.” La storia da cui traiamo queste conclusioni è quella di Annie Kopchovsky, alias Annie Londonderry, la prima donna ad aver effettuato il giro del mondo in bicicletta.112 “L'odissea di Annie di quindici mesi intorno al mondo, tra il 1894 e il 1895, è un capitolo della storia del ciclismo audace e inedito, per quanto pittoresco, contorto e bizzarro. […] Ma il viaggio di Annie era perfettamente paradigmatico della confluenza del movimento delle donne e della mania del ciclismo.”113 La bicicletta come strumento di potere114 è un aspetto che non può essere trascurato, in relazione alla stessa natura umana. E' un'altra donna115, Hannah Arendt, ad aver sostenuto l'importanza dell'azione nella vita dell'essere umano. “L'azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l'Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo.”116 Per un'azione che veda protagonista la bicicletta con tutte le sue potenzialità i punti di partenza possibili sono essenzialmente due: dall'alto, attraverso politiche governative di incentivazione; o dal basso, attraverso movimenti spontanei – anche se l'ideale sarebbe che le due cose si intrecciassero (e in alcuni casi, per fortuna, succede). 111 Robert A. Smith, A Social History of the Bicycle (McGraw Hill, 1972), 76, in Peter Zheutlin, op. cit., p. 54. 112 Il fatto che abbia realmente percorso circa 5000 km in bici intorno al mondo, come sostenne, è storicamente piuttosto incerto, tuttavia citiamo l'esempio per la sua indubbia valenza simbolica. 113 Ivi, p. 214. 114 Ivi, p. 230. 115 V. cap. 1. 116 Hannah Arendt, op. cit., p. 7.

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“Non si può pensare di progettare a tavolino e impiantare nella testa della gente nuovi modelli culturali e nuovi stili di vita, che hanno bisogno di svilupparsi e crescere in maniera organicamente naturale.”117 Le piste ciclabili e il servizio di bike sharing118 rientrano nel primo tipo, e si rivelano molto utili per sensibilizzare l'utenza a questo tipo di mobilità: non a caso sono le prime richieste di associazioni e movimenti di ciclisti urbani. E' difficile dire se è grazie alle piste ciclabili che ci si muove più in bicicletta, o se è perché ci sono tanti ciclisti che vengono costruite, l'intreccio mescola le due cose e le rende un tutt'uno – andando nella stessa direzione diventano necessaria l'una all'altra. Lo stesso Augé riporta l'esempio del progetto di bike sharing Velib' a Parigi, parlando di un comunismo urbano per cavalieri/e della bicicletta, che favorisce lo scivolamento in una geografia poetica della città119, un successo per le migliaia di parigini che ne usufruiscono a basso costo: una dimostrazione di come ci si potrebbe muovere con facilità ed economicamente. Applicando la teoria del caos120 al fenomeno l'antropologo francese parla di effetto pedalata: potrebbe essere la causa di miglioramenti globali.121 E che non si tratta solo di un'utopia ce lo dicono i fatti. Restando in Francia, possiamo guardare (non senza ammirazione) 117 Ted White in Chriss Carlsson (a cura di), Critical Mass. L'uso sovversivo della bicicletta, Feltrinelli, Milano 2003, p. 162. 118 Lo scambio di biciclette pubbliche che permette di prenderle da una postazione e lasciarle in un'altra. 119 Marc Augé, Il bello della bicicletta, op. cit., p. 39. 120 Nata dalla domanda provocatoria del meteorologo Lorenz nel 1972: può il battito d'ali di una farfalla in Brasile provocare un uragano in Texas? 121 Ivi, p. 57.

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l'esempio di Strasburgo: 500 km di piste ciclabili (in una sola città!), un Comité d’Action des Deux Roues (comitato d’azione per le due ruote) che si occupa del servizio di bike sharing Velhob - e non solo122. In Europa probabilmente è l'Olanda il Paese che detiene il primato nel campo della mobilità sostenibile e la capitale Amsterdam123 ne è un esempio lampante. Un altro caso piacevolmente sorprendente è quello di Goteborg, seconda città della Svezia, che può vantare 450 km di piste ciclabili124, e dimostra un investimento intelligente (nel 2007 per la mobilità sostenibile sono stati spesi quasi 3 milioni di euro): se il 40% degli spostamenti è in bicicletta anche in un paese così freddo (le piste ciclabili sono innevate per molti mesi dell'anno), vuol dire che deve essere davvero conveniente! In Italia125, la Regione più all'avanguardia è l'Emilia Romagna, con Ferrara in testa: tra le Zone a Traffico Limitato più estese d'Europa, è per antonomasia la città a misura di bicicletta, basta guardarsi intorno per averne la prova; innumerevoli sono i progetti a sostegno di questo mezzo, dal bike sharing alla “Ricicletta”, alla messa in sicurezza dei percorsi, ai Bicigrill, al Piano Parcheggio Bici fino all'Ufficio biciclette al Comune.126 A Torino, dove possiamo vedere numerose piste ciclabili, la comunità Bici e Basta si è posta lo scopo di promuovere l'uso della bicicletta come mezzo di trasporto, riunire i ciclisti urbani Torinesi per ideare e 122 Vedi http://www.otstrasbourg.fr (ultimo accesso giugno 2011). 123 Vedi http://www.iamsterdam.com/it/visiting/cosafare/ciclare (ultimo accesso giugno 2011). 124 Persino mappate online http://goteborg.trafiken.nu/sv/gbg/Cykel/Centrum-Vast/ (ultimo accesso giugno 2011). 125 Il risultato del Giretto d'Italia 2011 http://www.ferrarainbici.it/index.phtml?id=420 (ultimo accesso giugno 2011), iniziativa promossa dalla FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) per il campionamento di dati sulla mobilità in bicicletta, ha visto assegnare il primo posto per Ferrara, Torino e Udine. 126 Tutti i dettagli dei progetti sono visionabili sul sito http://www.ferrarainbici.it (ultimo accesso giugno 2011).

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condividere progetti sulla mobilità ciclabile e sostenibile, stabilire un canale di comunicazione con le istituzioni e le associazioni piemontesi per proporre soluzioni urbane concrete127, evidentemente perché le politiche attuate “dall'alto” non sono sufficienti alle esigenze di chi pedala. Pur non avendo (almeno per ora) alcun primato su scala nazionale, anche in Puglia sono numerosi i progetti di Mobilità Sostenibile128, alcuni già realizzati e altri in fase di realizzazione, uno dei quali riguarda l'Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”: Cicloattivi @ università dovrebbe partire a settembre 2011 e prevede la dotazione di un parco bici e servizio di noleggio per le Case degli studenti, bonus su acquisto bici per gli universitari, attivazione di una rete di ciclofficine (e altro ancora, vedremo!). Già avviati, invece, grazie a giovani menti finanziate da Principi Attivi129, sono invece: Ciclospazio130, anagrafe della bici che prevede la punzonatura di una targa sul telaio per scampare ai ladri (oltre che essere un luogo associativo barese); CicloMurgia131, che si occupa di cicloturismo nel territorio murgiano. Un altro progetto, presente in diverse città d'Italia (nato in Danimarca e presto diffuso sia nel Nord Europa che negli Stati Uniti), è il Piedibus132: a piedi o in bicicletta, gruppi di genitori o volontari si organizzano per accompagnare i bambini a scuola facendo un “autobus umano” con fermate prestabilite; un'idea semplice ma 127 Vedi http://www.biciebasta.com/ (ultimo accesso giugno 2011). 128 Vedi http://www.cremss.puglia.it/mobilita/index.php (ultimo accesso giugno 2011). 129 Finanziamenti della Regione Puglia sulla base di un concorso nell'ambito di Bollenti spiriti, progetto dell'assessorato alle Politiche giovanili. 130 Vedi http://www.ciclospazio.it (ultimo accesso giugno 2011). 131 Vedi http://www.ciclomurgia.com (ultimo accesso giugno 2011). 132 Vedi http://www.piedibus.it/ (ultimo accesso giugno 2011).

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perfetta soprattutto per scongiurare gli ingorghi automobilistici all'ingresso e all'uscita da scuola, ma anche per sensibilizzare i più piccoli ad un certo tipo di mobilità. Questi sono esempi di movimenti “ibridi”, in cui si intrecciano idee “dal basso” e finanziamenti pubblici. “Chi ha scelto di essere padrone della propria esistenza, non accontentandosi di una vita da puro e semplice cliente/consumatore, usa la bicicletta.”133 Il movimento della Massa Critica, o Critical Mass, è invece una delle azioni più diffuse a livello di “protesta politica” che rivendica l'importanza

del

ciclismo

urbano:

l'obiettivo

primario

è

la

sensibilizzazione dei cittadini ancor prima che dei politici. Nato nel 1972 a San Francisco, si è presto diffuso in tutto il mondo, facilmente “imitabile” per il suo carattere piuttosto anarchico (nel senso più puro del termine, cioè senza regole precise, quindi adattabile alle esigenze dei vari luoghi in cui è promosso). “La bicicletta inventa una nuova geografia della città. Per maggiori informazioni rivolgiti alla tua mente.”134 Così recita uno dei tanti volantini che lo pubblicizzano. Il nome lo deve a George Bliss, che definì il traffico cinese “una specie di massa critica, nella quale le biciclette giungono a un incrocio e aspettano di diventare un numero sufficiente per aprirsi un varco attraverso le auto, costringendole a fermarsi e viceversa”135. In pratica consiste in un libero ritrovo di ciclisti, che seguono percorsi urbani più o meno prestabiliti, senza un vero e proprio leader, per 133 Wolfgang Sachs, For love of the Automobile: Looking Back into the History of Our Desires, University of California Press, Berkeley 1992, in Chriss Carlsson, op. cit., p. 24. 134 Chriss Carlsson, op. cit., p. 33. 135 Ivi, p. 156.

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mostrare agli automobilisti (soprattutto, ma in generale a tutti i cittadini) la comodità del muoversi in bici nel traffico. “Critical Mass è un tentativo assolutamente unico di espressione pubblica e collettiva per rivendicare la vita di relazione e il senso di interdipendenza e di reciproca responsabilità che si stanno perdendo. Critical Mass dà lo stimolo e la forza per disertare dalla insensata schiavitù quotidiana, che il possesso dell'autovettura e le relative spese comportano. L'aspetto più rivoluzionario, tuttavia, è il fatto che questo obiettivo venga raggiunto, portando la gente a partecipare in prima persona a una manifestazione diretta della creatività umana, estranea a ogni logica di mercato, che ci rigenera, offrendoci un assaggio di uno stile di vita praticamente dimenticato, libero, conviviale, cooperativo, associativo, collettivo.”136 Il carattere festoso impreziosisce queste “maratone non autorizzate” di ciclisti che amano – giustamente – ritenersi parte integrante del traffico. “La minaccia più grande che la Critical Mass pone al sistema è evidentemente il divertimento, che alimenta la capacità umana di condividere un piacere al di fuori della dimensione commerciale e, per questa ragione, costituisce un precedente particolarmente entusiasmante.”137 Si sommano una serie di fattori che contribuiscono a creare un'atmosfera che non vuole dimostrare solo l'utilità, la comodità, l'economicità dello spostarsi in bici, ma anche la bellezza di un modo di vedere e affrontare il mondo. “Quando una persona usa la bici tutti i giorni, compie un gesto di 136 Ivi, pp. 87-88. 137 Ivi, p. 93.

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solenne rottura rispetto a una delle fondamentali certezze e <<verità>> della cultura dominante, cioè la necessità di possedere un'automobile per andare in giro.”138 La quotidianità del gesto è riflessa nella regolarità con cui il movimento si ritrova (solitamente una volta al mese) e attua la sua festa per “vedere la città così come potrebbe diventare se solo una Massa Critica, ossia un numero sufficientemente grande di persone, si decidesse a cambiare radicalmente le proprie abitudini di mobilità e di consumo, trasformando il trasporto urbano da una stressante routine a una pratica felicitaria.”139 L'idea di pratica felicitaria è politicamente illuminante, vederla attuata con metodi spontanei e popolari è un segno di come la mobilità e la scena culturale locale sono correlate alla qualità della vita. In Italia la città con la Massa Critica più organizzata è Roma, dove il traffico intenso la rende una necessità: ogni ultimo venerdì del mese i ciclisti invadono le strade, e una volta all'anno la città ospita la Ciemmona140, Critical Mass interplanetaria. Molto diffuse sono anche le Ciclofficine popolari, nella capitale ma non solo, luoghi di incontro per chi vuole riparare la bicicletta o condividere esperienze. Questi “esperimenti” possono essere la dimostrazione di un bisogno, anzitutto vitale, di vivere diversamente. Non a caso si verificano soprattutto nei luoghi dove mancano delle politiche governative adatte, e dove in primo luogo occorre sensibilizzare la gente per 138 Ivi, p. 88. 139 Ivi, p. 41. 140 Vedi http://www.ciemmona.org (ultimo accesso giugno 2011).

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evitare che si affermi l'idea che certi stili di vita siano solo abitudini di qualche strano individuo su due ruote. “La bicicletta è un oggetto che ha assunto nelle diverse parti del mondo un significato strettamente ambiguo e contraddittorio. In alcuni contesti viene vista come uno strumento di emancipazione […], in altri come un segno di povertà e arretratezza. E' un oggetto profondamente vittoriano […] e contemporaneamente una macchina della futura utopia. Viene considerata un mezzo di trasporto verde, ma è anche intimamente legata alla storia e alla cultura automobilistica e allo sviluppo della rete stradale, che tanto danno hanno portato all'ambiente. E' tanto una causa di sfruttamento (la schiavitù del caucciù) quanto uno strumento per lo svago all'aria aperta, che ci ha regalato la meravigliosa parola freewheeling, cioè girare in bicicletta senza meta e in piena libertà.”141 Negli Stati Uniti, dove la Critical Mass è nata ormai quasi quarant'anni fa, l'esigenza si pone in contrapposizione a città metropolitane a misura d'auto, con strade infinite. David Byrne142, pedalatore americano (oltre che musicista ed ex leader dei Talking Heads), per esperienza ha notato che “la maggior parte delle città americane non è molto accogliente per il ciclista. E neppure per i pedoni. […] Le esistenze, l'urbanistica, i bilanci e il tempo

ruotano

tutti

intorno

all'automobile.”143

Viaggiatore

inseparabile dalla sua bici pieghevole, nei suoi Diari della bicicletta, fa un'interessante analisi e comparazione di città americane ed europee nella loro “pedabilità”. Se la politica può definirsi l'“insieme di compromessi che 141 Ivi, p. 177. 142 David Byrne, Diari della bicicletta, Bompiani, Milano 2010. 143 Ivi, p. 13.

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quotidianamente dobbiamo fare gli uni con gli altri per poter vivere” 144

, unire gli sforzi – istituzionali da una parte (finanziamenti, piste

ciclabili, bike sharing) e “popolari” dall'altra (sensibilizzazione, associazioni o movimenti come quello della Massa Critica) – può essere un modo perché la bicicletta sia uno strumento politico realmente efficace volto a direzionare trasformazioni sociali.

144 Chriss Carlsson, op. cit., p. 215.

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CAP. 6 Percezione del tempo e questione della velocità: Virilio “Chi si ferma è perduto, ma si perde tutto chi non si ferma mai.”145 Già Illich, in conclusione di Energia ed equità, si è fatto promotore della necessità di una demistificazione della velocità, con l'idea di una soglia-limite per favorire l'equità146. “[il passeggero abituale] non vuole essere maggiormente libero come cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla propria libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di essere caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto migliore, non vuole liberarsi dall'asservimento ai prodotti. E' dunque indispensabile ch'egli riesca a comprendere che l'accelerazione da lui ambita è frustrante e non può che portare a un ulteriore declino dell'equità, del tempo libero e dell'autonomia.”147 Paul Virilio, teorico della dromologia – “scienza della velocità” – è colui che può meglio di tutti aiutarci a comprendere in che senso, come dice Illich, l'accelerazione è frustrante. 145 Niccolò Fabi, La bellezza, dall'album Novo Mesto (Virgin, 2006); non è certo un filosofo, ma trovo questa frase piuttosto eloquente. 146 Vedi cap. 2 di questa tesi. 147 Ivan Illich, op. cit., p. 30.

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Filosofo e urbanista francese, ha dedicato gran parte dei suoi studi allo sviluppo delle tecnologie in relazione a velocità e potere. La rivoluzione dromocratica148 è quel processo per cui la nostra società è soggetta ad una continua accelerazione, vedendo in essa un segno del progresso. Nell'ottica dromocratica la prima libertà in assoluto è il movimento, e il suo punto culminante è la libertà di velocità. Il primo contesto, storicamente, in cui si è sviluppata questa logica è quello militare: nella strategia di guerra, la sosta equivale alla morte; la velocità è tempo guadagnato per la vita (non a caso il progresso delle macchine belliche implica un'accelerazione del movimento e dei proiettili). Dalle battaglie nelle fortezze medievali, in cui prevaleva il combattimento prolungato, le cose sono molto cambiate: in quelle attuali lo stato d'urgenza dei tempi di guerra è ridotto a pochi minuti (nell'ipotesi di un conflitto nucleare è una situazione perlomeno preoccupante, poiché in pochi istanti si condensano le scelte sul destino dell'umanità). In quest'ottica disarmare vuol dire decelerare. Con la rivoluzione industriale si è ampliato lo spettro di quella dromocratica. La velocità si è affermata come speranza dell'Occidente e legata indissolubilmente all'idea di potere. Potere vuol dire muovere, il potere politico riguarda la polis e dunque è anche amministrazione delle strade: in esse si oppongono sosta (che, nell'ottica dromocratica, ha una connotazione negativa) e circolazione (che vuol dire abitabilità). 148 Paul Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, Multhipla edizioni, Milano 1981.

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Tuttavia, la rivoluzione del trasporto non è automaticamente anche del benessere (certo alcuni miglioramenti sono stati eccellenti, ma non si può dire lo stesso se si allarga lo sguardo su tutti gli effetti derivati): maggiore rapidità vuol dire meno libertà (si pensi, a titolo esemplificativo, ai controlli nelle stazioni e negli aeroporti). Non c'è convergenza tra progresso dromologico e progresso umanosociale. L'anima è legata al suo corpo, primo veicolo metabolico, se esso viene sostituito dalle macchine è inevitabile anche uno sconvolgimento antropologico. La contrazione delle distanze è una realtà strategica, una negazione dello spazio: la dissuasione della materia dà valore al nonluogo della velocità. In questa direzione, la violenza della velocità è destino e destinazione del mondo. La soppressione delle distanze implica inoltre l'annientamento del tempo, variandone la sua percezione da parte degli uomini, abitanti di uno spazio-tempo (nel senso che non possiamo abitare solo uno dei due, poiché se siamo in un luogo, siamo lì anche inevitabilmente in un momento). La presenza dell'altro si limita ad essere passeggera, favorendo l'affermazione

della

consuetudine

cinetica

della

sparizione

improvvisa149. Questa

estetica

della

sparizione

la

vediamo

anche

nella

militarizzazione del nascosto, in cui si passa dall'uniformità (le 149 Paul Virilio, L'orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, Costa&Nolan, Genova 1986.

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uniformi, appunto) all'invisibilità (sono ora mimetiche). Virilio lega la dromoscopia anche al punto di vista dell'automobilista. L'automobile è un medium dromovisivo: sedersi al posto di guida equivale a trovarsi in un

simulatore di paesaggi, attraverso il

parabrezza si vede il mondo come in un videogame. La distanzatempo si dissolve, la profondità di campo si restringe. Nell'automobile si verifica una mescolanza di vicino e lontano: mentre si avvicina la realtà fisica, l'orizzonte si allontana (restando esso la condizione dell'accelerazione, più acceleriamo più si sposta in avanti). La velocità pura è la negazione del tragitto, normalmente composto di partenza – viaggio – arrivo. Man mano che la società accelera, il viaggio si riduce sempre più, fino a diventare nulla: alla fine resterà solo l'arrivo (un po' come cambiare canale con il telecomando). I passeggeri sono sempre più passivi. La velocità implica la fine del mondo fisico come verità dimensionale: da questo punto di vista, la verità è la prima vittima della celerità. Oltre che dal punto di vista meramente fisico, la rivoluzione dromocratica è chiaramente avvenuta anche (ed è soprattutto in questa direzione che ha raggiunto l'apice150) nella comunicazione, nella trasmissione di informazioni. La velocità della luce è diventata parametro di ogni realtà, ma l'eccesso di velocità è come l'eccesso di luce: il contenuto si perde, perché abbagliato. L'istantaneità

del

trasferimento

dell'informazione

150 Fisicamente, non abbiamo (ancora?) raggiunto la velocità della luce.

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porta

alla


miniaturizzazione e alla scomparsa dell'oggetto tecnico – scomparirà anche il mondo fisico? Ne La velocità di liberazione151, Virilio ci fa notare la monocronia del presente, tempo dominante: la sua assenza di profondità porta al crollo della conoscenza della profondità del passato (la prima terribile conseguenza antropologica è l'oblio). Il futuro, poi, è sempre già presente oppure irraggiungibile. C'è un inquinamento dromosferico delle distanze di tempo che “riduce a niente o quasi l'estensione di un angusto pianeta sospeso nel vuoto siderale”. E' la stessa grandezza-natura ad essere inquinata (la scala terrestre si riduce): per questo motivo non si dovrebbe parlare solo di ecologia “verde” ma anche di ecologia grigia (che si occuperebbe del degrado dell'estensione del nostro habitat), per tentare di inibire il processo di atrofizzazione del tragitto (e recuperare tutti e tre i “fattori”: partenza – viaggio – arrivo). C'è inquinamento della prossimità fisica tra le comunità, si disintegrano le relazioni di vicinato. Questo arreca danni innanzitutto al nostro sentimento di realtà: se essere presente vuol dire essere vicino, l'egemonia delle telecomunicazioni porta al dominio dell'assenza. Le trasformazioni dovute all'istantaneità delle tecnologie portano al “dramma” della fusione tra tecnologico e biologico, e al paradosso per cui ci muoviamo stando fermi. Un'altra interessante riflessione del filosofo francese è correlata alla 151 Paul Virilio, La velocità di liberazione, ed. Strategia della lumaca, Roma 1997.

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tradizione cristiana occidentale, poiché in questo contesto si dimostra sempre più vera la domanda evangelica: “A che serve all'uomo guadagnare l'universo se perde la sua anima?”152, mentre si svuota di significato il precetto “ama il prossimo tuo come te stesso” che non avrebbe senso nella forma “attualizzata” di “amare il nostro lontano come noi stessi”. Anche Virilio, come Augé153, individua la criticità dei nonluoghi. E parla di iperconcentrazione della città-mondo: una omnipolitana – che (non) ha il centro in nessun luogo, e il cui perimetro è ovunque. Così è sempre più complessa la comprensione della soggettività, e al trionfo della velocità corrisponde la “disfatta dei fatti”. La nuova tecnologia porta alla perdita del corpo154. Nella città sovraesposta, in cui il senso del confine è mutato, dove altrove e qui si confondono indistinti, lo spazio è ancora ciò che impedisce che ogni cosa sia nello stesso posto?155 L'architettura si è introvertita, non ci sono più saperi in grado di organizzare il tempo e lo spazio delle società, consentendoci di misurarci con l'ambiente naturale. E' in crisi la nozione di dimensione, non più spazio sostanziale e omogeneo ma accidentale ed eterogeneo, perlomeno disorientante.156 Abolendo le distanze di tempo si verifica un'effrazione morfologica, 152 Vangelo secondo Marco, 8:36; cit. in Paul Virilio, La velocità di liberazione, op. cit. Abbiamo raggiungo la velocità di 28000 km/h per uscire dalla gravità terrestre, ma ci siamo persi già sulla Terra, figuriamoci nell'Universo. 153 V. cap. 4 di questa tesi. 154 Ubaldo Fadini, Virilio e la fenomenologia della percezione, in Paul Virilio, La velocità di liberazione, op. cit. 155 Paul Virilio, Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1988. 156 Così Hollywood è il simbolo della città basata sulle apparenze e in eterno movimento digitale.

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ossia la supremazia della velocità su spazio e tempo157; le nuove scienze corrono un rischio con il “culto della velocità della luce”: il delirio d'interpretazione, la velocità supererebbe lo scarto tra fisica e metafisica! Ma l'incertezza domina, anche in fisica158. Nella nuova architettura improbabile il nuovo ufficio è il monitor, caratterizzato da ubiquità opto-elettronica (il mondo del virtuale). Il tempo della quotidianità è interrotto in modo devastante: dal giorno solare a quello chimico (delle candele, quando fuori non c'è luce) a quello elettronico (ventiquattro ore al giorno). Lo scarto tra la rapidità di trasmissione dei mezzi e la nostra capacità di cogliere il presente è incolmabile, ma non solo: mentre riusciamo a migliorare sempre più la rapidità dei mezzi, le nostre capacità percettive diminuiscono, come se le due cose fossero inversamente proporzionali. Il non-presente è più importante di ciò che ci è intorno (l'utilizzo sfrenato di cellulari, smartphone e di tutti i dispositivi portatili ne è l'esempio più evidente), il vicino è screditato a vantaggio del lontano159. Una dimensione si va perdendo: c'è (con)fusione del reale e della sua rappresentazione. C'è uno spazio critico tra comunicazione di massa e distruzione di massa. Anche volontà e identità scompaiono nella confusione tra spazio e velocità. In questo reale che sfuma, la percezione del tempo è sempre più 157 Dimenticando come, anche in senso strettamente fisico, la velocità è composta di spazio e tempo. 158 E' sufficiente pensare al principio di indeterminazione di Heisenberg. 159 Ubaldo Fadini, op. cit.

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ridotta al presente. La dromocrazia, il dominio della velocità – che è violenta – ci rende schiavi. Ricapitolando, con l'eccesso di velocità si perdono: spazio, tempo, verità, identità – mica poco! Il primo si annulla, catapultandoci in una non-dimensione, il secondo non sappiamo più percepirlo, la verità è introvabile, per cui siamo spaesati... Chiaramente in controtendenza rispetto a questa egemonia della velocità, il muoversi in bicicletta è un elogio della lentezza, una riappropriazione del tempo e della sua percezione. Anche in questo non è – ovviamente – l'unica (né “la”) soluzione: vediamo infatti numerosi sforzi in direzione dei vari Slow food o Slow fish (dal punto di vista gastronomico), o anche della Slow economy160 (stesso concetto esteso a più campi). Tutto questo per andare nella direzione opposta a quella che Virilio ci ha descritto e che potremmo notare tutti i giorni, se provassimo a percepire il tempo di cui siamo schiavi, noi che abbiamo sempre fretta.

160 Idee e progetti raccolti in Federico Rampini, Slow economy. Rinascere con saggezza, Mondadori, Milano 2009.

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CAP. 7 Le città e i luoghi, tra globale e locale “Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d'una mano...”161 Per poter vivere elogiando la lentezza è necessario che gli spazi in cui ci muoviamo ce lo permettano. Sono le abitudini diffuse che determinano la conformazione delle nostre città, ma è vero anche il contrario: cambiando uno dei due fattori anche l'altro non può rimanere invariato. Così Italo Calvino, parlando di una delle sue città invisibili: “Ogni volta che si entra nella piazza, ci si trova in mezzo a un dialogo.”162 Gli interlocutori che potremmo ipotizzare sono molti: gli abitanti, ma anche le strade, gli incroci, i palazzi “parlano” di un luogo, lo determinano nella sua tipicità. Da questo dialogo, tra luoghi e persone, si sviluppa la città. Le metropoli contemporanee sono “figlie” di un fenomeno che, economicamente e socialmente, ha caratterizzato i tempi recenti e caratterizza i nostri giorni: la globalizzazione. 161 Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 18. 162 Ivi, p. 86.

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L'urbanizzazione crescente vede le città, anche quelle medio-piccole, espandersi secondo esigenze dettate da un'idea “globale”, e sempre meno a misura d'uomo. Sono molti i fenomeni che lo dimostrano, e per una loro analisi possiamo avvalerci degli studi di Saskia Sassen163 che, ne Le città nell'economia globale164, esamina l'intersezione tra le dinamiche globali e locali. Le città, essendo la localizzazione di transazioni internazionali, si pongono come luogo di processi globali: tuttavia, l'essere connesse globalmente porta una disconnessione locale, fisica e sociale. Il modello astratto della telematica si distanzia dai processi materiali, favorendo l'attuazione di un “pericoloso” paradosso: ad una crescita del settore iperspecializzato (soprattutto finanziario) corrisponde una decrescita del settore primario. Ma la trasmissione globale ha bisogno delle infrastrutture! Al centro dell'economia non ci sono più materie prime localizzate, ma finanza e servizi specializzati. L'impatto

urbano

della

globalizzazione

economica

è

anche

nell'insediamento delle strutture, nella mutazione delle città in quartieri generali delle imprese. Chiaramente questo non è valido per tutte le città: il processo si diversifica in base al settore trainante dell'economia di ciascun centro urbano. Questo porta al delinearsi di profonde disuguaglianze fra le città. I

mutamenti

si

distribuiscono

tra

il

valore

diverso

dato

all'industrializzazione, o al turismo, o ai settori culturale e ambientale: se l'ago della bilancia è equilibrato – cosa solitamente abbastanza rara 163 Sociologa ed economista statunitense. 164 Saskia Sassen, Le città nell'economia globale, Il Mulino, Bologna 1997.

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– lo sviluppo della città può essere armonioso. Si vanno affermando nuove e molteplici geografie di centralità e marginalità, una nuova gerarchia urbana nella complessa articolazione fra le città globali. Una delle distinzioni fondamentali è tra l'urbanizzazione che cerca di dare continuità storica e le città senza storia: i centri storici spesso sono il fulcro turistico delle città (questo può valere in Europa, molto più difficilmente in America). Il centro può assumere varie forme, tuttavia spesso quello tradizionale è abbandonato a se stesso, perché sono privilegiati i nodi urbani commerciali o comunque settoriali: le piazze del mercato si spostano in periferia, le “vie del passeggio” sono sempre più “rinchiuse” in isole pedonali e “vittime” di fallimenti per la concorrenza degli ipermercati che si affiancano o sostituiscono i quartieri “industriali”. Alle disuguaglianze fra le città, dunque, si aggiungono quelle nelle città, tra i vari quartieri. Questo,

in

alcuni

discriminazioni

casi,

determina

antropologiche,

tra

anche

segmentazioni

lavoratori

e

specializzati

(protagonisti di un settore in crescita) e non specializzati – in un settore in decrescita ma che resta comunque fondamentale (in molte situazioni si tratta di lavoratori immigrati): il lavoro a basso reddito è ininfluente

nell'economia

ma

determinante

nella

socialità

infrastrutturale. In questo divario crescente, la disparità dei redditi e la precarizzazione del lavoro necessitano di una ristrutturazione dei consumi. Anche per questo le trasformazioni nell'organizzazione del settore produttivo sono all'ordine del giorno. 63


Nella città, che in quest'ottica sono luogo di concentrazione delle diversità, emergono tutte le contraddizioni della globalizzazione. Un'idea per andare in una direzione diversa da quella globale ce la dà l'urbanista Alberto Magnaghi165, che propone un progetto che abbia come fulcro il locale166. Il cosiddetto approccio territorialista si basa, appunto, sul territorio, definibile in diverse accezioni: anzitutto un organismo vivente ad alta complessità, un'opera d'arte, un neoecosistema con il suo ciclo di vita. L'evoluzione del nucleo abitativo in comunità non si può ritenere esattamente lineare: dal villaggio alla polis, alla città romana, a quella medievale, barocca, moderna e infine alla metropoli; il passaggio non è mai scontato ma sempre determinato da molti fattori. Magnaghi definisce la metropoli un'urbanizzazione distruttiva della città. Per questo emerge la necessità di nuove regole di progettazione del territorio. La metropoli, nella sua morfogenesi, inghiotte i luoghi: soffre di ipertrofia e topofagia. In questo senso la megalopoli va verso la necropoli! La liberazione dal territorio è un evento storico poco durevole e poco sostenibile: da abitanti si diviene consumatori, al luogo si sostituisce il sito, la ragione economica sostituisce quella storica (che, invece, è stata protagonista delle precedenti evoluzioni urbanistiche). Il fatto che la tecnologia sia dovunque, in tutto e sempre, evidenzia una nostra dipendenza da essa che è innanzitutto fragilità. 165 Docente di pianificazione territoriale all'Università di Firenze. 166 Alberto Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

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Il

dominio

delle

funzioni

economiche

si

riflette

anche

sull'organizzazione dello spazio, al centro di tutto ci sono: produzione, circolazione, riproduzione e consumo. Questo implica una dissoluzione dello spazio pubblico, che si riduce a parcheggi e ipermercati. La perdita di potere sulla cosa pubblica porta con sé la fine della cultura dell'abitare. Non viviamo più in città ma in siti funzionali: gli spazi aperti sono smembrati, divisi settorialmente e privi di una connessione tra loro (riservati o all'industrializzazione metropolitana, o all'industria verde – l'agricoltura, anch'essa rinchiusa in se stessa, o al tempo libero...). Ma può l'uomo esistere senza la complessità geografica dei luoghi?167 L'irreversibilità della forma metropoli probabilmente è ormai determinata, per via della sovrappopolazione e dell'urbanizzazione che non si possono fermare. Tuttavia c'è la possibilità di un “superamento strategico”, che passa per un cambiamento culturale del concetto di ricchezza e per una certa forma di riterritorializzazione; a partire dalle economie locali, dal ritrovamento dell'identità e dalla valorizzazione dell'ambiente. Un esempio molto vicino a noi – spazialmente e temporalmente – è il caso della ricostruzione della città de L'Aquila e delle zone limitrofe colpite dal sisma del 2009. “I posti non sono mai tabula rasa, anche dopo un terremoto, è il 167 L'uomo ha necessità di una geografia: parlando di una geografia dell'espressione si intende non solo dire ma anche comprendere. [Giuseppe Dematteis, Un modem per Estia, in Mike Davis (a cura di), Geografia dell'espressione. Città e paesaggi del terzo millennio, Mimesis, Milano 1997.] In quest'ottica, nel dibattito contemporaneo si parla anche di una geofilosofia, che rientrerebbe nella necessità di rapportare filosofia e non filosofia; in particolare perché l'eccedenza del paesaggio urbano porta alla perdita di identità. [Tiziana Villani, Geografia dell'espressione, in Mike Davis, op. cit.]

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tessuto sociale e culturale che fa i posti.”168 Esemplare perché si (ri)parte da zero, e le possibilità sono due: andare o restare. E restare vuol dire o “farsi guidare” verso una nuova vita, o costruirsela da sé. “Dall'alto” le proposte di ricostruzione dimenticano il territorio 169: quartieri ghetto lontani dai vecchi centri, speculazione edilizia per misure

antisismiche

talvolta

eccessive170,

vita

degli

abitanti

condizionata da edificazioni senza senso, quartieri dormitorio senza personalità, etc... “Dal basso” molti comitati171 si battono, invece, per ricostruire e mettere a norma i centri abitativi distrutti, e recuperare così la vecchia dimensione sociale. Tornando a Magnaghi, in riferimento a situazioni più generiche di “evoluzioni” urbane,

egli sottolinea la dicotomia tra le idee di

sviluppo e di sostenibilità. Quest'ultima dovrebbe essere la condizione strutturale dello sviluppo economico. I luoghi sono soggetti culturali, non bestie da soma: per questo non ci si dovrebbe limitare a misure di compatibilità ambientale e paesaggistica ma, appunto, pensare alla sostenibilità. L'approccio territorialista è antieconomicista, perché non si basa (come quello globalizzante) sulle ragioni economiche; antinaturalista 168 Franco La Cecla, http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/cronaca/sisma-aquila10/terremoto-rinascita/terremoto-rinascita.html (ultimo accesso giugno 2011), articolo dell'11 maggio 2009. 169 Tralasciamo il discorso delle tendopoli che, si spera, hanno carattere temporaneo. 170 Non perché non servano misure antisismiche, ma perché in alcuni casi sono state adottate, con fine meramente speculativo, tecniche solitamente alternative tra loro! Il film-documentario del 2010 Draquila. L'Italia che trema di Sabina Guzzanti ci dice molto in proposito. 171 Primo fra tutti il Comitato 3e32, http://www.3e32.com/ (ultimo accesso giugno 2011).

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e antropobiocentrico perché non è solo la natura al centro delle attenzioni, ma l'uomo e l'ambiente insieme. La cura dell'ambiente è necessaria anzitutto per l'uomo, che dell'ambiente non può fare a meno: ai danni dell'uomo la Terra può adattarsi modificandosi, come ha fatto nelle tante ere che ha vissuto, ma non è detto che l'uomo riesca a sopravvivere a questi adattamenti. Per questo è necessaria una riconquista della sapienza ambientale. La proposta di uno sviluppo locale autosostenibile implica la concezione del luogo essenzialmente come patrimonio e pone l'autosostenibilità al centro della riunificazione tra abitante e produttore. Lo sviluppo locale si oppone a quello globale. Parafrasando Aristotele, potremmo dire che la sostenibilità si dice in molti modi: è politica, con l'autogoverno; sociale, se c'è equità e integrazione di interessi; economica, nel momento in cui si produce valore aggiunto locale; ambientale e territoriale, quando si decidono regole per l'insediamento umano e la riterritorializzazione. Per un cambiamento concreto sono necessarie nuove pratiche di comunità: autopromozione urbana, esperienze autoriflessive,

con

finalizzazione solidale. Magnaghi cita Prigogine riaffermando il valore dell'utopia: “l'utopia del futuro costruisce il presente”. Il cambiamento può verificarsi attraverso l'attuazione di uno scenario strategico, in cui gli abitanti sono protagonisti attivi e non solo passivi dell'urbanizzazione. Occorre ristabilire il primato dell'abitare, che ha un significato simbolico, culturale, estetico, identitario, comunitario, di stile di vita e 67


di sviluppo... Bisogna limitare le distanze (riducendo così la mobilità pendolare) e riaffermare la strategicità del luogo storico. Occorre rideterminare il tempo interno delle città: va develocificato (isole pedonali e piste ciclabili sono solo una piccola parte di un processo che dovrebbe essere innanzitutto al centro di un cambiamento della mentalità). Anche l'urbanista italiano, come Augé172, porta come esempio il mercato, ipotizzando un passaggio inverso dagli ipermercati ai supermercati: il piccolo commercio può essere il primo agente di sviluppo

locale.

Il

“problema

degli

ipermercati”

ha

molte

sfaccettature: è urbanistico (esaltazione del trasporto privato), paesistico (omologazione diffusa), economico (distruzione delle produzioni del territorio locale), ambientale (inquinamento, traffico, cementificazione, imballaggi), sociale (identificazione abitanteconsumatore). “Ci aggiriamo tra le macerie ricercando un senso nel nostro agire quotidiano, nel nostro fare società locale.”173 Occorre dunque fare società locale, ricostruire una coscienza di luogo (in modo che ogni posto possa in un certo senso acquisire un suo genius loci) attraverso una globalizzazione dal basso, bisogna unire i frammenti della rete dello sviluppo sostenibile e partecipato. “E' solo nel locale che si produce la socialità [risorsa scarsa] che dà valore aggiunto.”174 172 Vedi cap. 4 di questa tesi. 173 Alberto Magnaghi, “Glocalizzazione”: qualche idea per un'alternativa dal basso, http://www.nonluoghi.info/old/magnaghi.html (ultimo accesso giugno 2011). 174 Ibidem.

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La contraddizione fra capitale e lavoro si evolve in quella fra omologazione (e distruzione delle culture) e riaffermazione delle differenze, tra eterodirezione e autogoverno. Il riconoscimento delle peculiarità socioculturali passa per la valorizzazione delle risorse locali: “accompagnare la rivolta identitaria verso il fare società locale, e non negarla a priori ricadendo in un astratto universalismo dei valori, mi sembra il primo salto culturalpolitico da compiere”175. Tra le politiche cosiddette top-down e le bottom-up è necessario consolidare degli istituti intermedi: un intervento esclusivamente dall'alto non serve al territorio, ne fa perdere l'identità; purtroppo però, gli interventi dal basso spesso sono insufficienti. Per questo bisogna “connettere i frammenti di energie innovative facendoli precipitare sinergicamente in uno stesso territorio, cominciando a trasformarlo visibilmente come atto cooperativo della rete del multiverso di attori, costruendo scenari condivisi di futuro.” 176

“L'ipotesi della globalizzazione dal basso riconosce la disparità della relazione fra locale e globale e non risolve il problema con cortocircuiti fallimentari per lo sviluppo delle società locali: propone di lavorare prioritariamente e strategicamente alla crescita delle reti locali e della loro densità sociale come condizione imprescindibile per poter affrontare relazioni e sollecitazioni dalle reti lunghe del globale.”177 La globalizzazione, dunque, se invertita – non più omologante su 175 Ibidem. 176 Ibidem. 177 Ibidem.

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criteri globali ma basata su connessione di specificità locali – può essere un modo di recuperare il territorio e la sua identità. “La città è il luogo in cui la parola si trasforma in spazio visibile, in cui il discorso pubblico assume la forma dell'azione politica.”178 Per questo dalla città dovremmo apprendere anche il valore dell'esperienza umana. La bicicletta, ancora una volta, è un esempio di “recupero dell'identità”, in questo caso dello spazio, in un'ottica localizzante anziché globalizzante. Le piste ciclabili sono solo un esempio di incentivazione all'avvicinamento al territorio, tuttavia resta impareggiabile la dimensione dell'indipendenza, di potersi muovere in assoluta libertà (senza dipendere da altri mezzi se non le proprie gambe) in ogni angolo del luogo in cui si vive, che dovrebbe essere unico (“Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.” 179): perché è lì che ci si trova, e non da un'altra parte – quando i posti diventano tutti uguali diventa fin troppo facile perdersi.

178 Vincenzo Guarrassi, I corpi, lo spazio e la città. Frammenti di un discorso geografico, in Mike Davis, op. cit. 179 Italo Calvino, op. cit., p. 50.

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CAP. 8 La questione ecologica Si è cominciato esaminando il tema dell'abitare, attorno al quale sono stati individuati nuclei di riflessione sulle trasformazioni sociali e antropologiche. Volutamente, si è lasciata per ultima la questione ecologica: è probabilmente la prima che ci viene in mente se pensiamo ad un modo diverso di vivere nell'ambiente (nel nostro caso incentrato sulla mobilità ciclistica), dovrebbe essere ovvia, ma non lo è affatto. E' chiaro che la bicicletta è una scelta che ha tra le sue motivazioni quella ecologica, del rispetto dell'ambiente anzitutto come habitat. Occorre, dunque, analizzare il senso (o i sensi) della cosiddetta “questione ecologica” per comprendere ancora di più il senso (o i sensi) della mobilità ciclistica (che proprio in quest'ottica si definisce sostenibile). Numerosissime sono le pubblicazioni, le interpretazioni, i possibili punti di partenza, le filosofie sviluppatesi sul tema: sarebbe dunque impossibile trattarle tutte in questa sede. Tuttavia risulta necessario e doveroso tracciare alcune linee di orientamento (restando la scelta dei testi di riferimento ridotta a solo una parte di quelli essenziali), anche perché vista l'ampiezza delle 71


discussioni pur nell'opinione pubblica è facile cadere in luoghi comuni o peggio ancora in idee raccontate ed espresse solo per sentito dire o presunzioni di vario genere. Abbiamo già visto180 il significato prettamente biologico del termine ecologia. Ne Il pensiero ecologico181, Edgar Morin182 sottolinea il bisogno di un pensiero dell'organizzazione – essendo l'ecologia la scienza delle interazioni combinatorie / organizzatrici che intercorrono tra tutte le componenti fisiche e viventi degli eco-sistemi. Potrebbe dirsi assiomatico l'asservimento dell'uomo alla natura: dai primi villaggi ai giorni nostri, anche le città dipendono da essa, non essendosi mai emancipate. “Più l'uomo possiede la natura, e più la natura lo possiede.”183 L'uomo, parassita del mondo, distruggendolo si autodistrugge. Il rapporto tra oikos ed esseri viventi è simbiotico: l'uno non può esistere senza gli altri, per questo è necessaria una co-evoluzione. La complessità del pensiero ecologizzato presume un dialogo tra natura e cultura, esige perciò una presa di coscienza diretta per porne le basi. Il Wuppertal Institut184 è uno dei maggiori centri di ricerca per il clima, l'ambiente e l'energia; ha raccolto nel Dizionario dello sviluppo185 le definizioni dei termini fondamentali per orientarsi nel vasto mondo dell'ecologia. Lo sviluppo è innanzitutto una particolare forma 180 Vedi il cap. 1 di questa tesi, p. 10. 181 Edgar Morin, Il pensiero ecologico, Hopefulmonster, Firenze 1988. 182 Filosofo e sociologo francese. 183 Ivi, p. 95. 184 A Wuppertal, in Germania. 185 Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Gruppo Abele, Torino 1992.

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mentale, una percezione che modella la realtà. Wolfgang Sachs, nel definire l'ambiente, evidenzia l'ossimoro dello sviluppo equo186: dove c'è sviluppo si crea inevitabilmente uno scompenso sociale – non è possibile uno sviluppo senza limiti, poiché le risorse sono limitate e non bastano per tutti – è così minacciata la sopravvivenza stessa del pianeta. Uno dei problemi nevralgici è che siamo capaci di consumare in un anno ciò che la natura ha impiegato un milione di anni per accumulare. I propositi dell'O.N.U., dal rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future) del 1987 al progetto Agenda 21 (iniziato nel '92), si basano sull'idea di sviluppo sostenibile, “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.”187 Il problema è che i limiti naturali dovrebbero essere rispettati e non posti: uno sviluppo illimitato vìola i limiti della natura. 188 Il termine risorse, nel suo significato originario, deriva da ri-surgere: ha in sé una capacità autogenerativa, ma purtroppo non è così per le risorse del pianeta (fatta eccezione per quelle rinnovabili, appunto). Di fatto l'uomo dipende da esse, viceversa il loro consumo dipende dal potere dell'uomo. Ivan Illich definisce l'abitudine al bisogno come la caratteristica dell'homo miserabilis189. I bisogni non sono né necessità né desideri, ma il fondamento universale di certezze comuni sociali. Le speranze diventano aspettative e i desideri diventano rivendicazioni nel momento in cui le necessità si dissolvono alla luce dello sviluppo. 186 Wolfgang Sachs, Ambiente, ivi. 187 WCED, Commissione mondiale sull'ambiente e sviluppo, 1987. 188 Vandana Shiva, Risorse, in Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, op. cit. 189 Ivan Illich, Bisogni, ivi.

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Per esempio, i costi di una malsana medicina professionale continuano a sopravanzare quelli di uno stile di vita salutare. La miseria dell'umanità sta nel definirsi in base a ciò che le manca. “Definire la nostra umanità comune in termini di bisogni comuni significa ridurre l'individuo al mero profilo dei propri bisogni.”190 Serge Latouche ci fa notare 191 come gli standard di vita siano ridotti al benessere materiale: le differenze tra i modi di vita si sono appiattite a differenze dei livelli di vita: come se ben-essere fosse lo stesso che ben-avere, e se qualità di vita fosse lo stesso che quantità di vita. Lo standard di vita è misurato solo a livello dei consumi. Occorrerebbe riscoprire la multidimensionalità del vivere!192 Recuperare l'idea del futuro, per camminare con le proprie gambe, per la propria strada, per sognare i propri sogni. Non quelli presi in prestito dallo sviluppo.193 Inquadrando la questione nell'ottica foucaultiana della biopolitica possiamo aggiungere delle utili sfaccettature alle definizioni ecologiche. L'ambiente è il modo in cui il biopotere si approccia allo spazio, nonché il contesto esterno della molteplicità degli uomini da governare biopoliticamente. Il mancato incontro tra governo biopolitico ed ecologia scientifica rappresenta un problema.194 L'ecologismo corre il rischio di sfociare in eco-biopotere, per via dell'intervento sistematico per la tutela ambientale che rischia di divenire controllo assoluto.195 190 Ibidem. 191 Serge Latouche, Standard di vita, ivi. 192 Andando in bicicletta, per esempio... 193 Gustavo Esteva, Sviluppo, ivi. 194 Ottavio Marzocca, Ambiente, in Lessico di biopolitica, Manifestolibri, Roma 2006. 195 Sarah Delucia, Ecologismo, ivi.

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Lo sviluppo sostenibile è diverso dalla sostenibilità tout court, che è una tendenza ad elaborare una prospettiva etico-politica in cui sia possibile misurare la ricchezza e la felicità in relazione al numero di cose che si è capaci di lasciar perdere.196 Occorrerebbe resistere allo sviluppo, promovuendo un'economia ecocoerente, frugale e solidale; per andare contro l'attuale autodistruttività dello sviluppo occidentale.197 Sempre il Wuppertal Institut ha provato a delineare le linee di programmazione per un Futuro sostenibile198, che parte da una domanda chiave: come possiamo far fronte al raddoppio della popolazione del pianeta senza rischiare di distruggere il patrimonio di risorse naturali necessario alle prossime generazioni? Il primo passo verso l'equità dovrebbe essere una rinuncia agli eccessi: il 20% della popolazione non può pretendere di accaparrarsi l'80% delle risorse. In ogni caso il XXI secolo è il secolo dell'ambiente: delle catastrofi o della svolta, in base a quello che l'umanità deciderà di fare. Efficienza (il “fare bene le cose”) e sufficienza (il “fare le cose giuste”) dovrebbero essere i criteri alla base di uno sviluppo che non segua le orme del modello occidentale, che ha già causato molti danni, quindi è tutt'altro che un esempio da seguire. Uno sviluppo di questo tipo è alla base anche della giustizia tra generazioni, dal nostro “progresso” dipende la vita dei nostri figli199. Si definisce spazio ambientale quello spazio che gli esseri umani possono

utilizzare

nell'ambiente

naturale

senza

danneggiarne

196 Sarah Delucia, Sostenibilità, in ivi. 197 Onofrio Romano, Sviluppo, in ivi. 198 Wuppertal Institut, Futuro sostenibile. Riconversione ecologica nord-sud e nuovi stili di vita, Emi, Bologna 1997. 199 Secondo un proverbio dei nativi americani “non ereditiamo la terra dai nostri padri, ma la prendiamo in prestito dai nostri figli.”

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permanentemente le caratteristiche essenziali. Esso dipende: dalla capacità di carico degli ecosistemi, da quella di rigenerazione, dalla disponibilità. Per minimizzare il rischio gli obiettivi possono seguire due direzioni: il contenimento, con la limitazione dell'inquinamento; la prevenzione, con la diminuzione del prelievo di risorse200. Anche per questo sarebbe utile un riciclaggio del territorio, un recupero delle superfici inutilizzate anziché l'uso di nuove aree libere (secondo questo studio del Wuppertal Institut, che risale al 1997, dal 2010 non sarebbero state più necessarie nuove costruzioni, ma purtroppo il presente ci dice che questi criteri sono stati piuttosto trascurati...). La rappresentazione materiale-quantitativa della crisi ambientale permette affermazioni oggettive e la formulazione di obiettivi precisi e quantitativamente controllabili, ma questo non basta: la risorsa decisiva per la trasformazione è l'interesse delle persone. L'Istituto di ricerca tedesco si è espresso anche in materia di mobilità, definita come il desiderio di una persona di spostarsi dal luogo A alla destinazione B entro un determinato periodo di tempo. La prima proposta è sempre quella di limitazione, in opposizione alla schiavitù “dell'ancor di più”. Anzitutto occorre domandarsi se lo spostamento è veramente necessario, e promuovere una mobilità a corto raggio, a bassa potenza e a media velocità: ad un aumento (x) della velocità corrisponde un aumento (x2) dell'energia necessaria. La mobilità degli uni è diventata immobilità degli altri, a causa dell'aumento a dismisura delle distanze. 200 Prima fra tutte è la necessità dell'abbandono dell'energia nucleare, in entrambe le direzioni: sia per l'inquinamento dovuto alle scorie, sia per il pericolo di catastrofi.

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E' sorta la necessità di evitare la necessità del traffico. A piedi o in bicicletta i danni ecologici sono nulli, quindi dovrebbero essere i mezzi più incentivati201. Tuttavia deve seguire un criterio non solo la scelta del mezzo di trasporto, ma anche l'organizzazione del traffico – ad esempio con il car sharing202. Ottavio Marzocca203 ci mostra la difficoltà di trovare una compatibilità tra ecologia ed economia: l'applicazione di criteri economici per scelte ecologiche non può essere lineare, né passare inosservata. Così la crisi ecologica si rivela oiko-logica, ossia declino della capacità umana di abitare il mondo. Wolfgang Sachs204, componente del già citato Wuppertal Institut, si è interrogato sulla finalità della biosfera e sul dilemma della giustizia: come conciliare ecologia ed equità? Abbiamo visto un esempio di risposta datoci da Illich in Energia ed equità...205 Per Alberto Magnaghi il presupposto antropologico della nostra civilizzazione è il riconoscersi come società nell'edificare il proprio ambiente di vita.206 La crisi dell'ecologia è nella perdita di relazione con il luogo.207 201 A titolo esemplificativo, Sachs parla della città di Erlangen (Baviera), dove la maggior parte della gente si muove in bicicletta, anche in inverno con la neve. 202 O car pooling, contro il trasporto privato che vede un mezzo per ogni individuo, per mete comuni si comincia a diffondere (ancora troppo poco) l'abitudine di “riempire con più passeggeri” una sola auto. 203 Nel febbraio del 2009 anche l'Università degli Studi di Bari, con il Gruppo di Ricerca “Le tre ecologie” e il contributo del Dipartimento di Scienze Filosofiche, si è domandata in un convegno quali fossero le possibilità di Governare l'ambiente, riunendo poi gli interventi in una pubblicazione. Ottavio Marzocca, Equivoci dell'oikos. Ecologia, economia e governo del day after, in Ottavio Marzocca (a cura di), Governare l'ambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti, Mimesis, Milano 2009. 204 Wolfgang Sachs, Per un benessere eco-solidale, ivi. 205 Vedi cap. 2 di questa tesi. 206 Alberto Magnaghi, Crisi ecologica globale e progettazione, in Governare l'ambiente?, op. cit. 207 Vedi cap. 7 di questa tesi.

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“Abbiamo perso ogni relazione con il luogo. In questo atto sacrilego risiede gran parte delle cause della crisi ecologica. Il luogo è dotato di anima, è dotato di tempo, è dotato di storia, non è lo spazio geografico che si può misurare con il metro, con gli strumenti. Il luogo è sapiente, incorpora i geni della relazione di lunga durata fra uomo e natura. Esso si misura con la conoscenza profonda, storica, culturale e filosofica.”208 Perciò occorre ricostruire il legame perduto tra politica e luoghi. L'autogoverno dei fattori riproduttivi della vita è la salvezza possibile del mondo dell'ecocatastrofe annunciata. “Chi ha molti bisogni ha molti padroni. Le economie locali sono libere perché piccole e agili, adattabili e flessibili.”209 Felix Guattari210 sostiene che l'ecologia si debba trasformare in una sfida etico-politica. Occorre una modificazione della mentalità verso il senso di responsabilità, un rovesciamento del sistema di valori verso una ecosofia, contro un vero e proprio inquinamento mentale che non tiene conto dell'essere dell'altro. Per lo psicanalista-filosofo francese le ecologie sarebbero tre: sociale, ambientale e mentale. L'ecologia ha il compito di inventare nuove maniere di stare al mondo e nuove forme di socialità.211 Secondo Onofrio Romano bisogna distruggere la società212: la distruzione dell'eccedente permetterebbe una liberazione dall'angoscia esistenziale. E' l'essere all'altezza della nostra umanità ad essere in gioco nella crisi ecologica.213 Per questo Nicola Russo ci dice che il problema è 208 Alberto Magnaghi, Crisi ecologica globale e progettazione, in Governare l'ambiente?, op. cit. 209 Carlo Petrini, La rivincita del localismo, quotidiano La Repubblica del 13 febbraio 2007. 210 Felix Guattari, Introduzione alle “tre ecologie”, in Governare l'ambiente?, op. cit. 211 Felix Guattari, Le tre ecologie, Sonda, Torino 1991. 212 Onofrio Romano, Bisogna distruggere la società, in Governare l'ambiente?, op. cit. 213 Nicola Russo, Ecologia e tecnoscienza. Il governo dell'ambiente e la libertà, ivi.

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anche nella capacità di avere futuro, che implica la comprensione di quel che significa e comporta l'essere al mondo. Di fronte a possibili scenari catastrofici gioca un ruolo determinante la paura. E' utile nel momento in cui desta prima allarme e poi difesa: nel passaggio storico dall'originaria paura della natura alla paura per la natura, è essa che si protegge e non da essa che ci proteggiamo. La paura diviene così movente per la ricerca di soluzioni ambientali.214 Del problema della responsabilità e dell'etica del futuro si è occupato in maniera approfondita Hans Jonas ne Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica215: in questa sede possiamo solo sottolineare l'importanza di questo testo per l'impostazione di una necessaria etica razionalista applicata ai temi dell'ecologia e della bioetica – fondata sul dovere della paura e sul coraggio della responsabilità. Questa deve considerare le cose non sub specie aeternitatis bensì sub specie temporis, perché tutto si può perdere in un momento. E' doveroso citare inoltre Arne Naess, ideatore dell'ecosofia e del movimento dell'ecologia profonda, che professa la necessità di un radicale cambiamento dello stile di vita. “Non si può definire l'uomo se non attraverso la biosfera” 216 (che è un po' come dire, con Heidegger, che l'essere Uomo non può prescindere dall'abitare e dal modo in cui lo si fa217): per una responsabilità cosmica dobbiamo proteggere la ricchezza e la diversità della vita. 214 Mario Manfredi, Imparare a temere. Emergenze ambientali ed educazione alla paura, ivi. 215 Einaudi, Torino 2002. 216 Da un'intervista ad Arne Naess, in Bill Devall, George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Gruppo Abele, Torino 1989. 217 Vedi cap. 1 di questa tesi.

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La trasformazione delle nostre idee conduce alla trasformazione del mondo che ci circonda218. Quelle citate sono solo alcune delle possibili basi di approfondimento della questione ecologica, utili per comprendere l'importanza dei problemi qui trattati, che si riflettono anzitutto nella nostra vita quotidiana determinandone criticamente molti aspetti, anche se spesso non siamo in grado di rendercene conto. Questo per evidenziare la necessità della formazione di una sensibilità e di un pensiero autenticamente ecologici.219 Tra uomo e natura dovrebbe esserci una visione integrata, un sentire comune nella continuità e nelle differenze per una sorta di alleanza extra-specifica. La coscienza ecologica è un telos, cioè un compito, una necessità pedagogica finalizzata al riconoscimento dell'abitare come “abitarein-comune”. L'abitare è, dunque, primo ed ultimo argomento alla base di una “ciclosofia”: in realtà comprende in sé tutti gli altri, perché nel concepire uno stile di vita – con le implicazioni psico-socioantropologiche che abbiamo visto – non si può prescindere né dall'abitare in senso heidegerriano (come caratteristica ontologica dell'Uomo), né dall'abitare in senso ecologico (avendo cura dell'ambiente), anche perché i due sensi non sono poi così distanti. 218 Ideatore della cosiddetta ecologia della mente è Gregory Bateson [Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977]: essa è orientata allo studio dei sistemi evolutivi, tre in particolare, individuo, società ed ecosistema. Secondo una visione olistica, la mente individuale è solo un sottosistema del sistema biologico che connette tutti gli esseri viventi nella “mente” dell'ecosistema. 219 Franca Pinto Minerva, Cura della natura ed educazione ecologica, in Mario Manfredi (a cura di), Variazioni sulla cura, Guerini e Associati, Milano 2009.

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CONCLUSIONI “Ciascuno ha le sue spiegazioni per la malattia insana dell'andar su due ruote, perché infinite sono le esperienze alternative che la bici riesce a sintetizzare. C'è il viaggio come leggerezza, come nomadismo esistenziale ed eliminazione del superfluo […] Ci sono la lentezza e la memoria […] Ci sono la fuga e la solitudine negli elementi [...]”.220 C'è un modo diverso di abitare, che tiene conto primariamente dell'ambiente, ma che allo stesso tempo aiuta a non perdere se stessi. C'è una scelta che va verso il bilanciamento di energia ed equità a vantaggio della seconda, riconoscendo i limiti entro cui la prima è veramente necessaria. C'è la scelta di rinunciare all'auto quando possiamo farne a meno, cioè per la maggior parte degli spostamenti urbani. C'è la voglia di ridare un'identità agli anonimi luoghi che viviamo, di ritrovare noi stessi che – disorientati dall'omogeneità degli spazi – non abbiamo più alcun punto di riferimento e ci sentiamo perduti. C'è la volontà di trovare nuovi mezzi di autocoscienza e percezione, nuove vie di socialità. Ci sono gli “esperimenti politici” di promozione, da parte di enti locali e non solo, persino dell'Unione Europea, e di singoli gruppi di cittadini: la scelta di una democrazia partecipativa che ha l'obiettivo di 220 Paolo Rumiz, Tre uomini in bicicletta, Feltrinelli, Milano 2002, p. 13.

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sensibilizzare e mostrare le possibilità di questo “potente mezzo”. “La bici: questa nostra macchina dei pensieri che penetra nel segreto dei mondi e smantella i luoghi comuni.”221 Ci aiuta a comprendere lo spazio-tempo, a riacquisire una dimensione umana (slegata da quella delle macchine) nella percezione del tempo, emancipandoci dalla dilagante schiavitù della velocità, elogiando la lentezza. “Teoricamente, un viaggio lento dovrebbe dilatare il territorio e rendercelo più lontano. Falso. E' il trasporto veloce che svuota il viaggio di senso e, non facendoci vedere nulla, rende lontani i luoghi vicini. […] Questi due effetti abbinati – lentezza e fatica – creano una straordinaria illusione ottica, o forse un giusto ribaltamento delle distanze.”222 Controcondotta rispetto alla globalizzazione, la bicicletta aiuta nella necessaria riaffermazione del locale e della territorialità. Rientra nelle possibilità di una mobilità sostenibile attenta alla questione ecologica, che in fondo è proprio questo: avere la capacità di reimparare ad abitare, rispettando l'ambiente in cui si vive, che è la premessa per rispettare se stessi. Certo, queste due ruote con pedali, sellino e manubrio non sono così perfette, hanno i loro difetti, ma si è dimostrato che ci sono motivazioni più che valide per affermare la possibilità di una filosofia di vita positiva incentrata sull'andare in bicicletta. “Ecco perché, al termine di un secolo strepitoso che ha visto il trionfo del pensiero volontarista, talvolta con guasti irrimediabili (di cui la macchina fu un bell'emblema, non lo abbiamo detto?), occorre 221 Paolo Rumiz, ivi, p. 115. 222 Paolo Rumiz, ivi, p. 166.

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riabilitare la forza del sogno. Perché si tratta proprio di una <<forza>>. Il sogno, più spesso definito <<debole>> (è anche questo, ed è la sua forza!), è un'arma di una potenza insospettata. […] Così, quando vedrete passare un ciclista trasognato, non fidatevi del suo aspetto inoffensivo e bonario: sta preparando la conquista del mondo.”223

223 Didier Tronchet, op. cit., p. 153.

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Sitografia (ultimo accesso giugno 2011) Dati ACI – ISTAT sugli incidenti stradali http://www.aci.it/sezione-istituzionale/studi-e-ricerche/dati-estatistiche.html

Sulle politiche per una mobilità ciclistica in Italia e all'estero Strasburgo: http://www.otstrasbourg.fr Amsterdam: http://www.iamsterdam.com/it/visiting/cosafare/ciclare Goteborg: http://goteborg.trafiken.nu/sv/gbg/Cykel/Centrum-Vast/ Ferrara: http://www.ferrarainbici.it Torino: http://www.biciebasta.com/ Puglia: http://www.cremss.puglia.it/mobilita/index.php http://www.ciclospazio.it http://www.ciclomurgia.com

Sui risultati del Giretto d'Italia 2011 http://www.ferrarainbici.it/index.phtml?id=420

Sul progetto nazionale “Piedibus”: http://www.piedibus.it/ Sulla “Critical Mass Interplanetaria”: http://www.ciemmona.org Sulla ricostruzione della città de L'Aquila, articolo di La Cecla http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/cronaca/sisma-aquila10/terremoto-rinascita/terremoto-rinascita.html

Comitato 3e32 per la ricostruzione de L'Aquila http://www.3e32.com/

Alberto Magnaghi, “Glocalizzazione”: qualche idea per un'alternativa dal basso http://www.nonluoghi.info/old/magnaghi.html

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Ringraziamenti Chi l'avrebbe detto che da un'idea nata così, quasi per caso, sarebbe venuta fuori una tesi di laurea? E' stato fondamentale credere che fosse possibile, e in questo mi sono avvalsa dell'aiuto di molti; per primo il relatore prof. Marzocca, che ringrazio per la fiducia in quest'idea all'inizio un po' strana. Ma innanzitutto grazie ai miei genitori, che mi hanno insegnato a pensare, oltre che a pedalare. Ai nonni, sempre disponibili e forti come delle rocce. Grazie agli amici di sempre, ad Antonio, Chiara, Eri, Francesco, Giorgia, Lilly, Loredana, Lucrezia, Maria Chiara, Mariella, Marina, Pino (per due), Salvatore, Sandra, e a tutta la compagnia. Grazie agli amici di ieri, ai vecchi compagni di scuola, agli amici lontani, a Paola che nelle incursioni molfettesi da Firenze ha avuto sempre una parola per me; grazie agli amici di oggi, ai più che “colleghi” universitari, ad Annalisa, a Caterina e alle chiacchierate su skype, a Clara e Marika e agli interrogativi sul nostro futuro, a Monica, a Nicolas compagno d'esami e di gelati, a Guenda, Leo, Oscar; ai colleghi per un giorno in attesa di un esame; ai “compagni di viaggio” e alle chiacchierate in treno... Grazie ad Eleonora ed agli amici di Emergency; agli amici pionieri di 89


un tentativo di una Critical Mass tutta molfettese; agli amici “teatranti”, compagni di serate campagnole, ad Alessandro, Carlo, Mariangela, Valeria; alle giocatrici di calcetto, sempre pronte a prendersi qualche pallonata per sfogare le tensioni; a Carlo, Isa, Serena e alle serate Yoga; a Laura e Gino per la “vista mare”... Grazie a Bubi, per tanti motivi e lei sa perché...; a Licia, “prcè 'r c'mbegn so c'mbegn” (non si scriverà proprio così, ma l'importante è il senso...). Grazie a Fabiana, insostituibile e premuroso angelo custode; e a Luigi, che non immagina neanche quanto mi abbia ispirato in queste pagine con le sue disavventure automobilistiche...! E, dulcis in fundo, grazie a Titti per l'immancabile, infaticabile e paziente supporto quotidiano, nonostante tutto.

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