cambia il mondo n.0

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cambiailmondo il mondo cambia

Interventi di: Georges Bourdoukan (San Paolo del Brasile)– Tonino D’Orazio – Attilio Folliero/Cecilia Laya (Caracas) – Rino Giuliani – Alfiero Grandi – Roberto Musacchio – Tito Pulsinelli (Valencia) – Rodolfo Ricci – Francesco Rombaldi – Agostino Spataro

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Interventi di: | [Cambiailmondo n. 0 – 12/2011]


Uno strumento di discussione e di confronto nell’attraversamento della crisi L’approfondirsi della grande crisi economica che stiamo vivendo in Italia e in Europa, in particolare, ma che ha una sua dimensione globale e sistemica, pone la necessità di un ampio confronto culturale sul piano analitico e sulle prospettive di un suo superamento. La sua vastità, il suo accavallarsi con altre dinamiche globali come quella energetica, climatica ed ecologica, induce a recepire modelli interpretativi diversi nel momento in cui i paradigmi prevalenti che hanno dominato gli ultimi decenni si sono rivelati in buona parte insufficienti a prevederne gli sviluppi e gli effetti sulle persone, sulle società e sugli ecosistemi. E’ evidente che a seconda del luogo (fisico, culturale e di appartenenza sociale) da cui si osserva la crisi, la sua lettura, le sue cause e i suoi effetti possono contemplare esiti ed auspici differenti. Ciò lascia supporre che un pensiero che è stato egemonico per diversi decenni si sta avviando al tramonto, anche se una formidabile struttura mediatica continua ad offrire o ad imporre modelli interpretativi mainstream che probabilmente continueranno ad avere un ampio e negativo influsso; allo stesso tempo, emergono interpretazioni e pratiche alternative che è importante confrontare e fare interagire, in una prospettiva di valorizzazione di un general intellect globale e interconnesso attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione. Tra i potenziali luoghi di incontro e di confronto vi è quello costituito dalle collettività di orgine italiana diffuse nel mondo e dei migranti in Italia, (circa 4 milioni di Italiani all’estero, 5 milioni di immigrati in Italia da diversi paesi, oltre agli oriundi che vengono stimati in circa 60-70 milioni). Essi costituiscono un patrimonio e un giacimento di conoscenze e di relazioni grande e significativo, anche perché, in circa un secolo di emigrazione e di immigrazione, si sono raggiunti livelli importanti – seppure insufficienti – di integrazione culturale, sociale ed economica nei rispettivi paesi e in tanti casi costituiscono settori importanti di rappresentanza politica ed istituzionale. La FILEF, da circa 45 anni, sviluppa una azione di tutela e di rapresentanza degli italiani all’estero e degli immigrati in Italia e, in questa circostanza, intende realizzare uno luogo di valorizzazione di questo patrimonio di intelligenze diffuso in Europa, in nord e sud America, in Africa, in Asie e Australia facendolo interagire con studiosi ed operatori culturali, sociali e politici italiani in Italia. Focus del confronto è proprio l’attraversamento della crisi e le modalità in cui nei diversi paesi ed aree si sviluppa il confronto politico e culturale per il suo superamento. Si ritiene che da tale confronto possano emergere elementi di utilità e di arricchimento al dibattito nazionale molto spesso contraddistinto da approcci italocentrici e asfittici. Per rendere fruibile e per diffondere questo dibattito che si svilupperà da diverse prospettive territoriali e ideali, nasce “CAMBIA IL MONDO” (www.cambiailmondo.org) una rivista elettronica mensile diffusa via e-mail ad un indirizzario di circa 30.000 soggetti e attraverso questo sito web aggiornato settimanalmente. 

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- Questo draft raccoglie una selezione di articoli pubblicati tra novembre e dicembre 2011,

Interventi di: | [Cambiailmondo n. 0 – 12/2011]


Salvano l’Italia o l’elite globalista che l’ha affossata? Pubblicato da cambiailmondo ⋅ dicembre 8, 2011 ⋅

di Tito Pulsinelli C’era una volta un mondo fantastico percorso -in proporzioni industriali- da liberi flussi di magnetico ed elettronico denaro e da armonici tsunami di mercanzie, fisiche e no. Sembrava che tutti vivessero felici e contenti, stando al sermone dei posseduti dalla credenza millenarista della nuova élite globalista. Tutto il potere al mercato, zero Stato, profitto finanziario is beatiful, era il grido di guerra che accompagnava la formazione di giganteschi monopoli privati. Quando la concentrazione del potere raggiunse limiti mostruosi, i novelli templari -brandendo la “nuova” clava filosoficasi avventurarono a proclamare urbi et orbi l’avvento del punto sommo dell’evoluzione della specie. Sommo e irreversibile, senza ritorno. Agli sparuti ranghi di obiettori e scettici infliggevano lo stesso trattamento riservato ai cinesi durante la guerra dell’oppio. Credere, obbedire e consumare è l’eterno imperativo degli autoritari profeti del “o noi o il caos”. Più che sciamani globali sono stati venditori di bolle. Dapprima quella immobiliare, poi i mutui subprime, degenerata in crisi del sistema ipotecario degli USA. Come l’esplosione delle bombe a grappolo, è arrivato l’approdo definitivo all’implosione del sistema finanziario occidentale. L’evoluzione degenerativa del virus mutante -notevole la fantasia degli architetti della catastrofe!- è pervenuta infine al cuore dei debiti sovrani degli Stati. In realtà, secondo il governo del Brasile, si tratta di una vera e propria guerra monetaria. Nonostante -o a causa?- le scellerate “iniezioni” e trasfusioni di denaro pubblico ai poco schifiltosi truffatori delle megabanche private. L’Italia d’oggi è affidata alle amorose cure di costoro; reclusa nella clinica della Goldman Sachs, sottoposta alle terapie dei suoi quadri organici, managers della BM, ruffiani d’alto bordo del FMI e golpisti della BCE. Stiamo salvando l’Italia, tuonano oggi i becchini dello Stato-nazione di ieri. Di più: già che ci siamo, salviamo anche l’euro. Salvare entrambi per mettere in (camera di) sicurezza l’Europa, recita l’editto dei neopatrioti finora allergici al semplice suono della parola sovranità. Salvarli, ma come? Colpendo preferenzialmente terza e quarta età, plebe e popolo minuto, puntando diritto alle loro stamberghe e consumi primari. La grassazione risparmia tutti gli altri. In nome della “tracciabilità dei pagamenti” manovra per procacciare artificialmente clienti ai colleghi del ministro Passera;. Per aumentare i loro benefici drogano il mercato. Con il neopatriottismo di rigurgito, i globalisti danno un gran balzo verso l’edificazione dello Stato sociale per l’èlite. Radicalizzano la lotta di classe dall’alto contro il lavoro salariato, disoccupati, ceto medio, piccole e medie imprese che alimentano il mercato interno. Incrementano il travaso di ricchezza, redditi e poteri verso l’oligarchia. Le potenze emergenti, però, sono tali perchè hanno seguito altre piste, dopo aver neutralizzato il FMI. 2

Salvano l’Italia o l’elite globalista che l’ha affossata? | [Cambiailmondo n. 0 – 12/2011]


La Cina e l’India emergono per aver conservato allo Stato l’autorità di intervenire nel controllo del flusso dei capitali, tecnologie e persone. Hanno preservato la sovranità sulla moneta e sulla banca centrale, negando alle multinazionali il tracciato della rotta e delle modalità dello sviluppo. Alla base del boom del Brasile, ci sono gli aiuti a 40 milioni di persone, entrate così a far parte del mercato. L’investimento sociale si è trasformato in domanda rafforzata di manufatti brasiliani. E pensare che il liberismo aveva lasciato in eredità un debito storico e la riserva monetaria in rosso; oggi ci sono 40 miliardi di dollari all’attivo. Dopo aver messo all’angolo gli epigoni locali di Monti e Passera, la crescita è diventata costante e sostenuta, trasformando il Brasile in un gigante mondiale, persino nell’agroesportazione. Però per svincolarsi dalla messa in scacco della speculazione dell’elite globalista estromise dal potere politico i suoi quadri organici; sovvenzionò il consumo e i produttori non i banchieri.

Socializzazione delle perdite ?: l’esempio dell’Ecuador In Ecuador, la nuova Costituzione approvata con referendum popolare, art. 290-punto 7, stabilisce la proibizione della statizzazione dei debiti privati L’intelligenza degli italiani e’ superiore a quella espressa dai media nazionali. Vista da Caracas, c’e’ da sbellicarsi dal ridere, ma non é tragicommedia. Il sadismo sociale imposto dai golpisti della BCE é ormai operativo. I “trasfusori” di denaro pubblico alla banca privata di qualche anno fa, sono diventati vampiri. Reclamano a gran voce “tutto il potere alla BCE!” Svuotati gli erari, passano al “prelievo” forzoso quinquennale. Dicono che non c’e’ tempo per far pagar dazio ai ricchi. Sará per la prossima volta. E poi, non si puó dir di no, ce lo chiede la “europa”. Quale? Il parlamento di Strasburgo o l’UE? La “commissione” di Bruxelles o la non-banca di Francoforte? Questa elite onnivora che si é fatta Stato, gioca sporco e sempre sull’equivoco. Si mimetizza dietro il pateracchio liberista del non-Stato, non-Confederazione, non-Costituzione, non-moneta. Solo libero mercato, pianificazione sovietica dell’agricoltura e viva il parroco! Le nazioni, i popoli sono qualcosina di piú complesso dello schemino liberista dei cinque macro-indicatori di Maastricht. Super Totem adorato dai credenti di tutte le confessioni della chiesa globalista. Hanno sempre piú fretta, alla pentola a pressione e’ scaduta la garanzia. Mangia sta sbobba o salta dalla finestra é un disco di vinile troppo vecchio, suonato dappertutto negli ultimi venti anni. Non si tratta di una abdicazione congiunturale, tipo i vecchi governi balneari. E’ una abdicazione, nientaffatto temporale, come si illudono i politici romani. Si sono giocati il potere, vanno verso l’autodintegrazione che precede l’implosione. Qualcuno li fermi, altrove ci sono riusciti. Buon anno a tutti. Ripubblico una nota del 14/10/2008. 3

Socializzazione delle perdite ?: l’esempio dell’Ecuador | [Cambiailmondo n. 0 – 12/2011]


Crisi: Dò ai banchieri, tolgo a tutti gli altri! Tutto quel che gli Stati stanno consegnando alle borse e alle banche sarà religiosamente tolto al resto della società. Le migliaia di miliardi che i governi delle due sponde atlantiche stanno distribuendo ai diretti responsabili del crack, sono sovvenzioni tolte al resto dei cittadini, che soffriranno tagli draconiani ai loro consumi, salute, alimentazione, sicurezza, studi ecc. Il modello della “globalizzazione” è sonoramente scoppiato, e gli Stati “occidentali” stanno riempiendo con valori veraci e sonanti il vuoto che è venuto a galla nei bassifondi della finanza. Le borse hanno liberamente stampato una quantità di valori cartacei che -al pari delle fiches dei Casino- sono aleatori, cioè vuoti a pedere non riciclabili. L’Unione Europea sta cercando di riempire questo vuoto di valori tangibili, reali e concreti , con le risorse degli erari pubblici: impoverendo le riserve o generando altro debito. Tutti indistintamente, dopo aver osannato la privatizzazione dei guadagni, ora con estrema disinvoltura stanno socializzando le perdite degli speculatori. Bruxelles sta spalmando i debiti di pochi sulla popolazione. Giustificare questa condotta da anti-Zorro, con l’argomento che i bancarottieri non solo non vanno messi in galera, ma che bisogna sovvenzionarli, altrimenti si interrompono i prestiti per chi è produttivo…. è un argomento senza sostanza. Niente impedisce agli Stati europei di assegnare direttamenti i fondi alle imprese produttive, sane, ed ai compratori cui hanno pignorato le case, o direttamente ai consumatori affinché non si riduca troppo la domanda. No, la via che hanno scelto è quella dello Stato al servizio della banca. Non è poi chiaro se i capitali colossali sborsati gli Stati sono un “prestito”, se diventano “soci”, se le banche saranno a “partecipazione statale”, o “nazionalizzate”. L’unica cosa che dicono a Roma è molto vaga “….le banche possono essere commissariate”. Ci mancherebbe, almeno un’occhiata -sia pure formale- bisogna darla all’uso che faranno della manna piovuta dal cielo… Sono investimenti a fondo perduto? “Commissariare”: troppo ermetismo, perchè siamo di fronte a cifre espropriate all’uso collettivo e dirottate a vantaggio di un’infima minoranza. E per ricostituire questa ricchezza ci vorrà lo sforzo di una generazione. Dalle ininterrotte “iniezioni” cominciate all’inizio di quest’anno, sono stati immolati più di 4 miliardi euro. In Ecuador, la nuova Costituzione appena approvata nel referendum popolare, l’art. 290punto 7, stabilisce la proibizione della statizzazione dei debiti privati. Chi ha già sofferto in passato -varie volte!- quel che ora si è generato nel cuore del mondo industrializzato, è corso ai ripari in questo modo: negando alla classe politica la facoltà di usare il denaro pubblico a vantaggio dei banchieri speculatori.

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Monti: a rischio la luna di miele con l’Italia | [Cambiailmondo n. 0 – 12/2011]


Monti: a rischio la luna di miele con l’Italia Pubblicato da cambiailmondo ⋅ dicembre 11, 2011 di Alfiero Grandi “Questo di tanta speme oggi mi resta ?” Questi versi di Foscolo si adattano bene all’attualità dell’Italia. Il Governo Monti ha goduto di un’apertura di credito enorme che si spiega con l’insopportabilità del Governo precedente. Tuttavia la luna di miele è a rischio, anche se Monti ha inquadrato la manovra straordinaria – approvata dal suo Governo e che il parlamento sta già discutendo – in scenari apocalittici. E’ vero che il Governo Berlusconi ha fatto danni gravissimi e che l’Italia, anche per questo, corre rischi seri. La lettera degli impegni presi dal Governo Berlusconi con l’Europa, quando ormai era chiaro che avrebbe lasciato la Presidenza del consiglio, ha contribuito non poco a segnare questa fase politica. Certo anche ’Europa ha ritardi colpevoli nell’affrontare la crisi economica e finanziaria e le sue ricette sono molto simili a quelle del Fondo Monetario Internazionale. Vedremo meglio i risultati del vertice europeo. Anche per questo l’Italia deve cercare di uscire dall’angolo per rientrare nella discussione europea senza il cappello da somaro in testa che le ha procurato il Governo Berlusconi nei 3 anni e mezzo trascorsi. Detto questo la manovra del Governo Monti resta discutibile negli obiettivi e nei mezzi adottati. In parte questo discende dall’anomalia politica che vede partecipare al sostegno del Governo soggetti politici che dovrebbero essere su fronti opposti. Questa anomalia politica, questa sospensione della normale dialettica democratica viene spiegata con l’emergenza finanziaria, con lo spread che ha raggiunto livelli senza dubbio preoccupanti. Questo è vero ma non sufficiente a spiegare un asse politico della manovra particolarmente conservatore, per certi aspetti fin troppo continuista con il Governo precedente. Vale la pena di citare un aspetto “minore” del decreto approvato dal Governo Monti. Nel decreto si dice che le aste al massimo ribasso riguarderanno da ora in poi anche il lavoro (art. 44 c.1 e c.2). Era già discutibile un meccanismo di aste pubbliche fondato sul massimo ribasso che infatti ha dato pessimi risultati. Ora viene introdotto il massimo ribasso anche sul lavoro. La conseguenza sarà che le aziende che partecipanti alla aste pubbliche saranno spinte al nero, al subappalto senza limiti e che come conseguenza lo Stato avrà non solo meno legalità e minore rispetto dei diritti dei lavoratori ma anche minori entrate Irpef e minori contributi sociali. Questa misura serve ai saldi di finanza pubblica ? Al contrario. Anche per questo è strano che la Ragioneria dello Stato non ne quantifichi la perdita di gettito prevedibile. In ogni caso è una misura sbagliata. Sulla parte più importante della manovra va ribadito che il colpo inferto alla rivalutazione delle pensioni, che serve a proteggerle almeno in parte dall’inflazione, e alle pensioni di anzianità è dovuto – sotto il profilo finanziario – al non avere voluto/potuto caricare l’onere sui grandi patrimoni, sui redditi più alti, sui diversi redditi che pagano meno Irpef dei lavoratori dipendenti e sotto il profilo più politico ad una visione ideologica che punta ad alzare l’età pensionabile con un ritmo ultraveloce che non ha riguardo per situazioni sociali 5

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e personali che sono destinate a soffrire in modo pesantissimo. Chi dovrà restare al lavoro 5, 6 anni in più per effetto del decreto Monti – progetti di vita sconvolti a parte – non è affatto detto che potrà farlo, perché questo dipenderà dalle imprese che tendono già oggi a ridurre l’occupazione. Ammettiamo, senza concedere, che la manovra ottenga il risultato di costringere a lavorare per alcuni anni in più, il risultato sarà che in assenza di crescita occupazionale complessiva – che anzi nel prossimo futuro tenderà a ridursi – i giovani non potranno ricoprire i posti di lavoro che resteranno occupati dai più anziani e quindi la disoccupazione giovanile è destinata a crescere. La manovra non migliora neppure la situazione pensionistica dei giovani che anzi andranno in pensione molto più tardi. La tabella del decreto è chiara: entro alcuni decenni l’età pensionabile sarà 46 anni per anzianità contributiva e 69 anni e 9 mesi per vecchiaia, a cui si sommerà l’incremento per l’aumento dell’aspettativa di vita. Nell’insieme è uno sconvolgimento sociale di proporzioni enormi, poco riflettuto nelle sue conseguenze e che adotta acriticamente il modello previsionale della Ragioneria dello Stato che non brilla certo per capacità di affrontare la complessità sociale di una società moderna. La tutela delle pensioni dall’inflazione è una conquista importante a cui si deroga pesantemente con conseguenze depressive sulla domanda interna, che per di più si aggiunge ad anni di mancata restituzione del drenaggio fiscale. Come del resto ci sarà depressione economica per effetto di tutta la manovra. Se togli ai redditi bassi i consumi si deprimono, se togli ai redditi alti no, o comunque molto meno. Per di più la manovra non prevede un’iniziativa per contenere al massimo possibile l’inflazione. Anzi è il Governo che aumenta le tasse sulla benzina e il gasolio e preannuncia con l’eventuale aumento dell’Iva da ottobre un ulteriore colpo di manovella. Senza difesa dall’inflazione e con l’inflazione già a livelli importanti, le pensioni avranno un salasso pesante. Aggiungiamo la tassazione sulla casa compresa la prima e la compressione dei redditi medio bassi sarà pesante e la caduta della domanda interna rilevante e la recessione certa, con una diminuzione del Pil che andrà oltre la previsione dell’Ocse dello 0.5 %. Potrebbe arrivare infatti all’1-1,5 %. Solo Confindustria sembra tranquilla appagata dagli interventi a sostegno delle imprese già contenuti nella manovra. Anche qui c’è una contraddizione. Le case in affitto pagheranno meno Imu, come la prima casa, dimenticando che hanno già avuto il beneficio della cedolare secca al 19/21 % e che solo questa misura costa alle casse dello Stato almeno 2 miliardi di euro. In realtà questi 2 miliardi di euro potevano rientrare nel paniere di possibili misure alternative come la patrimoniale. E’ per lo meno curioso che proprio Monti parli di difficoltà (inesistenti) nell’adozione della patrimoniale. In ogni caso con la stessa veemenza delle misure sulle pensioni si poteva decidere di tassare finalmente tutti i redditi con le stesse regole, comprese le rendite finanziarie che sono tuttora tassate meno dei capitali (6/7 punti a favore delle rendite finanziarie), si poteva richiedere l’Iva evasa ai capitali scudati come l’Unione Europea ci ha chiesto di fare e che i Governi finora si sono ben guardati di richiedere agli esportatori illegali di capitali all’estero. Anche la giustificazione espressa dal Governo in parlamento per rinviare l’accordo con la Svizzera sui capitali italiani là depositati non tiene. Si può fare un accordo temporaneo, coerente con le posizioni europee, certamente ottenendo molto di più della miseria entrata dallo scudo fiscale. Questi soldi ci farebbero comodo. Per questo la manovra finanziaria anche se in sé è necessaria poteva essere diversa, anzi è dimostrabile che potevano essercene altre, ben diverse. Bastava volerlo. L’emergenza è un conto, il modo di affrontarla è un altro. 6

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Per di più dopo tante critiche al Governo precedente sulla politica dei 2 tempi: prima il risanamento poi lo sviluppo, ora la critica – purtroppo – può essere trasferita al Governo Monti. Per questo è importante che i sindacati abbiano ritrovato un percorso unitario per criticare la manovra e cercare di modificarne almeno alcuni aspetti. L’emergenza c’è, ma ci sono modi diversi di affrontarla. Ci sono aree sociali che vanno salvaguardate, obiettivi che vanno tenuti fermi. L’opposizione al fu Governo Berlusconi deve fare di tutto per non sacrificare sull’altare dell’emergenza una speranza di riscatto sociale di tanti italiani. La foto di Vasto va allargata, non ristretta. L’alternativa alla destra deve rimanere in campo. L’emergenza non può diventare il pretesto per liquidare un’alternativa politica alla destra, in Italia e in Europa.

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Il completamento delle istituzioni democratiche europee come risposta alla crisi e al declassamento di ruolo degli stati nazionali Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 11, 2011 di Rino Giuliani Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941 scrivendo il Manifesto di Ventotene avevano la consapevolezza che con la loro azione politica stavano contribuendo non solo a riscattare l’Italia ma anche a dare alle generazioni che si sarebbero succedute dopo di loro la prospettiva concreta di una Europa unità. L’idea che un’altra Italia, libera e democratica era possibile in una nuova Europa dei popoli, federale e pacifica ha anche animato molti di quei giovani, anche fra loro divisi, oggi arrivati alla terza età, che nell’Italia repubblicana si sono però sempre ritrovati quando c’era da sostenere le ragioni alla base della Costituzione. Oggi il paese sembra non avere più fiducia nelle possibilità di cambiamento che pure la Costituzione indica e fra i giovani, con la sfiducia in un futuro dignitoso prevale un senso di indignazione. Non è più il sogno la stella luminosa che apre la strada del futuro. Nel disincanto dell’oggi, per non rinchiudersi nel “particolare” ininfluente occorre tuttavia vivere la nostra comune vicenda collettiva ed il nostro tempo così cambiato, inquadrando come paese la nostra azione in un contesto in cui tutti gli stati europei cedano di comune accordo parte della propria sovranità, ormai esautorata, non al FMI e alla BCE ma a vere istituzioni democratiche europee. Il progetto profetico del Manifesto di Ventotene ha avuto la forza di restare vivo ed attuale superando dopo il fascismo, la lunga fase della contrapposizione fra i blocchi armati contrapposti e dopo la caduta del muro di Berlino per porsi oggi per i paesi europei come una necessità a fronte della crisi mondiale indotta dal fallimento del sistema economico che senza freni o vincoli è sopravvissuto alla frantumazione dell’altro antagonista conosciuto come capitalismo di stato. Europa dei popoli. e federalismo europeo, una idea perseguita nel tempo, ancora oggi è un obiettivo alto per superare il limite dei nazionalismi e degli egoismi localistici . Nel XIX secolo l’obiettivo della costruzione dell’unità europea ha costituito un ideale forte, un potente fattore di crescita della cultura politica democratica. Nel XX secolo l’idea di una Europa unita comincia a diventare un progetto politico. Si tratta di una esigenza analoga a quella che – quasi contemporaneamente- altri agitano in altri contesti territoriali a favore della scelta di un governo mondiale in grado di far superare le contraddizioni ed i conflitti fra nazioni. In Italia,negli anni ’40, mentre la guerra si estendeva ovunque nel mondo, l’idea di ricostruire dalle macerie un’Europa in pace, senza più odi razziali e frontiere, con il Manifesto di Ventotene assumeva i contorni precisi di un progetto politico in grado di 8

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indicare l’uscita dalla fitta nebbia della retorica, del colonialismo fuori tempo massimo e delle politica di potenza che avevano fatto da battistrada alla guerra di aggressione. E’ infatti nel 1941 che, con il Manifesto di Ventotene la “linea di divisione tra il progresso e la reazione” veniva tracciata tra coloro che si propongono come obiettivo prioritario della lotta politica la Federazione europea e coloro che pensano ancora che i valori della libertà, della democrazia e della giustizia sociale possono essere perseguiti all’interno dello stato nazionale. Ancora oggi nella crisi finanziaria mondiale le relazioni tra stati vengono impostati come rapporti fondati sul rapporto di forza del momento, per far valere i propri interessi con la forza delle armi (Irak e Libia) o contando sulla influenza dei propri apparati finanziari. Il nazionalismo, anche nelle versioni contemporanee esprime una regressiva cultura politica della divisione e della contrapposizione, spesso sospinge all’odio del diverso, dello straniero, esalta e giustifica l’uso della violenza. Il nazionalismo è l’ideologia politica che ha condotto l’Europa e il mondo al tragico epilogo del nazi-fascismo e della guerra totale. Oggi, dopo tanti anni di lotte, di sconfitte e di successi, molti, e non solo fra coloro che credono nel federalismo europeo, sono convinti che si è ormai giunti ad una svolta cruciale: ci si può ritirare dagli incompleti assetti istituzionali europei o ,invece, si possono completare con l’unità federale, per costruire un’Europa sempre più interdipendente, pacifica e solidale moralmente autorevole nel contesto geopolitico mondiale. La crisi dei mercati finanziari internazionali, avviata per lucrare con una enorme speculazione, ha finito per far indebitare gli stati nazionali nel loro tentativo d’ impedire il crollo dei mercati. Oggi gli stati nazionali la cui sovranità è delegittimata da istituzioni private sovranazionali e resa inefficace dalle politiche nazionali conservatrici, si trovano alle prese con una crisi il cui costo nuovamente si vuole far pagare ai ceti più deboli. Le scelte dei governi conservatori calano sulle collettività e sui singoli, si prolungano attraverso le generazioni lasciando indenni, anzi più ricchi, ristretti settori che quella crisi l’hanno prodotta e che da quella crisi si sono avvantaggiati. Tutto questo non è economicamente né socialmente accettabile L’Europa governata dai conservatori non ha favorito l’instaurazione di un governo economico europeo democraticamente legittimato e dotato di ampi poteri d’intervento. La Commissione europea e il parlamento europeo sono oggi indeboliti dal prevalere di una logica intergovernativa . L’uscita dalla crisi non la possono garantire l’occasionale tandem francotedesco né la BCE. Una Europa più audace, forte ed unita nella solidarietà invece può vincere le sfide del nostro tempo. I capi di stato e di governo europei, in maggioranza conservatori e liberali, si sono rifiutati di discutere una governance economica europea seminando negli ultimi anni un immotivato ed irresponsabile ottimismo inversamente proporzionale all’ampiezza della crisi monetaria e finanziaria europea e gestendo la crisi monetaria europea come una crisi di indebitamento dei paesi membri. La commissione europea ed il Parlamento europeo così come i parlamenti nazionali hanno oggi la responsabilità di governare la politica economica, finanziaria e sociale dando una risposta forte ed unitaria alla crisi. Lo spazio europeo è in questi giorni il luogo dove si contratta fra interessi nazionali. I localismi, la tentazione di ritornare a logiche esclusivamente nazionali ed a uscire dall’area dell’euro riemergono di nuovo forti mentre ci si dimentica che solo istituzioni democratiche europee salde e condivise possono esaltare le autonomie e le peculiarità. Lo scetticismo su un futuro europeo va contrastato diventando maggiormente europei. Il progetto federalista 9

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può divenire realtà in questa fase storica se noi, cittadini europei saremo in grado di contaminarlo con i valori della giustizia sociale, dei diritti dei lavoratori e della solidarietà. E’ per questo che oggi spetta alle forze sociali e politiche progressiste dell’Europa il compito di porsi alla testa di un progetto che è anche culturale, di costruzione politica e programmatica dell’Europa. L’obiettivo è una Europa diversa dall’attuale: meno euroburocrazia e più democrazia, scelte di politica economica fondate su uno sviluppo sostenibile, sulla lotta alle diseguaglianze sociali e su una riforma del sistema economico e finanziario, una politica industriale europea. Ci vogliono infatti ricette diverse da quelle fallimentari dei conservatori. Quello di cui vi è bisogno è la crescita economica ed un piano europeo per nuovi posti di lavoro, il progresso nella prosperità e non la recessione con austerità e la riduzione della protezione sociale. Il medio-lungo periodo deve restituire a coloro che la crisi la stanno pesantemente subendo una certezza di equità e di giustizia sociale. Dalla crisi si esce se le forze politiche del socialismo europeo che in Europa rappresentano le forze di progresso ritrovano al proprio interno le ragioni concrete della distinzione storica rispetto ai conservatori, se tra il parlamento europeo e la società attraversata da movimenti che esprimono una forte volontà di cambiamento, si ritrova una soddisfacente assonanza e se, infine, ritorna la voglia di battere con riforme di struttura le ormai insostenibili diseguaglianze sociali del liberismo realizzato negli ultimi decenni. Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni con il Manifesto di Ventotene consegnano alle nuove generazioni il messaggio che per l’Italia non c’è miglior destino della promozione e realizzazione della più grande patria europea. Il Manifesto di Ventotene alla cui lettura invitiamo i giovani italiani nel mondo è stato il punto di approdo di un processo culturale di vicende umane eccezionali ma anche un intransigente spartiacque, valido ed attuale anche oggi, fra visione democratica della società e totalitarismo.

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Lacrime e sangue. | [Cambiailmondo n. 0 – 12/2011]


Lacrime e sangue. Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 22, 2011 ⋅

di Tonino D’Orazio Il sangue e la macelleria sociale evocano in realtà la stessa cosa. Le lacrime invece le abbiamo appena viste al solo sentire la parola sacrifici, e proprio dalla persona che li impone. Immagino che anche un macellaio a volte possa commuoversi e piangere prima di sgozzare l’indifeso agnello, anche dopo anni di specializzazione nell’argomento professionale, anzi diciamo proprio nella tecnica. Ormai tutti si sono accorti che il primo impegno chiesto a questo governo non eletto è stato quello di rispettare gli obblighi contratti con i bancarottieri strozzini internazionali e di fare gli ufficiali giudiziari dell’alta finanza mondiale. Chi si è azzardato a dare appoggio totale e speranze, come il PD, si trova in un guado, dal quale pensa di uscire con la demagoga espressione di stare a salvare l’Italia, i pensionati, i lavoratori e minacciando gli alleati un po’ recalcitranti, dopo che Veltroni e Bersani si sono dichiarati soddisfatti: contenti loro, contenti tutti. Il ricompattamento dei sindacati, Ugl compresa, e la misera realtà hanno continuato ad aprire però visibilmente le crepe interne a questo partito, proprio sulla questione lavoro. A questo si aggiunge la rinascita, ancora non chiaramente espressa, delle forze cattoliche, capeggiata da imprenditori e ex DC, che sempre hanno invaso il centro politico del paese e al quale la cosiddetta terza via del PD è confacente. Anche perché, mentre ci intrattenevano deliziosamente con un bipolarismo ideologico ci siamo accorti che in parlamento vi sono un paio di dozzine di partiti, come nella prima repubblica, anche se inizialmente erano in due attruppamenti. E poi la strada è tracciata da questo governo tecnico vaticano-bancario. Ormai sappiamo che provengono tutti da strutture cattoliche di peso, di “alta professionalità”, dalle banche, quindi di destra, per fare banali e devotamente cose da macellai che tutti avrebbero saputo fare meglio se un po’ di politica normale, senza anticostituzionali premi di maggioranza, fosse esistito in questo paese. Questi ministri, insieme al devoto premier, e all’affetto di Napolitano, garantiranno che la Chiesa continuerà a presidiare il nuovo governo e a ricevere i soliti finanziamenti e le banca a continuare le loro speculazioni. Chi ha potuto credere alla parola equità? Ma se la crisi non la pagano le banche che l’hanno creata, né gli speculatori che tanto continuano imperterriti, né la Chiesa che ci sguazza, chi poteva pagarla? La nomina di Elsa Fornero (esperta di “riforme” previdenziali, vice presidente della banca San Paolo) a ministro del Welfare lasciava intuire da dove si sarebbe cominciato. Dalle pensioni di anzianità: cioè, da coloro che hanno ormai pagato i contributi per sé, ma che saranno costretti a continuare a pagarli per gli altri. E dai sessantenni che giocheranno alla lotteria quanti anni mancano o meno. Naturalmente non si toglieranno le pensioni a coloro che non le hanno pagate, se no come farci anche la cresta, o almeno non interamente: dai coltivatori diretti, ai commercianti, ai liberi professionisti, che hanno fatto le fortune elettorali dei governi della Prima Repubblica, e mandato in rovina l’Inps. Non ancora? Tra poco verranno accollati a questo Istituto, in attivo ancora per poco, non solo l’Inpdap, che notoriamente non ha accumulato il denaro trattenuto ai dipendenti pubblici per le loro pensioni se non in forma cartacea, e tutti i fondi professionali dei vari ordini, o lobbies, in profondo deficit per aver sperperato i 11

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loro soldi dando pensioni d’oro e che sono rimasti senza denaro per poter continuare. C’è poco da commuoversi o da piangere. Sarà stata una emozione dovuta all’età e ai suoi normali problemi o allo sfogo di poter fare finalmente, dopo anni di attesa, di fare quello che avrebbe sempre desiderato fare. Quando i sogni si avverano e le responsabilità sono degli altri ci si può anche commuovere in diretta. Sfatando già il concetto che i tecnocrati siano persone di “ghiaccio” e anzi "umanizzando il prodotto". Siamo il paese che ha inventato la commedia dell’arte. A piangere veramente saranno gli altri. Nella stessa immagine si può situare un Monti, ricattatore e arrogante. Questi sono i primi aggettivi che si possono ritenere sul piano strettamente comunicativo, anche di metodo “concertativo”, ma solo chi non ha mai visto un rettore universitario può stupirsi. Loro sono così di natura. Un altro capo che comanda, meno subdolo dell’altro che è andato via, ma impeccabile per una destra stracciona e presuntuosa. È’ proprio l’immagine necessaria di un paese invaso e governato temporaneamente con delle certezze imposte dagli altri e non condivise. E quanto più inique sono quelle certezze più i mercati reagiscono positivamente. Se c’era una “sinistra”, anche se debole come in Spagna, in Portogallo e in Grecia dove hanno avuto il buon senso politico e la correttezza ideologica di stare all’opposizione, anche se non è che non avessero responsabilità, se ne poteva stare tranquillamente all’opposizione anche in Italia e non lasciare sole le organizzazioni sindacali e la povera gente tutte in piazza. Come sempre a sostenere Berlusconi, e il suo inevitabile ritorno con la destra al governo che tanti danni ha fatto, sono riapparsi i Veltroni e i pompieri vari, per dire come la Thacher, venti anni fa, e Monti oggi che “non c’è alternativa” a questa macelleria. Il decreto si chiama profeticamente “Salva Italia”, in una logica di punizione da subire, e per questo anche Bersani, spiazzato dall’arroganza, si accora. Tutti fanno finta di non capire quale Italia e per chi, e solo l’impoverimento popolare totale può salvare lo spread, cioè in altre parole il debito degli strozzini. Ma è un cane che si morde la coda. Anche se molti piccoli risparmiatori hanno partecipato in massa all’acquisto di Bot a sei mesi al 6.5%. Intanto incassiamo, tanto che può succedere in sei mesi. A febbraio serviranno ancora 20 miliardi, poi ai primi di luglio almeno 30, solo per pagare gli interessi, ecc … Bisogna drenare tutti questi piccoli risparmi che hanno i cittadini italiani, visto che se ne vantano ancora a livello internazionale. Poi si vedrà. E in piazza, ma come nell’Italia povera che pagherà, troveremo solo pezzettini ipocriti di partiti, forse anche esponenti vari a titolo personale. Dovranno pur allinearsi e farsi rivotare dalle loro segreterie di partito. Ma i sindacati unitariamente, alcuni dopo un po’ di anni di sbornia e di smarrimento, hanno finalmente rimesso l’ora al posto giusto, quello della democrazia, della giusta e necessaria protesta e penso ce ne sarà per tutti, perché gli altri sono tutti dall’altra parte, anche la Lega che ha “governato”, con i risultati che vediamo, per 18 anni. E questo sarà sempre più difficile nasconderlo con le chiacchiere o le strategie di palazzo, mentre si apre una prateria per la ricostruzione di una vera sinistra che si faccia carico in modo veramente equo dei problemi di questo paese, anche con un nuovo accordo di interesse con la borghesia media che sta per scivolare nel medio-basso. Questa manovra non è la svolta di un paese verso il suo rilancio, e Monti, il liberatore, il supereroe di settimane fa oggi è diventato sequestratore e aguzzino del suo paese a nome di altri. Pensa addirittura dividere i sindacati dai cittadini “che capiranno”. Le alternative ci sono perché tutto il neoliberismo ha toppato, non solo in tutta l’Europa, e non sa come uscirne, anche perché nei paesi democratici la forza, o i colpi di coda autoritari, non rappresentano ancora una opzione valida. Si può continuare a spogliare la gente, ma quando sono poi completamente nudi? Anche se la storia ci ha sempre insegnato che se si potesse veramente cambiare il mondo con il voto quest’ultimo sarebbe sicuramente proibito. 12

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NOVEMBRE DI FUOCO 2011: METAMORFOSI (O FINE) DELLA DEMOCRAZIA Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 11, 2011 di Rodolfo Ricci Le giornate del 2, 3 e 4 novembre del 2011 segnano una svolta storica. Nell’ambito dei lavori del G-20 a Cannes, sono accadute alcune cose che pongono sotto una luce di cristallina chiarezza i nuovi rapporti che si sono determinati con la grande crisi epocale, tra le elites economico-politiche e i popoli. Appare evidente che le costituzioni di paesi come Grecia e Italia vengono stracciate sull’altare della compatibilità sistemica della finanza e del capitalismo mondiale. E’ cioè la fine della democrazia (governo del popolo), come l’abbiamo intesa fino ad oggi. E ciò non è altro che l’annuncio di una modificazione globale, sostanziale e formale che, nelle intenzioni di chi sta da solo al comando, riguarderà l’intero occidente, mentre fino ad ora aveva riguardato essenzialmente i paesi più o meno colonizzati del sud del mondo. La giornata del 3 novembre è in questo senso decisiva: l’annuncio – probabilmente estemporaneo e strumentale nelle sue intenzioni – del leader del Pasok greco, il socialista Papandreu, di voler sottoporre al giudizio di un referendum popolare le misure a cui la Grecia deve sottoporsi per acquisire la garanzia del rinnovo del prestito UE onde evitare il fallimento, (misure che avranno effetto per i prossimi decenni), viene contrastato duramente dal leader francese Sarkozy e dalla cancelliera Angela Merkel, poiché farebbe saltare tutta l’architettura messa in campo per il salvataggio delle banche francesi e tedesche e in definitiva, dell’Euro. Alla fine, Papandreu fa marcia indietro e rinuncia al referendum. Le borse mondiali che nella giornata del 2 erano letteralmente crollate, tornano a respirare. Per la Grecia, (ma anche per l’Italia), si annuncia la prospettiva di governi di salvezza nazionale che debbono evitare ad ogni modo il confronto elettorale, poiché il risultato di consultazioni democratiche in un momento come questo, porterebbe con molta probabilità, alla sconfitta delle posizioni delle lobbies politiche che sostengono le ricette BCE, FMI, ecc. Dobbiamo quindi un gallo a Papandreu., a Sarkozy e alla Merkel ! Si annuncia ora un periodo in cui governi autoritari e non legittimati dal voto popolare debbono applicare normativamente le misure neoliberiste e traghettare il capitalismo fuori dall’abisso in cui si è cacciato, tutelandone la supremazia e i poteri. Ciò, ovviamente, a discapito del 90% dei popoli stessi, con una drastica riduzione del loro benessere e dei loro diritti acquisiti nell’arco del ‘900 grazie a lotte lunghissime che avevano permesso un equilibrio negoziato seppure instabile, tra poteri economici e poteri politici espressione della volontà popolare. E’ per questo che si devono evitare consultazioni elettorali e referendum. Il sistema non può essere sottoposto al rischio di crollo per una mera quanto inconsulta espressione democratica. 13

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La evidenza che le cose stiano così, è confermata dalla candida ammissione dei leader franco-tedeschi e da tutto l’ambaradan mediatico che si è affrettato a definire Papandreu come perfetto “irresponsabile” prima, e riaccettandolo nel circuito dei responsabili subito dopo aver abdicato alla consultazione ad aver varato la prospettiva di governo di salvezza nazionale. Anche da noi, secondo Napolitano, abbiamo bisogno di un governo di responsabilità nazionale. Dopo i fatti descritti siamo abilitati a tradurre così: adesso non abbiamo bisogno di democrazia, anzi, essa, nel frangente attraversato, è qualcosa da evitare assolutamente. Responsabile sarà invece chi sosterrà governi tecnici allargati in cui le classi politiche sopravvissute alla catastrofe della democrazia, si trasformeranno in puntuali esecutori delle indicazioni e dei suggerimenti di BCE, FMI, ecc. ai quali ultimi, a scanso di equivoci – e poiché la fiducia è merce rara -, sarà permesso di controllare e di verificare ogni passo e ogni decisione assunta dai nuovi governi autoritari e allo stesso tempo esecutori di ordini esogeni. Nessuno spazio per una via autonoma. La metamorfosi da democrazia ad autoritarismo tecnocratico delle elites è compiuto alla luce del sole. La lotta infinita tra puntuazioni di potenza, riassume con ciò, la sua piena trasparenza. Vengono elise d’un tratto tutte le categorie interpretative che sono state utilizzate nella fase di transizione degli ultimi 30 anni per massaggiare le masse: non c’è più bisogno di riformismo o terze vie di varia ispirazione. C’è da salvare la baracca globale con tutti i suoi annessi e connessi, e per questo è indispensabile che l’avvertimento alle masse dell’Europa sia chiaro, forte e ben comprensibile da chiunque. Siamo tutti avvertiti. Ora si pone una questione: tutto il nostro immaginario politico e ideologico è stato costruito nell’epoca della negoziazione allargata tra capitale e lavoro. Se l’epoca che si annuncia è un nuovo autoritarismo mondiale che sarà venduto e propagandato come “nuovo governo mondiale”, qual è la risposta che deve emergere dalle volontà popolari, prima che la sua natura sostanziale di dominio sia rapidamente tradotta in nuova costituzione formale, cioè prima che il nuovo dominio si doti del nuovo sistema di autolegittimazione legale e di nuove costituzioni nazionali ? In questa fase, che si annuncia brevissima, c’è uno spazio ridottissimo di intervento il cui esito è tuttavia decisivo per la configurazione dei nuovi decenni e del XXI Secolo. Se in questo breve volgere di mesi o degli immediati anni a venire, la difesa delle attuali costituzioni, dei poteri tripartiti (legislativo, esecutivo, giudiziario), della sovranità nazionale, subirà una sconfitta, allora si apre l’epoca di un nuovo feudalesimo a venire, rispetto al quale, ogni lotta e ogni battaglia diventerà illegale, non tollerabile e sarà soppressa. Ciò che resta della politica progressista in Italia e nell’Occidente e ciò che sta rinascendo come movimento antiglobalizzazione dovrebbero trovare una immediata ricomposizione in grado di rappresentare le volontà del 90 %.

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Sul berlusconismo Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 22, 2011 ⋅ di Roberto Musacchio Naturalmente sono contento che Berlusconi non sia più presidente del consiglio. Ma non riesco ad essere sereno, come si è quando una brutta cosa è ormai alle spalle e puoi guardare diversamente il futuro. Il futuro sarà sicuramente diverso, come sempre lo è, ma ciò che mi turba non è l’impresa immane della ricostruzione quanto le ombre pesanti che non riesco a diradare. Intendiamoci: sempre la storia non è bianca o nera e mai si presenta con la purezza dei “ buoni contro i cattivi “. La rivoluzione non è un pranzo di gala, si diceva ai vecchi tempi. Appunto, i vecchi tempi: non vorrei nemmeno rimanere prigioniero di un passato che non c’è più, nostalgico di una idea di cambiamento non più scritta nella storia. Eppure sento che ciò che mi turba non è pura biografia personale. Prendiamo il berlusconismo. Se ne è parlato tanto ed è difficile aggiungere cose. Ma occorre riflettere, se veramente ce ne vogliamo liberare, su come ci comportiamo nel momento in cui appare declinante e sconfitto. Per molti Berlusconi sembra quasi un accidente della storia, il “ cancro estirpato “, orrenda metafora, l’uomo nero. Già c’è una disinvoltura nei paragoni storici che non può essere accettata supinamente. Il ventennio berlusconiano come il ventennio mussoliniano. Un parallelo inaccettabile per quello che di tragico e unico il fascismo ha rappresentato e che non si può banalizzare. E poi perché si salta il piccolo particolare che durante questi 17 anni di Berlusconi sono stati quasi la metà quelli in cui non ha governato lui ma, in varie forme, l’altro campo. E se si dice che però il problema è che comunque ha regnato nell’egemonia reale il berlusconismo, cosa per altro vera, la questione si fa più grave perché si deve pur dar conto del perché non si è riusciti a contrastarlo efficacemente. Per giunta, ancora prima di questi 17 anni, è cominciata quella transizione che, tra la caduta del muro di Berlino, Tangentopoli, la fine dei grandi partiti del dopoguerra, ha preso il nome di seconda repubblica. Una seconda repubblica ampiamente voluta anche dalle forze opposte al berlusconismo che si sono ostinate a negare un rapporto tra essa e l’egemonia berlusconiana. E’ proprio così? Finito Berlusconi, la seconda repubblica, fatta di maggioritario, partiti coalizione centrati sul governo e condivisione del medesimo approccio compatibilistico agli elementi portanti del sistema può finalmente dispiegarsi nelle sue virtù? Sarebbe bene porsi il tema visto che ancora una volta si apre una transizione affidata ad un soggetto “ esterno “ alla politica, come fu 20 anni fa Ciampi ed ora è Monti, e che viene considerata tanto obbligata per quanto è incerta sulle finalità. A proposito di 15

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berlusconismo, se devo ricercare i necessari elementi della nostra storia patria che gli hanno fornito materiali importanti, ben prima del craxismo, li trovo in quegli elementi distorsivi che Gramsci studiò attentamente. Il trasformismo, la doppiezza, il sovversivismo dall’alto delle classi dirigenti, il populismo. Tutti tratti salienti del berlusconismo ma da cui l’antiberlusconismo non può dirsi esente o immune. Strano che questo Paese, che ha avuto Gramsci, ma anche il Gattopardo di Tommaso da Lampedusa, non riesca mai veramente a riflettere su se stesso con consapevolezza matura. E a vedersi un po’ più inserito nel mondo. Anche il fascismo non fu pura tragedia italiana, ma si accompagnò ad altre dittature, all’orrore del nazismo e alla crisi europea che tutto travolse per la debolezza delle democrazie. Oggi, possiamo parlare di come uscire dal berlusconismo se non guardiamo al contesto in cui è maturata prima la sua forza ed ora la sua crisi? E il contesto è quello della rivoluzione conservatrice neoliberista, nel Mondo e in Europa. Essa prima ha incubato i populismi di cui il berlusconismo è una variante particolare ma non avulsa e li ha lasciati governare anche per spiantare dalle fondamenta le forme della democrazia organizzata a partecipazione di massa ( e c’è da dire che se questo processo si è spinto particolarmente a fondo in Italia qualche riflessione le sinistre dovranno farla ); e ora svolta verso una gestione che nella crisi si fa tecnocratica e a democrazia deprivata di alternative sostanziali. Come questo si esprime è anche diverso da Paese a Paese, anche se l’indicazione prevalente è per governi di grande coalizione. Ma questa è la sostanza. Sarà bene rifletterci ora che comincia una nuova transizione italiana prima di trovarsi nuovamente impotenti e subalterni per un altro ventennio. E per rifletterci occorre avere una chiave di volta, un proprio punto di vista, una propria autonomia. Quello che mostrano di avere più i movimenti che le sinistre europee. La chiave è il domino del potere finanziario che produce l’incontrollabilità da parte della politica. Oggi la massa finanziaria in azione è enormemente superiore al pil mondiale ed alle risorse accumulate: un milione di miliardi di dollari ( più di 600 mila solo di titoli derivati a fronte di un Pil mondiale che è di 67 mila miliardi di dollari ). Come se in agricoltura si fossero coltivate 4 o 5 volte le terre disponibili o in edilizia si cementificassero 2 pianeti o ugualmente in industria. E questa crescita finanziaria senza senso non accetta regolamentazione alcuna, da quando, e fu Clinton a farlo e no Berlusconi, fu liberalizzata in America. È essa che crea strutturalmente il default degli stati e, ricordiamocelo, della natura. Il debito cosiddetto sovrano è alimentato dalla spirale della speculazione che sciama su di esso come sciama sul grano o sul petrolio. Altro che pensioni e salari. E’ l’ABC della alternativa alla BCE, ma senza di questo diverso vocabolario non si va da nessuna parte.

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ODE ALL’ORGIASTICO Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 11, 2011 di Francesco Rombaldi Le borse salgono quando Berlusconi si dimette e scendono quando Berlusconi smentisce le dimissioni. La cosa è di per impressionante. Quando lui scese in campo l’ascesa (delle borse) fu – invece - folgorante. Ora non lo tollerano più. Ho una mia idea del perché. Il Berlusca ha interpretato il ruolo del miliardario simbolo stesso – e ben pregnante – del capitalismo rampante, seppure in salsa italica, ove gli affari sono sempre ben legati alla politica, anzi è da essa, o se si vuole dalla sua gestione che scaturiscono. In ciò la trasparenza del Bel Paese è sempre stata all’avanguardia, contrariamente a quanto avviene più a nord, dove, come ci insegna Weber, è solo la grazia di Dio e la Provvidenza che consentono l’arricchimento e l’accumulazione. Vi sono poche figure simili a quella di Berlusconi nella storia recente. Soprattutto perché ha cavalcato la scena politica non da politico, ma da imprenditore. Altri lo hanno fatto da attori, nel senso letterale del termine, come Ronaldo Reagan, altri ancora, più a sud, lo fecero da estemporanei saltimbanchi, come Collor de Mello, in Brasile o Carlos Menem in Argentina. Vi erano poi la signora di ferro e l’uomo della terza via a ben rappresentare l’isteria di oltre Manica. A differenza di questi, il Berlusca si è trovato a rappresentare in forma vivente del capitalismo nella sua fase neoliberista ascendente. Un arricchimento stratosferico ottenuto in pochi decenni grazie all’ambiente di ineccepibile purezza secondo il quale: “pecunia non olet”. Esempi analoghi furono, in passato, i grandi petrolieri di fine ottocento inizio ‘900, come gli eterni Rockfeller o i più antichi e metodici Rothshild, i quali, a differenza del genio di Arcore, si sono sempre accontentati di mestare nel torbido del back stage e di alimentare, fino ad oggi e in qualità di mecenati di lungo corso, circoli di scienziati dell’economia e del potere e di controllare per mezzo di queste aristocrazie mercenarie, Stati, Governi, Banche centrali, scienza e tecnologia, insomma, il mondo intero. Mai hanno però calcato direttamente le scene della politica, poiché la loro è vanità differente, più esoterica e cabalistica, e concepiscono la spazio storico come il luogo del loro attraversamento secolare. Resta il fatto che anche costoro, all’inizio, non furono altro che mercanti o usurai della non miglior specie, e che la nobiltà del proprio nome, come accadde con i Medici a Firenze, fu conquistata successivamente, quando gli echi delle loro malefatte si erano annaquate nell’oblio. Infatti, colui che allo stato nascente si è configurato come arraffatore e mafioso, poi, nel corso del tempo, diventa una rispettabile figura accolta nei migliori salotti. Quella dell’ascesa dei nuovi ricchi fino ai piani alti del potere centrale della finanza è d’altra parte, la storia stessa della Borghesia. Un altro esempio degno di nota, fu la grande dinastia dei Kennedy (quella a cui si ispirò il nostro Walter). Partiti come trafficanti illegali di alcool all’epoca del proibizionismo, con 17

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acume e capacità di compenetrazione economico-politica, in mezzo secolo portarono un proprio figlio al comando. Ma come confermato dai fatti, la loro pretesa di insediarsi direttamente nei luoghi del potere politico fu severamente punita. Guarda caso i Kennedy erano irlandesi e cattolici. La fenomenologia ricorrente di questi clan è che quando arrivano ai piani alti, di solito svestono repentinamente l’abito di usurai, gangster o mafiosi, ed assumono quello di impeccabili operatori alle prese con la gestione delle naturali ed ineluttabili leggi dell’economia, degli investimenti e degli interessi, un po’ come magistralmente raccontato in “C’era una volta in America” di Sergio Leone, al compare di affari di Robert de Niro, interpretato da James Woods. Quanto al Berlusca, egli si distingue radicalmente da questi calvinisti usurai o dagli anglomafiosi. Lui è geneticamente un cattolico-romano ma di tradizione etrusco-orgiastica con ascendenze sicule; poco a che fare, mi spiace, per la tipologia sub-alpina o padana; sulla sua faccia c’è l’ironia permanente dei sacofagi a Tarquinia, un sogghigno sul mondo e sulla storia del mondo degli uomini (e delle donne): sa che è tutto un enorme bluff, una grande montatura dove un individuo mediocre può collocarsi al vertice solo per essersi trovato al posto giusto al momento giusto e perché magari ha un’imbottitura stomacale più solida e si arrischia più di altri, tanto ha poco da perdere, e l’abitudine al gioco gli è connaturata. Non lavora per i propri eredi o per la sua famiglia, ma coglie l’attimo fatale e tenta il tutto per tutto in prima persona. Scende in campo, vince e va al potere. E dal potere si atteggia e si accinge senza svestire l’abito, anzi, accentuandolo. Come un istrione sull’oceano, allieta i party e le danze dei G-7, G-8, G-20. Si aggira per le stanze delle feste con occhio clinico; se è lui ad organizzare, predispone i menù, l’arredamento floreale, fa togliere i panni stesi, elargisce occasioni vacanziere agli astanti, rende insomma surreale, cioè trasparente, la dimensione del potere. C’è da dire che, solitamente, chi possiede queste capacità e caratteristiche viene automaticamente translato verso l’alto nei periodi di crescita. Le bolle hanno sempre bisogno di gradassi. Le banche affidano loro le operazioni più arrischiate. I finanzieri sono indispensabili, perché coprono lo spazio in cui quelli più paludati e timorosi, non si avventurano affatto. C’è sempre bisogno di capitani coraggiosi. Ma ciò che è frequente in campo economico è obiettivamente più ostico in politica. Invece al Berlusca riesce. E rimane più o meno in sella per un bel periodo. E’ il tempo del turbo-capitalismo, che ammette, tra le tante, anche questa novità. Perchè questo è il tempo storico che afferma che tutto, anche la verità, è possibile. Quando però il ciclo economico inverte la sua direzione poiché ha esaurito ogni opportunità di valorizzazione al rialzo, il mondo degli affari torna a necessitare di signori che sappiano abbinare pomposità (la cosiddetta autorevolezza) e retorica della stabilità, del rigore, la “salvezza” del sistema e l’”unità” della nazione; austeri nel portamento e nel discorso, abbondanti nelle virtù, questi nuovi interpreti dell’accumulazione al ribasso hanno caratteristiche completamente diverse dai precedenti. Cambia l’estetica e cambia il logos. I clown non servono più, i viziosi orgiastici debbono essere abbandonati e ignorati sul ciglio delle strade, meretrici ambite e sedotte dalla loro stessa prominenza. Ora vanno in scena coloro che debbono infondere novella forza e fiducia nella intangibilità della impalcatura, quelli che camminando con passo composto sono in grado di cambiare il registro alle folle di gaudienti consumatori, come si fa con i registri dell’organo, ai flauti di pan si sostituiscono gli ottoni e i corni, ai violini, il contrabbasso; bisogna spargere la cenere sulle teste degli adepti; le tonalità dei bassi debbono osannare, per le orecchie dei sudditi peccatori e dilapidatori, alla morale e al rigore. L’Austerità impone figure nuove, impassibili 18

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tecnocrati, sacerdoti dell’etica, o nuovi calvinisti che hanno deposto in tempo le stupefacenti arti delle sostanze ammalianti (delle quali furono anch’essi estimatori e cultori) e che ora spargono tutt’intorno i semi dell’equilibrio. Fine del bunga bunga, a cui tutti furono affezionati, torna in vigore il buon padre di famiglia nazionale e gobale, le leggi perpetue del senso comune, del giusto temperamento e del pagamento degli interessi sul debito (nozioni del tutto ignorate nella fase precedente), colui che è pronto a scatenare financo guerre se un altro clown agita il berretto a sonagli da qualche parte, lungo i confini, a mezzogiorno. Lo spazio di agibilità degli ormoni sociali e dello spirito animale viene ridotto, e l’ordine deve tornare a regnare. Politica interna ed estera sono riassunte nelle accezioni di “credibilità” e “punizione”. FMI e BCE sorvegliano e comminano pene. Gli orgiastici sono sconfitti. Debbono lasciare miseramente la scena. E’ il tempo dei grandi moralisti, i quali, visti dal di fronte, debbono risultare impeccabili alle folle. Mentre se li osservi dal di dietro, dal famoso back stage, ove da sempre si celano, mostrano indescrivibili e purulenti dettagli. Che eserciteranno discretamente nei decenni a venire, senza essere intercettati.

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Lavoro, miseria e morte Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 11, 2011 di Tonino D’Orazio

Non è sufficiente dire che “mai come ora il lavoro è aumentato nel mondo”. I dati reali e macro che seguono sono quelli dell’OIL (L’Organizzazione Internazionale del Lavoro) in Global Employment Trends del 2008, che già molti gius-lavoristi hanno commentato. Basta riprenderli e aggiungere quelli del rapporto 2011 per rabbrividire. La stima che ci viene data nel 2008 dice che vi sono 3 miliardi di persone che hanno un lavoro su una popolazione mondiale di circa 6,5 miliardi, ma di esse, la metà, cinque su dieci, cioè 1,5 miliardi fanno parte della cosiddetta economia informale. Genericamente questi sono lavoratori in proprio o partecipanti in aziende familiari, senza diritti e spesso senza retribuzione. In questo ambito il numero di quelli che “lavorano” può essere stimato anche oltre la cifra proposta. Comunque, per il rapporto 2011 sono aumentati di 300 milioni nel 2009. L’Asia meridionale presenta il tasso di occupazioni vulnerabile (termine abbastanza più poetico di quello precario), o informale, più elevato del mondo, pari al 78,5 dell’occupazione totale nel 2009. Nell’Africa sub-sahariana, oltre i tre quarti dei lavoratori sono impiegati in occupazioni vulnerabili, mentre circa 4 su 5 vivono, insieme alle proprie famiglie, con meno di due dollari al giorno a persona. Il numero di disoccupati nel mondo si è attestato nel 2010 a 205 milioni, cifra sostanzialmente invariata rispetto al 2009, ma superiore di 27,6 milioni rispetto al dato del 2007, alla vigilia della crisi economica mondiale. L’OIL prevede per il 2011 un tasso di disoccupazione mondiale del 6,1 per cento, pari a 203,3 milioni di disoccupati. Il rapporto mostra che il 55 per cento dell’aumento della disoccupazione mondiale verificatosi fra il 2007 e il 2010, è dovuto alle economie sviluppate e all’Unione Europea (UE), sebbene questa regione rappresenti soltanto il 15 per cento della forza lavoro mondiale. In Nord Africa, nel 2010 un allarmante 23,6 per cento di giovani economicamente attivi era disoccupato. A livello mondiale, nel 2010 erano disoccupati 78 milioni di giovani, dato superiore rispetto ai 73,5 milioni del 2007, ma al di sotto degli 80 milioni raggiunti nel 2009. Nel 2010 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) si è attestato al 12,6 per cento, 2,6 volte maggiore rispetto al tasso di disoccupazione degli adulti. Inoltre, l’OIL avverte che, in base alle tendenze precedenti alla crisi, in 56 paesi per cui sono disponibili i dati vi sono sul mercato del lavoro 1,7 milioni di giovani in meno di quelli previsti. Dopo la crisi, solo per l’Italia si parla di 1,5 milioni. Questi lavoratori scoraggiati non sono calcolati come disoccupati in quanto non sono attivamente alla ricerca di un lavoro. Ciò mina la famiglia, la coesione sociale, la credibilità delle politiche realizzate, il loro futuro e quello del paese. Nelle economie sviluppate e nell’Unione Europea, l’occupazione industriale è precipitata con la perdita di 9,5 milioni di lavoratori fra il 2007 e il 2009.

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Qualità della vita, ovvero eufemismo. Oltre 1 miliardo di persone non ha casa e vive negli Slums, baracche di lamiera o cartone, nelle periferie, magari vicino alle discariche o in degradati e spesso abbandonati edifici dei centri storici dei paesi più “civili”. Erano quasi il 2% della popolazione di ogni stato nel 1970, oggi sono il 20%. Ovviamente niente servizi primordiali, acqua, fogne, elettricità. Se il parametro abitativo fosse quello occidentale allora sarebbero più di 4 miliardi di persone in questa situazione. Il drenaggio dalle campagne verso le grandi metropoli, creandovi enormi problemi anche in occidente, ha spopolato l’area agricoltura. Si stimava, prima dell’ultima crisi finanziaria e speculativa, a 1 miliardo le persone che soffrivano la fame, e il loro numero è aumentato di 100 milioni tra il 2007 e il 2008 e altri 100 milioni tra il 2008 e il 2010. Dopo aver tralasciato la bolla e il disastro dei sub-primes immobiliari, la speculazione mondiale, sostenuta da programmi coercitivi del Fondo Monetario Internazionale, si è riportata sugli alimenti e sull’acqua, elementi vitali sotto scacco, non solo per i lavoratori. A causa della speculazione gli alimenti di base, tra il 2007 e il 2008, sono aumentati vertiginosamente: il mais (+72%), il grano (+68%), la soia (+80%) e il riso (+80%), riportando quelli che vivono con meno di 1 euro al giorno da 1 miliardo di persone a 1,4 miliardi, e a 1.6 miliardi nel 2010. Aumenta dunque il numero complessivi degli affamati e 25.000 bambini muoiono ogni giorno per fame o malattie (spesso per noi banali). Dei 3 miliardi che lavorano, 1,3 miliardi non riesce a guadagnare 1,5 dollari al giorno per poter rimanere, con la famiglia, sulla linea, dichiarata standard, della povertà. Ovviamente la misura è riferita al potere d’acquisto di varie zone povere del mondo. Comprese le aree occidentali dove, in scala, si guadagna meno di 20 euro al giorno, equivalente a estrema povertà poiché al disotto delle linee di povertà dichiarate dai vari Istituti di Statistica nazionali. Milioni di pensionati, disoccupati, precari, ricercatori … Il rapporto del 2011 aggiunge che nel 2009 circa 630 milioni di lavoratori (il 20,7 per cento della manodopera mondiale) vivevano insieme alle loro famiglie al di sotto della soglia di povertà estrema di 1,25 dollari al giorno. Cifra che corrisponde a 40 milioni di lavoratori poveri in più, pari a 1,6 punti percentuali in più rispetto a quanto previsto dalle tendenze osservate prima della crisi. E’ un grave errore nelle economie sviluppate concentrarsi esclusivamente sulla riduzione dei deficit pubblici senza affrontare la questione della creazione di posti di lavoro perché indebolirà ulteriormente la possibilità di trovare un’occupazione nel 2011 per i disoccupati, per gli scoraggiati, i giovani e per coloro che entrano per la prima volta nel mercato del lavoro. Le pensioni, in Europa, ma in modo particolare in Italia sono da fame. Sono state sganciate dall’aumento reale del costo della vita e dagli aumenti che i loro colleghi attivi continuano a percepire, aumentando, di anno in anno, il divario tra chi lavora e chi ha lavorato. Esse sono tra l’altro erose dal costo della vita, anche perché gli aumenti in base all’inflazione programmata sono un furto reale. Anche il non lavoro porta con sé miseria. Crescere al Sud, in Italia, può essere una corsa a ostacoli che inizia prestissimo. Sono 410 mila i bambini del nostro Mezzogiorno che vivono in condizioni di povertà assoluta. Piccoli cui manca tutto, persino la possibilità di lavarsi ogni giorno o di possedere un giocattolo. Il numero aumenta se si considerano i minori in stato di povertà relativa: 1,88 milioni in totale, di cui ben 354 mila concentrati in Campania. 21

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La morte. L’OIL calcola che ogni anno muoiono, per cause correlate al lavoro, circa 2,2 milioni di persone. Di queste, oltre 350.000 muoiono ogni anno per incidenti sul lavoro. Gli incidenti invalidanti ammontano a 270 milioni di persone all’anno. 160 milioni di persone si ammalano ogni anno per malattie professionali o per esposizione a sostanze nocive di vario tipo. Si stima che per esempio, in Europa, nei prossimi 20 anni, i decessi provocati dall’amianto (vietato ufficialmente solo nel 1998) raggiungeranno la cifra di circa 500.000 persone, se non di più. Non è passata inosservata la relazione annuale dell’INAIL per il 2010, quasi trionfale, sulla diminuzione delle morti sul lavoro in Italia. Solo tre al giorno e 80 morti di meno che nel 2009. Hanno dimenticato di dire che, nel 2010, i lavoratori si sono “assentati” dal posto di lavoro per più di 1 miliardo di ore di cassa integrazione, e che quelli più colpiti sono i giovani e i “fruitori” di contratti precari. Ogni anno bisogna contare circa 4.000 invalidi, di quelli ormai inabili. Molti lavoratori che escono al mattino non sanno se ritorneranno a casa. Nel mondo intero.

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Venezuela, una lezione per l’occidente in crisi Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 11, 2011 di Attilio Folliero e Cecilia Laya Caracas, 4/11/2011: dal 14 febbraio 2011 il Venezuela è ufficialmente il paese con la maggiore riserva petrolifera accertata del mondo, con 296,5 miliardi di barili. Quel giorno sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del Venezuela, (n. 39.615) i risultati delle indagini condotti, per anni, da un gruppo di società internazionali chiamate ad accertare le effettive riserve petrolifere del Venezuela. Il Venezuela, un paese ricco di risorse Il Venezuela non possiede solo petrolio, ma anche gas, oro, coltan e numerose altre materia prime. Come nella maggior parte dei paesi del mondo, anche la legislazione venezuelana riserva allo stato la proprietà di tutto ciò che esiste nel sottosuolo, potendo affidare lo sfruttamento di queste risorse ai privati, che in cambio di questa concessione pagano allo stato delle percentuali (royalities). Per decenni le grandi multinazionali del petrolio, dell’oro e degli altri settori hanno operato in Venezuela come se le risorse fossero di loro proprietà, pagando allo stato cifre irrisorie. Tutto ciò è stato possibile perchè i governi di turno che si sono succeduti in Venezuela fin dall’inizio del XX secolo, con poche eccezioni, erano dei burattini nelle mani delle stesse multinazionali, ovvero governi imposti dalle stesse multinazionali; questi governi in cambio del potere, che esercitavano spesso in maniera dittatoriale riservavano alle multinazionali il diritto di sfruttamento delle risorse del paese. Questi governi, quando non erano delle dittature, ma assumevano la parvenza di una democracia, come nel caso del quarantennio della IV Republica (1961-1998) erano nei fatti delle dittature ed agivano indisturbati come spietate dittature, in cui era presente ogni sorta di violazione umana (stragi, persecuzioni, sparizioni, torture, arresti indiscriminati ed assassinato degli avversari politci erano all’ordine del giorno) grazie all’appoggio che ricevevano dagli Stati Uniti e dalle altre potenze interessate alle risorse del Venezuela. I pochi governi, le eccezioni di cui sopra, che hanno cercato di ribellarsi a questo stato di fatto sono stati immediatamente fatti fuori; è il caso di Cipriano Castro vittima di un colpo di stato da parte di Juan Vicente Gomez o Carlos Delgado Chalbaud, ucciso dopo aver preso il potere mediante un colpo di stato. Ovviamente, mentre le grandi multinazionali e le oligarchie che dirigevano il paese si arricchivano, la maggioranza del popolo si impoveriva. Negli ultimi decenni del XX secolo le grandi multinazionali non contente di poter sfruttare le risorse del Venezuela, pagando percentuali irrisorie (dell’ordine dell’1%) aspirano al pieno possesso. La storia del Venezuela ed in generale dell’America Latina, può essere vista come uno specchio di quello che sta per accadere in Grecia, in Italia, in Europa. Tutto quello che è successo in Venezuela si sta replicando in Europa; l’unica cosa che potrà cambiare sarà

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l’intensità con cui si daranno gli avvenimenti. Di qui l’enorme importanza di conoscere la storia e gli avvenimenti del Venezuela, tra i quali spicca la questione dell’oro venezuelano. Comprendere Il debito pubblico

Le grandi multinazionali come avrebbero mai potuto impossessarsi non solo di fatto, ma anche legalmente delle grandi risorse del Venezuela? Semplice: attraverso il processo di privatizzazione. Per poter procedere alla privatizazione delle risorse del paese e delle grandi imprese statali era però necessario trovare una scusa. E la scusa arriva dalla presenza di un enorme debito pubblico. Il debito pubblico non è qualcosa che nasce spontaneo, ma si crea a proposito. Invitiamo a tal fine a leggere il capitolo XXIV de “Il capitale” di Carlo Marx. Una volta creato il debito pubblico e diventato talmente alto, praticamente impagabile, il governo del paese altamente indebitato deve procedere alla vendita delle risorse del paese o meglio svenderle obbligatoriamente a prezzi stracciati (de galina flaca, per dirla alla venezuelana). Il debito pubblico ha una duplice funzione al servizio del capitale. In Italia, ad esempio, nessun privato, neppure il più ricco e potente, avrebbe mai potuto creare la capillare infrastruttura ferroviaria di migliaia di chilometri che caratterizza le Ferrovie dello Stato, o l’infrastruttura telefonica della Telecom, due grandi imprese che in mano privata possono assicurare profitti enormi. Ci riesce lo stato, proprio grazie alla possibilità di creare debito pubblico, quindi costruendo queste grandi imprese attraendo i capitali necessari. Una volta costruite queste grandi imprese, il privato riesce ad impossessarsene attraverso due stratagemmi: da un lato si affida la gestione di queste grandi imprese a “manager di fiducia del grande capitale” che portano queste imprese al bordo del fallimento, facendole apparire come imprese che non danno alcun utile allo stato e che sarebbe meglio liberarsene; insomma si creano “carrozzoni” come l’IRI, in Italia o la PDVSA e la CANTV durante la IV Repubblica in Venezuela. Per creare carrozzoni, imprese che danno solo perdite non è difficile, essendo sufficiente, ad esempio, aumentare spropositatamente il numero degli addetti; in questo modo i gestori, nominati dai politici di turno, con l’assunzione indiscriminata, oltre a creare clienterismo político che pemette di conservarli nel potere (dato che gli assunti li appoggeranno nelle future elezioni), contribuiscono a creare imprese perennemente in perdita, i cui bilanci annualmente vengono ripianati dallo stato, contribuendo anche ad aumentare il debito pubblico; dall’altro lato la classe politica al potere fa di tutto per far crescere il debito pubblico. Una volta che il debito pubblico ha raggiunto livelli tali, in cui i soli interessi sul debito assorbono gran parte del bilancio, lo stato è costretto a vendere i propri beni, o meglio a svendere i propri “carrozzoni”, che apparendo appunto come imprese che non danno utili debbono necessariamente essere vendute a prezzi decisamente inferiori. Questa storia, che si è compiuta pienamente in America Latina e in Venezuela si sta ripetendo in Europa. La stagione delle privatizzazioni in Venezuela, in Italia e in Europa Il Venezuela paese ricco di risorse – come abbiamo visto – grazie all’azione dei politici di turno, è costretto ad indebitarsi con il Fondo Monetario Internazionale ed è spinto a farlo precisamente per poter avere la scusa per procedere alle privatizzazioni, ovvero procedere alla svendita delle grandi imprese dello stato, tra le quali la più importante è PDVSA, la statale petrolífera. Da un lato, dunque, i politici al governo in Venezuela indebitano il paese, 24

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dall’altro lato i gestori delle imprese pubbliche, nominati dalla stessa oligarchia che gestisce il paese, si incaricano di farle apparire come dei “carrozzoni” di cui è meglio liberrasi. Una volta che il debito ha raggiunto livelli impagabili, i governi di turno procedono alla privatizzazione delle grandi imprese come la CANTV, SIDOR, VIASA ed altre importanti imprese pubbliche venezuelane; ovviamente si avvia anche il processo di privatizzazione di PDVSA, la più importante di tutte. Fin qua, la storia italiana procede sostanzialmente come quella che ha vissuto il Venezuela. In Italia si è già superata la fase della creazione artificiale del debito pubblico, quindi si sta procedendo alla svendita degli attivi. Lo stato italiano possiede grandi imprese o quote sostanziali di imprese già privatizzate: ENI, ENEL, Finmeccanica, Ferrovie, Poste, imprese municipalizzate dell’acqua, dell’energia, dei rifuti, dei trasporti; tutte imprese molto appettibili dal grande capitale internazionale. A queste ricchezze si aggiunge un’altra, che noi abbiamo indicato come il vero obiettivo primario dell’attacco all’Italia (1), ovvero il suo oro. L’Italia ha riserve auree per 2.451,80 tonnellate ed è il paese con la terza maggior reserva riserva di oro al mondo, dopo USA e Germania. I governi che si alterneranno adesso in Italia, con la scusa della necessità di far fronte all’ingente debito pubblico, procederanno alla svendita di tutti gli attivi del paese. Lo stesso sta succedendo in molti paesi dell’Unione Europea, dalla Grecia, alla Spagna, al Portogallo, a Cipro, all’Irlanda. Bisogna aggiungere che la crescita del debito pubblico è stata voluta anche dalla Unione Europea e dal Banco Centrale Europeo (BCE); a capo delle istituzioni europee si sono alternati i rappresentanti del grande capitale internazionale; ad esempio, alla testa del BCE è stato recentemente nominato proprio l’italiano Mario Draghi, uomo Goldman Sachs, già a capo della Banca d’Italia e principale artefice, assieme a Romano Prodi, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi della prima ondata di privatizzazioni in Italia. L’Unione Europea avendo imposto non la regola del pareggio del bilancio, ma la possibilità di sforare del 3% all’anno, ha creato i presupposti per l’aumento del debito pubblico; infatti in dieci anni, gli Stati nella più ottimistica delle ipotesi hanno accumulato debiti equivalenti al 30%. Inoltre, molti stati non avendo ritenuto tale regola come tassativa sono andati anche oltre: l’Italia, in alcuni anni, ha sforato il 5%, la Grecia il 10% ed oltre. Ovviamente le istituzioni europee non potevano non sapere, ma questo importava poco, perchè in fin dei conti lo scopo era l’indebitamento dei paesi. Quali saranno le conseguenze?

Le conseguenze le possiamo vedere studiando la storia dell’America Latina ed in particolare del Venezuela. Una volta ottenuti i prestiti, il Venezuela è stato costretto ad applicare una rigida ricetta imposta dai creditori, ovvero dal FMI. La ricetta oltre alla privatizzazione delle imprese statali, prevedeva forti tagli alla spesa pubblica, incremento delle tasse e di tutte le imposte, liberalizzazione ed incremento delle tariffe dei servizi pubblici, anche di quelli esssenziali, incremento dell’età pensionabile, licenziamento e riduzione del pubblico impiego, riduzione di salari e pensioni. La riduzione dei salari e delle pensioni arrivò ad essere dell’80%-90%. In realtà l’operazione fu molto più subdola che il semplice taglio netto, dato che si decise per il blocco degli stipendi e delle pensioni; quando una società è altamente inflazionata, come quella venezuelana, con tassi annui fra l’80% ed il 100%, bloccare i salari per vari anni di seguito ha determinato di fatto una svalutazione dei salari e delle pensioni fino al 90%. Le 25

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conseguenze sul piano sociale della ricetta del Fondo Monetario Internazionale sono sotto gli occhi di tutti e basta appunto analizzare la storia dell’America Latina, dall’Argentina, alla Bolivia, all’Ecuador, al Venezuela, senza dimenticare il Brasile e tutti gli altri paesi del continente americano. In ognuno, le conseguenze sono state le stesse, anche se l’intensità è stata differente: la maggioranza della popolazione cade nella miseria ed inevitabilemente esplode; le esplosioni sociali portano alla repressione, ovviamente. In Venezuela l’esplosione sociale arriva il 27 febbraio del 1989, quando la miseria e la fame in cui era precipitata la maggioranza della popolazione costringono, tra l’altro, all’assalto dei negozi per poter mangiare. La reazione del potere fu brutale, disumana: la repressione condotta dalla polizia e dall’esercito, il cui Ministro della Difesa, di origine italiana, Italo del Valle Alliegri, solo in questi ultimi mesi è stato incriminato per violazione dei diritti umani, in due giorni provoca migliaia di morti; il numero non è mai stato accertato. In questi mesi di crisi, stiamo assistendo all’applicazione della stessa ricetta in Grecia e negli altri stati europei, Italia compresa. Queste misure condurranno inevitabilmente all’impoverimento di grosse fasce della popolazione e conseguentemente alle esplosioni sociali ed alla inevitabile repressione. Trattandosi di popoli, gli europei, che hanno conosciuto un altro livello di vita, è pensabile che difficilmente accetteranno di tornare alla miseria di un tempo e quindi esploderanno in una maniera ancora più virulenta e pensiamo che la situazione possa sfociare in dittatura; dato che la repressione non si addice alla democrazia, la necessità di apllicare una forte repressione potrebbe costringere i detentori del potere ad imboccare la strade della dittatura. La cessione dell’oro ed il fallimento del settore finanziario in Venezuela A questo punto è necessario parlare di una vicenda molto particolare che ha riguardato il Venezuela e che accomuna ancora di più la attuale situazione italiana al paese caraibico. Abbiamo visto che l’Italia possiede una enorme quantità di oro, sotto forma di riserva internazionale, ben 2.451,80 tonnellate. Tra i grandi furti subiti dal Venezuela, ai tempi della IV Repubblica, vi fu proprio quello dell’oro. L’azione di indebitamento del paese, in Venezuela fu portata avanti dai governi di Jaime Lusichi (1984-1989) e di Carlos Andres Perez (1989-1993), i quali non solo indebitarono il paese con il Fondo Monetario Internazionale, ma impegnarono anche tutto l’oro dello stato; infatti, per poter ottenere i prestiti, non solod ebbono applicare una rigida ricetta, ma sono anche costretti a dare in garanzia 211 tonnellate di oro. Questa enorme quantità di oro, consegnata a garanzia dei prestiti, viene inviata e conservata in banche di differenti paesi del mondo: il 59,9% in Svizzera, il 17,9% in Inghilterra, l’11,3% negli Stati Uniti, il 6,4% in Francia; il resto in altri paesi. Anche in Italia, esattamente come nella Venezuela degli anni ottanta e novanta, c’è chi parla della necessità di impegnare l’oro (vedi nota 1). Come abbiamo visto la politica neoliberale dei governi venezuelani conduce all’indebitamento, quindi alle privatizzazioni, alla diffusione della miseria, alle esplosioni sociali ed alla conseguente repressione. La situazione economica del Venezuela, dopo la brutale repressione del 27 febbraio 1989, continua a peggiorare, fino alla crisi del settore finanziario. Il fallimento di oltre la metà delle istituzioni finanziarie del paese (banche, assicurazioni e finanziarie in genere) ariva nel 1994. E’ questo un altro elemento di profonda similitudine con la attuale crisi europea ed italiana. Oggi, la maggior parte delle imprese del settore finanziario italiano (banche e 26

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assicurazioni) è in profonda crisi ed al bordo del fallimento, con un svalutazione enorme rispetto al 09/10/2007 e con un forte indebitamento. Nella tabella riportiamo i dati delle principali istituzioni finanziarie italiane e di alcune europee e statunitensi. Si nota la forte svalutazione di molte imprese (per alcune superiore al 90%) ed il forte indebitamento. La situazione non è molto differente per le multinazionali europee e statunitensi prese in considerazione. La crisi del Venezuela e la rivoluzione pacifica di Hugo Chávez La forte crisi del Venezuela, con il pacchettazzo neoliberale, le principali imprese privatizzate e l’impresa petrolífera al bordo del fallimento ed in via di privatizazione, sfocia dunque nella rivolta popolare del 27 febbraio 1989 che prende il nome di Caracazo, repressa dai militari. Il malcontento, però serpeggia anche tra le forze militari, che finisce per trasformarsi in aperta ribellione contro il governo dalla facciata democratica, ma profundamente dittatoriale nei fatti. Il 4 di febbraio del 1992 gruppi di militari al comando di Hugo Chávez si ribellano, tentando di spodestare il “tiranno” Carlos Andres Perez. La ribellione fallisce ed i militari ribelli finiscono in carcere. Hugo Chávez, però, entra a pieno titolo nelle simpatie del popolo, essendo la prima volta che un militare agisce in favore dei poveri e cerca di rovesciare il governo per vendicare la repressione del 27 febbraio (Caracazo). Una frase in particolare, pronunciata da Chávez mentre è portato in carcere e trasmessa da tutte le televisioni venezuelane, lo rende famoso e popolare: “Il nostro tentativo non è riuscito, per adesso … “; una frase che arriva al popolo come segnale di speranza per il futuro. Por ahora, per adesso è andata cosi, per adesso abbiamo fallito, ma ci saranno altre opportunità. Automaticamente nell’immaginario collettivo, Hugo Chávez diventa il punto di riferimento per futuri cambiamenti e la speranza di un intero popolo. Il 27 di novembre dello stesso anno si ha una nuova ribellione militare; anche questa non ottiene il successo ed i militari finiscono in carcere. Le ribellioni del popolo e dei militari, anche se falliscono, stanno a indicare che la crisi del Venezuela è destinata a sfociare in una rivoluzione. La crisi economica dopo aver travolto anche il sistema bancario, che – come abbiamo visto – porta al fallimento di oltre la metà delle imrpese del settore, finisce per travolgere l’intero sistema político. Hugo Chávez, dopo aver passato due anni di carcere viene indultato dal neo presidente, Rafael Caldera, che in pratica è stato eletto in virtù della sua promessa elettorale di liberare i militari ribelli. Mantiene la promessa, Chavez esce dal carcere fonda un movimento político ed alla successiva elezione, nel 1998, si presenta come candidato con un programa totalmente rivoluzionario. Viene eletto ed inizia quel proceso di trasformazione della società che porterà il Venezuela lontano dal neoliberismo ed alla rinazionalizzazione di tutte le imprese strategiche precedentemente privatizzate (banche, telefonía, imprese minerarie); ovviamente la principale impresa del paese, la statale PDVSA, che durante la IV Repubblica non dava utili e stava per essere privatizzata si riprende e comincia a fornire grandi utili al paese. Tra le varie azioni portate in porto dal governo di Hugo Chávez è quella di aver pagato tutti i debiti del paese, chiudendo definitivamente con il Fondo Monetario Internazionale. Rimane aperto ancora un contenzioso con le grandi banche internazionali. Il governo ha ormai pagato tutti i debiti, ma le 211 tonnellate di oro date in garanzia al FMI, sono ancora in mano ai banchieri internazionali. Pertanto, recentemente il governo ha chiesto alle banche presso cui è custodito l’oro venezuelano di restituirlo. 27

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L’oro è un prodotto altamente strategico e con il possibile fallimento dell’Euro ed il possibile tracollo del dollaro, l’oro avrà un ruolo sempre più importante. In virtù della crescente importanza che assumerà l’oro, il governo venezuela ad agosto ha annunciato anche la nazionalizzazione di tutte le attività connesse all’estrazione dell’oro. Dicevamo all’inizio di questo nostro lavoro, che il Venezuela è un paese ricco di risorse, tra le quali appunto, abbonda l’oro. Il Venezuela, oggi non è tra i grandi produttori di oro, ruolo che vede al primo posto la Cina seguita dal Sudafrica, eppure è uno dei paesi con la maggiore presenza di questo minerale; è sufficiente considerare che in Venezuela si trova una delle miniere d’oro più grandi del mondo: “Las Cristinas” con riserve d’oro stimate per oltre 500 tonnellate. Fino ad ora, le attività connesse all’estrazione dell’oro erano affidate in concessione ai privati, in particolare alle grandi multinazionali del settore. In base alle attuali leggi, le multinazionali erano obbligate a vendere al Banco Centrale del Venezuela la metà dell’oro estratto, mentre l’altra metà rimaneva proprietà dell’impresa esrattrice. Il Governo, ritenendo che l’oro assumerà un ruolo strategico crescente ha deciso di nazionalizzare anche le attività di estrazione e gestirle direttamente al fine di poter conservare tutto l’oro estratto. In Italia, invece i rappresentati del partito che molto presto subentrerà all’attuale moribondo governo di Silvio Berlusconi, pensano – come annunciano pubblicamente in una lettera al Sole24Ore – di utilizzare le ingenti riserve aurifere italiane come garanzia per ottenere europrestiti, ossia pensano di continuare ad attuare fedelmente il programma intrapreso dai governi della IV repubblica in Venezuela. E’ evidente che la storica lezione dell’America Latina ed in particolare del Venezuela, non ha insegnato assolutamente niente ai politici italiani ed europei. Inevitabilmente, la strada intrapresa dall’Europa e dai suoi politici, tutti burattini al servicio del grande capitale, esattamente come era in Venezuela, condurrà alla miseria degli europei ed alla inevitabile esplosione sociale, con la inevitabile repressione; le esplosioni sociali potrebbero convincere – e lo ripetiamo – i detentori del potere ad intraprendere la strada della dittatura. In conclusione, la lezione del Venezuela ci insegna che le attuali politiche neoliberali condurranno alla miseria ed alle esplosioni sociali; quello che non possiamo prevedere è se la reazione del popolo sfocerà in una rivoluzione, in un grande cambiamento, o porterà ad una feroce dittatura. (1) Vedasi nostro articolo: “Avevamo visto giusto: vanno all’attacco dell’oro dell’Italia”, Url http://attiliofolliero.wordpress.com/2011/08/30/avevamo-visto-giusto-vannoall%E2%80%99attacco-dell%E2%80%99oro-dell%E2%80%99italia/ (*) Attilio Folliero è politólogo italiano residente a Caracas, professore contrattato presso la la facoltà di Scienze delle Comunicazioni (Escuela de Comunicación Social) dell’Università “Centrale del Venezuela” di Caracas; Cecilia Laya è una economista venezuelana, funzionario pubblico presso l’Università “Simon Bolivar” di Caracas

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CRISI EUROPEA: FINIRA’ COME L’ARGENTINA? Pubblicato il 13 dicembre 2011

di Agostino Spataro La via imboccata è quella giusta o si stanno commettendo nuovi errori?; I mercati: un Golem insaziabile, senza volto e senza nome; La crisi: colpa dei “costi della politica” o dei costi delle politiche speculative?; Riformare la politica per recuperare la sovranità e i poteri delle istituzioni democratiche; Una colossale, deviante mistificazione per favorire il disegno dei “poteri forti”; E’ la Grecia a finanziare le banche tedesche, non viceversa. La via imboccata è quella giusta o si stanno commettendo nuovi errori? Il titolo del pezzo non scaturisce da una paura che in questo periodo un po’ tutti avvertiamo, e che non osiamo esternare in pubblico, ma dall’analisi, libera e schietta, fatta da un economista Usa, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, nel corso di un’intervista pubblicata su un importante quotidiano argentino “Pagina 12” (del 10/12) di cui daremo ampi brani. Io ci ho messo soltanto un punto interrogativo, poiché mi terrorizza il solo riferimento a quella esperienza che per qualche giorno ho vissuto. Infatti, è un interrogativo da incubo che intimamente un po’ tutti inquieta, al quale nessuno dei responsabili vuole dare una risposta convincente e pubblica. Non sappiamo bene cosa stia effettivamente bollendo nelle cucine dei “mercati”, nella mente di taluni chefs di queste strane entità, senza volto e senza nomi, che continuano ad imporre le loro ricette e i loro uomini a Stati e a continenti interi. Ovviamente, sto parlando di grandi opzioni, di scelte strutturali non delle quisquilie cui ricorrono le varie “compagnie di giro” per tenere aperto il baraccone degli scandaletti a buon mercato e deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri malanni che affliggono l’Italia e l’Europa. Altra domanda drammatica. La via imboccata è quella giusta o si stanno commettendo nuovi errori che, questa volta, potrebbero risultare esiziali? Per i nostri “decisori” nazionali ed europei la strada e le scelte adottate sono le uniche possibili. Gli altoparlanti di stampa e media s’incaricano, senza verificare, approfondire, senza sentire tutte le campane, di confermarle, amplificarle e di propinarle come oro colato a un’opinione pubblica frastornata e inquieta. I mercati: un Golem insaziabile, senza volto e senza nome Per Joseph Stiglitz, invece, c’è poco da stare tranquilli poiché “lo schema che la Germania sta imponendo al resto dell’Europa porta alla stessa esperienza che l’Argentina ha vissuto sotto la guida del Fondo monetario internazionale (Fmi)”… “l’incapacità dei governi europei è evidente: invece di trarre insegnamento dagli errori compiuti in precedenza, li stanno 29

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ripetendo”. Ovviamente, l’economista Usa, parlando dell’Argentina, si riferisce ai governi neo liberisti degli anni ’90 guidati da Carlos Menem e dal FMI che portarono il Paese all’insolvenza (default). Oggi, grazie ai governi della sinistra peronista guidati prima da Nestor Kirchner e oggi da Cristina Fernadez (insediatasi ieri per il suo secondo mandato consecutivo), l’Argentina non solo ha saldato il debito col FMI e rifiutato la sua pelosa assistenza, ma ha varato politiche di sviluppo e d’inclusione sociale che, in pochi anni, l’hanno vista passare dall’insolvenza a una crescita del 7% nel 2010, (seconda solo alla Cina). Ora, qui, non si desidera esaltare il punto di vista di un premio Nobel, ma soltanto ascoltarlo, valutarlo e, quanto meno, farlo conoscere al pubblico. Temo che in Italia nessuno abbia un tale interesse poiché contrasta con i comportamenti e le direttive dei “mercati” ossia di questo Golem insaziabile che sovrasta l’Europa e il mondo. Secondo Gustav Meyrink, il Golem era una mostruosa creazione alchemica di un ebreo praghese, animata da una irrefrenabile voglia di crescita e di annessione. Sulla fronte aveva scritta la parola “Ameth” ossia verità. Era mostruoso e potente il Golem, ma aveva un punto debole: per dissolverlo bastava togliere la “A” (aleph), restava “meth” cioè morte. Ogni riferimento alle “A” delle società americane di rating è puramente casuale. Per quanto anche loro quando tolgono le “ A” e conducono gli Stati alla rovina, alla morte.

La crisi: colpa dei “costi della politica” o dei costi delle politiche speculative? E così vediamo “grandi” giornali e canali televisivi, economisti di grido, personalità politiche e di governo, opinion leader e comici di turno, ecc, tutti a sgolarsi per inculcare nelle menti atterrite della gente che la crisi italiana è principalmente dovuta ai “costi della politica”. E, quindi, dagli alla politica, al politico, al deputato, a chiunque è stato eletto in un organo istituzionale di questa Repubblica democratica, fondata sulla sovranità del popolo e non sugli interessi dei mercati, dei mercanti e dei loro lacchè in divisa d’ordinanza. Ma quanto diavolo costa la politica italiana? Forse di più delle spese militari, dell’evasione fiscale (275 miliardi/anno dice Istat), dei finanziamenti pubblici all’editoria, dell’anarchia del mercato delle professioni, delle banche, delle assicurazioni che pretendono di essere libere quando vanno in attivo, mentre quando vanno ( o fingono) in perdita bussano a quattrini alle casse dello Stato? La politica costa molto meno e lo sanno benissimo i fustigatori a senso unico. Con ciò non si vuole negare l’esigenza (che da tempo proponiamo) di una riforma del sistema di finanziamento pubblico dei partiti, dell’abolizione dell’attuale legge elettorale (porcata) introducendo le preferenze e riducendo il numero dei parlamentari, della soppressione delle province, ecc. Riformare la politica, per recuperare la sovranità e i poteri delle istituzioni democratiche Se questo veramente si vuole, si può fare subito dopo l’approvazione della manovra finanziaria. Chi lo impedisce? L’altro giorno, in Sicilia è stata approvata, all’unanimità, una legge che riduce del 30% il numero dei deputati regionali, da 90 a 70. E’ un buon segnale per il resto del Paese. Ma pare che queste riforme non le voglia nessuno. Forse perché verrebbe a mancare la materia dello scandalo e bisognerebbe spostare i fari 30

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dei grandi giornali e televisioni sui reconditi interessi di chi sta dietro questa campagna qualunquistica che, in realtà, mira a delegittimare il Parlamento e il sistema della democrazia rappresentativa. Insomma, dopo avere spostato a loro favore quote enormi del Pil nazionale (leggi della ricchezza degli italiani), questi signori si vogliono prendersi il governo, il Parlamento e quant’altro non possono controllare con i loro giochi di borsa. Spero di sbagliarmi, ma questa è gente che sa il fatto suo e certo non intraprende una campagna simile solo per far vendere qualche copia in più ai loro giornali. C’è un obiettivo nascosto? E qual è? Difficile dirlo, tuttavia è chiarissimo che si punta a demolire il ruolo, insostituibile, degli organi parlamentari costituzionali senza, per altro, dire che cosa si vuole fare, dopo. Gli uomini della concentrazione mediatica e finanziaria sanno benissimo che “il costo della politica” non è il problema principale. Lo stanno ingigantendo ad arte, per usarlo come un separè per non far vedere alla gente cosa stanno combinando i loro committenti nel boudoir dell’alta finanza. Andate a guardare, per favore. Altro che “casta” (dei politici!) Vi troverete di fronte uno scenario variegato, fantasmagorico, una bolgia di caste vere, palesi e occulte, cui attingere per far fare le ossa a generazioni di giornalisti d’inchiesta. Una colossale, deviante mistificazione per favorire il disegno dei “poteri forti” Prima o poi la verità verrà fuori. La gente comincia a capire che trattasi di una colossale mistificazione. Taluni la subiscono in assenza di una politica e di un' informazione alternative, altri la rifiutano, la contestano e mirano al giusto obiettivo. Come hanno fatto, nei giorni scorsi, i movimenti degli studenti italiani (non quelli degli “indignati” telecomandati) che hanno indirizzato la loro protesta contro le banche e i poteri forti. E qui mi fermo perché desidero riprendere il punto di vista di Joseph Stiglitz che in Italia nessuno ha ripreso perché si teme potrebbe turbare il clima di “pensiero unico” dominante. Avverto che probabilmente la traduzione non sarà perfetta (si fa quel che si può); chi lo desidera può leggere il testo originale sul sito del quotidiano. Alla domanda circa il ruolo giocato dalla Banca centrale europea (Bce), il Nobel risponde senza molto tergiversare: “La BCE non è democratica. Può decidere politiche che non sono in linea con quanto chiedono i cittadini. Fondamentalmente, rappresenta gli interessi delle banche, non regola il sistema finanziario in maniera adeguata e ha un’attitudine di stimolo ai CDS (Credit Default Swaps) che sono strumenti molto dannosi. Questo dimostra anche che le banche centrali non sono indipendenti…” A proposito dei governi tecnocratici di Monti in Italia e di Papademus in Grecia dice: “Il principale problema è quello di avere creato un contesto economico a partire dal quale la democrazia è rimasta subordinata ai mercati finanziari. E questo la Merkel lo sa bene. La gente vota, però si sente ricattata. Si dovrebbe riformulare il quadro economico, affinché le conseguenze di non seguire i mercati non siano tanto severe”.

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E’ la Grecia a finanziare le banche tedesche, non viceversa Richiesto di un parere sullo strano ruolo trainante assunto da Francia e Germania e sulle loro “idee errate” circa la crisi europea, così risponde Stiglitz: “E’ chiaro che stanno ponendo l’interesse delle banche sopra quelli della gente. Questo è molto più chiaro nel caso della BCE, però non credo che sia lo stesso per Sarkozy e Merkel…Credo stiano proteggendo le banche poiché temono che se le banche dovessero crollare, l’economia crollerà. Per questo dico che hanno una visione errata, quantunque non creda che stiano ponendo gli interessi dei greci o degli spagnoli in capo all’agenda. Questo è l’altro problema: manca la solidarietà. Essi dicono che non sono una “unione di trasferimento di denaro”. Di fatto, lo sono, però il trasferimento del denaro va dalla Grecia alla Germania.” Sono cose che, specie nelle alte regioni del lucro, tutti conoscono: è la povera Grecia che finanzia le potenti banche tedesche. Tutto è andato a meraviglia fino a quando non s’intravide il pericolo dell’insolvenza (default). Com’è noto, l’insolvenza è il terrore degli strozzini, degli usurai i quali hanno tutto l’interesse di far sopravvivere la loro vittima fino a quando ci sarà qualcosa da spremere. Se ci fate caso, anche le banche più esposte (poche quelle italiane) si sono comportate come i soggetti prima citati: terrorizzate dal pericolo d’insolvenza di alcuni Paesi loro debitori, hanno preteso dai rispettivi governi di fare carte false pur di salvare… non i Paesi debitori, ma le banche creditrici. Insomma, il Nobel ci offre tantissima materia per un' utile riflessione, per capire meglio come stanno andando veramente le cose e per correggere eventuali scelte sbagliate. Ovviamente, se dovesse ritornare la voglia d’informare correttamente i cittadini vi sarebbero altri autori da prendere in considerazione. E’ tempo che si operi alla luce del sole, si ritorni in Parlamento e fra i cittadini che non servono solo a pagare la bolletta.

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L'intervista citata nell'articolo in originale e DIALOGO CON JOSEPH STIGLITZ SOBRE LA “Con la guía del FMI, los resultados fueron desastrosos”

in traduzione italiana: EXPERIENCIA ARGENTINA

El Premio Nobel de Economía Joseph Stiglitz reivindica el camino elegido por Argentina tras la caída de la convertibilidad y el default, “aun contra lo que mucha gente considera buenas prácticas económicas”. Por Tomás Lukin y Javier Lewkowicz

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Joseph Stiglitz es un militante en contra de las recetas de ajuste fiscal, que proponen una “devaluación interna”, vía baja de salarios y del sometimiento de los deudores hacia los acreedores. Años atrás, la Argentina padeció esos males como ningún otro país, situación que pudo dejar atrás a partir de la aplicación de un conjunto de políticas económicas de signo opuesto, como la recomposición de la competitividad a partir de una fuerte devaluación, compensada con expansión del gasto público y política de ingresos al estilo keynesiano, y una fuerte reestructuración de la deuda externa que repartió los costos del default. Por eso Stiglitz se volvió un defensor del modelo argentino. “En los ’90, fue el FMI el que guió a la Argentina a aplicar las políticas de austeridad, con resultados desastrosos. En la Zona Euro no aprendieron la lección. Ahora de nuevo, Europa debería prestar atención al crecimiento argentino, que muestra que hay vida después del default”, explicó en un reportaje exclusivo a Página/12. A primera hora de la mañana y justo antes de partir hacia Chile, el Premio Nobel 2001, mientras saboreaba un abundante desayuno americano al aire libre con pan, huevos poché, tocino y frutas, abordó en profundidad la crisis del euro, las salidas posibles para las economías más débiles, la incapacidad de los gobiernos de Alemania y Francia y las nuevas administraciones de corte “tecnócrata” que surgieron en Italia y Grecia. Stiglitz recordó el reportaje que en agosto este diario le realizó en la ciudad alemana de Lindau, donde se desarrolló la conferencia mundial de Premios Nobel de Economía. Admitió que, en relación con aquella charla, su percepción respecto de la crisis europea se volvió más negativa. “Europa y el euro van camino al suicidio”, sintetizó. Recomendó que Grecia abandonara la moneda común. También subrayó la relativa relevancia del contexto internacional favorable para explicar el desempeño económico argentino, se refirió a la inflación y al giro de utilidades de las multinacionales. Esta semana Stiglitz se reunió con la presidenta, Cristina Fernández. “Tanto Néstor, cuando tuve la oportunidad de conocerlo, como Cristina me parecieron dos personas muy interesantes. Aunque ella es más pasional”, contó. –Usted menciona que “Argentina esta vez lo está haciendo mejor”. ¿Qué explicación le encuentra al buen desempeño de la economía nacional y de otros países emergentes? –En la Argentina, el fin del régimen de la convertibilidad y el default generaron un alto costo y un intenso período de caída. Luego la economía comenzó a crecer muy rápido, incluso en ausencia de lo que mucha gente considera las “mejores” prácticas económicas. Creo que Argentina, Brasil y China desplegaron muy buenas políticas macroeconómicas, al aplicar estímulos keynesianos bien diseñados, para apuntalar la economía, diversificarla y mejorar la situación en el mercado de trabajo. A la vez, las regulaciones bancarias en muchos países en desarrollo son de mejor calidad que las de Estados Unidos y Europa. En algunos casos, eso se debió a que los países ya habían atravesado grandes crisis. –¿Qué papel juega el contexto internacional favorable?

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–Ustedes se beneficiaron del continuo crecimiento económico de China. En ese sentido, se puede decir que tuvieron suerte. –Se refiere al llamado “viento de cola”. –Sí, pero para explicar el resultado final sin duda se necesita más que eso. Argentina mantuvo el flujo de crédito, devaluó su moneda e impulsó la inversión en salud y educación. También fue importante que Brasil creciera. Un factor fundamental, por supuesto, fue la reestructuración de la deuda, que de hecho puede servir como guía en otros procesos similares que requieren ser abordados ahora en Europa. Las políticas aplicadas, en conjunto, le permitieron comenzar a mejorar la elevada desigualdad de ingresos. –El superávit en cuenta corriente se reduce a medida que la economía crece. Un factor que genera una importante merma de divisas es la remisión de utilidades y dividendos de las empresas multinacionales. ¿Qué podría hacer Argentina para afrontar esa tensión? –Los beneficios de algunas empresas se deben a rentas tipo monopólicas, a raíz de la falta de competencia. Para atacar eso, lo que se hace es introducir competencia, de forma que la magnitud de esas rentas baje. Abrir los mercados puede generar fuertes retornos sociales. Probablemente algunos de los problemas se solucionarían con más competencia. Depende mucho del sector. –¿En qué medida los tratados bilaterales de inversión que firmó Argentina reducen el margen de acción para regular a las multinacionales? –Muchas acciones que se pueden tomar en términos de regulación pueden terminar en demandas, argumentando que se introdujeron cambios en los términos del contrato. Hay que tratar de salir de esos acuerdos y además pelear en las cortes. La política económica no debe ser dictada por esos convenios. La crisis europea –¿Por

qué la

crisis

se

instaló en

Europa y

no

se

visualiza

una

salida?

–Creo que el problema fundamental es que la concepción general de la Unión Europea fue errada. El tratado de Maastricht estableció que los países mantuvieran déficit bajos y reducida proporción de deuda en relación con el PBI. Los líderes de la UE pensaban que eso sería suficiente para hacer funcionar el euro. Sin embargo, España e Irlanda tenían superávit antes de la crisis y una buena proporción de deuda en relación con el PBI, y aun así están en problemas. Uno podría pensar que, en función de los acontecimientos, la UE se ha dado cuenta de que esas reglas no eran suficientes, pero no han aprendido. –¿A qué se refiere?

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–Ahora proponen lo que llaman una “unión fiscal”, que en realidad es sólo la imposición de mayor austeridad. Reclamar austeridad ahora es una forma de asegurarse que las economías colapsen. Creo que el esquema que Alemania está imponiendo al resto de Europa va a conducir a la misma experiencia que Argentina tuvo con el FMI, con austeridad, PBI cayendo, magros ingresos fiscales y, por eso, la supuesta necesidad de reducir más el déficit. Eso genera una caída en espiral, que conduce a más desempleo, pobreza y profundiza las desigualdades. El déficit fiscal no fue el origen de la crisis, sino que fue la crisis la que generó el déficit fiscal. –¿Qué rol juega el Banco Central Europeo? –El BCE hace las cosas todavía más complicadas, porque tiene el mandato de enfocarse sólo en la inflación, cuando en cambio el crecimiento, el desempleo y la estabilidad financiera importan mucho ahora. Además, el BCE no es democrático. Puede decidir políticas que no están en línea con lo que los ciudadanos quieren. Básicamente representa los intereses de los bancos, no regula el sistema financiero en forma adecuada y hay una actitud de estímulo a los CDS (Credit Default Swaps), que son instrumentos muy dañinos. Esto también es muestra de que los bancos centrales no son independientes, sino que son políticos. –¿Cómo explica que Alemania y Francia estén empujando a los europeos hacia ese abismo? –Creo que ellos quieren hacer las cosas bien, pero tienen ideas económicas erradas. –¿Están errados o en realidad representan intereses de determinados sectores? –Creo que ambas cosas. Por ejemplo, es claro que están poniendo los intereses de los bancos por encima de la gente. Eso es claro para el caso del BCE, pero no creo que lo sea para Nicolas Sarkozy o Angela Merkel –presidente de Francia y canciller de Alemania, respectivamente–. Creo que ellos están convencidos. Pueden estar protegiendo a los bancos, pero lo hacen porque creen que, si los bancos caen, la economía caerá. Por eso digo que tienen una mirada errada, aunque no creo que estén poniendo los intereses de los griegos o los españoles en el tope de la agenda. Eso es otro problema, la falta de solidaridad. Ellos dicen que no son una “unión de transferencias de dinero”. De hecho, lo son, pero la transferencia de dinero va desde Grecia a Alemania. –¿La unión monetaria es un problema en sí mismo? –Sí, es un problema. No hay suficiente similitud entre los países para que funcione. Con la unión monetaria ellos se quedaron sin un mecanismo de ajuste, como es la modificación de los tipos de cambio. Es como haber impuesto un patrón oro en esa parte del mundo. Si tuvieran un banco central con un mandato más amplio que contemple, además de la inflación, el crecimiento y el desempleo, y además con una cooperación fiscal real y asistencia a través de las fronteras, entonces sería concebible que funcione la unión monetaria, aunque aun así sería difícil. En el actual esquema, puede funcionar, pero con un enorme sufrimiento de mucha gente. 35

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–¿Qué análisis hace de la aparición de gobiernos tecnocráticos como el de Mario Monti en Italia o el de Lucas Papademus en Grecia? –El principal problema es haber creado un marco económico a partir del cual la democracia quedó su-bordinada a los mercados financieros. Es algo que Merkel sabe muy bien. La gente vota, pero se siente chantajeada. Se debería reformular el marco económico, para que las consecuencias de no seguir a los mercados no sean tan severas. –En agosto usted dijo que el euro no tenía que desaparecer. ¿Cuál es su postura ahora? –En aquel momento era más optimista. Pensaba que los líderes se iban a dar cuenta de que el costo de disolver el euro era muy alto. Pero desde ese momento, la confrontación con el mercado empeoró y la incapacidad de los gobiernos europeos se volvió evidente. En lugar de aprender de sus errores, los están repitiendo. Creo que realmente quieren sobrevivir, pero demostraron falta de entendimiento de economía básica, lo que me hace tener más dudas. –¿Es posible tener un euro a dos velocidades, como algunos economistas proponen? –Un euro a dos velocidades es una de las formas de ruptura del euro. Eso puede ser posible, la solución puede ser la creación de dos monedas con más solidaridad entre ellas. La moneda única contribuyó al problema. No era inevitable el estallido, pero pasó. Cuando se reconoce que los mercados tienen cuotas de irracionalidad, quizá se prefiera mantener más autonomía monetaria. –Usted dice que la restructuración de deuda es buena para las finanzas públicas europeas y pone el ejemplo de Argentina. Pero nuestro país también devaluó. ¿Cree que Grecia necesita adoptar esa medida? –Esa es la pregunta fundamental. Grecia va a tener que reestructurar su deuda, algo que todos aceptan ahora, a diferencia de hace un año. Si se hubieran hecho las cosas bien hace dos años, la reestructuración se podría haber evitado. En cambio, impusieron austeridad. Ahora la pregunta es, dada la reestructuración, ¿será suficiente para recomponer el crecimiento económico? Creo que para Grecia hoy la respuesta es no. A menos que tengan algún tipo de ayuda externa, incluso después de la reestructuración estarán bajo un régimen de austeridad. Por eso el PIB va a caer más. No tienen competitividad y hay dos maneras de lograrla. Una es a través de una devaluación interna, pero si los salarios caen, reducen todavía más la demanda y vuelven más débil la economía. En cambio, si Grecia sale del euro y devalúa, la transición será difícil y compleja, pero una vez que el proceso haya acabado, el hecho de que Grecia limite con la Unión Europea será un impulso a la recuperación. Nuevos bancos se instalarían y habría más comercio. FONTE:

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http://www.pagina12.com.ar/diario/economia/2-183012-2011-12-09.html

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Traduzione italiana "Con la guida del Fmi, i risultati furono disastrosi". Intervista a Joseph Stiglitz di Tomas Lukin e Javier Lewkowicz - Pagina12.com

Il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz rivendica la strada scelta dall’Argentina dopo la fine della convertibilità e il default, "anche se in tanti hanno idee diverse su quelle che debbano essere le buone ricette economiche". Joseph Stiglitz è un militante contro le ricette di aggiustamento fiscale che propongono una "svalutazione interna" grazie alla diminuzione dei salari e alla sottomissione dei debitori nei confronti dei creditori. Anni fa l'Argentina soffrì di questa malattia come nessun altro paese al mondo, una situazione che riuscì a lasciarsi alle spalle grazie all'applicazione di una serie di politiche economiche di segno opposto, come il ripristino della competitività partendo da una forte svalutazione, compensata dall’incremento della spesa pubblica e una politica dei redditi di stile keynesiano, oltre a una forte ristrutturazione del debito estero che ripartì i costi del default. Per questo motivo Stiglitz è diventato un difensore del modello argentino. "Negli anni '90, fu proprio il FMI a guidare l'Argentina nell’applicazione delle politiche di austerità, con risultati disastrosi. Nell’eurozona non sono riusciti ad imparare questa lezione. Ancora una volta, l'Europa dovrebbe prestare attenzione alla crescita argentina, mostrandole che c'è vita anche dopo un default", ha spiegato in un reportage concesso in esclusiva a Pagina 12. Alle prime ore del mattino e appena prima di partire verso il Cile, il Premio Nobel del 2001, mentre assaporava all'aperto un'abbondante colazione all’americana con pane, uova poché, lardo e frutta, ha analizzato a fondo la crisi dell'euro, la possibile uscita delle economie più deboli, l'incapacità dei governi di Germania e Francia e i nuovi governi "tecnocratici" che sono saliti al potere in Italia e in Grecia. Stiglitz ha ricordato l’articolo che questo quotidiano realizzò ad agosto nella città tedesca di Lindau, dove si tenne la conferenza mondiale dei Premi Nobel per l’Economia. Ha ammesso, in rapporto a quella chiacchierata, che la sua percezione della crisi europea è ancora più negativa: "L'Europa e l'euro sono sulla strada del suicidio." Ha anche raccomandato alla Grecia un’uscita dalla moneta comune. Ha anche sottolineato l’importanza del favorevole contesto internazionale per spiegare il successo economico argentino, riferendosi all'inflazione e ai profitti delle multinazionali. Questa settimana Stiglitz si è incontrato con presidente, Cristina Fernández: "Sia Néstor, quando ebbi l'opportunità di conoscerlo, che Cristina mi sono sembrate due persone molto interessanti. Ma lei è più passionale." Lei dice che "l’Argentina questa volta sta facendo bene". Che spiegazione si è dato per il buon funzionamento dell'economia nazionale e di quella di altri paesi emergenti? 37

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In Argentina, la fine del regime di convertibilità e il default provocarono molti danni e un forte periodo di decrescita. Poi l'economia ha iniziato a crescere molto rapidamente, addirittura in assenza di quelle che molta gente considera le "migliori" pratiche economiche. Credo che Argentina, Brasile e Cina hanno realizzato buone politiche macroeconomiche, applicando stimoli keynesiani ben progettati per rafforzare l'economia, per diversificarla e per migliorare la situazione del mercato di lavoro. Inoltre, i regolamenti bancari di molti paesi in sviluppo sono migliori rispetto a quelli presenti negli Stati Uniti e in Europa. In qualche caso, ciò è dovuto al fatto che questi paesi avevano già attraversato una profonda crisi. Che ruolo ha avuto il favorevole contesto internazionale? Si sono avvantaggiati della continua crescita economica della Cina. Per questo, si può dire che hanno avuto fortuna. Si riferisce al cosiddetto "vento in coda"? Sì, ma per spiegare il risultato finale c’è bisogno senza dubbio di molto di più. L'Argentina riuscì a mantenere un flusso di credito, svalutò la sua moneta e spinse gli investimenti in salute e formazione. Anche la crescita del Brasile è stato un aspetto importante. Un fattore fondamentale, ovviamente, fu la ristrutturazione del debito che può ora servire in Europa da guida in quei contesti che richiedono una soluzione. Le politiche applicate, nel suo complesso, le permisero di cominciare a migliorare la forte disuguaglianza dei redditi. Il surplus delle partite correnti sta diminuendo a mano a mano che l'economia cresce. Un fattore che genera un importante calo delle valute è dato dal trasferimento all’estero di profitti e dividendi da parte delle multinazionali. Cosa potrebbe fare l'Argentina per affrontare questo problema? I profitti di alcuni imprese si devono a posizioni di monopolio, per l’assenza di concorrenza. Per cercare di risolverlo, bisogna favorire la concorrenza, per far sì che l’ammontare di questi redditi subisca un calo. Aprire i mercati può restituire molte cose positive in ambito sociale. Probabilmente alcuni dei problemi si risolverebbero con una maggiore concorrenza. Dipende molto dal settore. In che misura i trattati bilaterali d’investimento firmati dall'Argentina riducono il margine di azione per dare regole alle multinazionali? Molte iniziative che si possono prendere nell’ambito dei regolamenti possono poi provocare nuove richieste, per il fatto che si sono introdotte modifiche ai termini del contratto. Bisogna cercare di uscire da questi accordi e far valere le proprie ragioni in tribunale. La politica economica non deve essere dettata per quegli accordi. Perché la crisi è piombata sull’Europa e non vede una via d’uscita? 38

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Il problema fondamentale è che è sbagliato il modo in cui l'Unione Europea è stata concepita. Il trattato di Maastricht stabilì che i paesi dovessero tenere un basso deficit bassa e un basso rapporto del debito nei confronti del PIL. I dirigenti dell'UE ritenevano che questo sarebbe stato sufficiente per fare funzionare l'euro. Tuttavia, Spagna e Irlanda avevano un attivo prima della crisi e un buon rapporto tra debito e PIL, e anche in questo caso ci sono problemi. Si potrebbe pensare che, dopo questi avvenimenti, l'UE si sia resa conto che quelle regole non erano sufficienti, ma in verità non ha appreso la lezione. A cosa si riferisce? Ora propongono quello che chiamano un’”unione fiscale" che è solo l'imposizione di una maggiore austerità. Reclamare austerità è un modo per garantire il collasso delle economie. Credo che lo schema che la Germania sta imponendo al resto dell'Europa porterà alla stessa esperienza che l'Argentina ebbe col FMI, con l’austerità, il calo del PIL, le basse entrate fiscali e, quindi, la necessità di ridurre ancora di più il deficit. Tutto questo provoca una caduta a spirale che porta a più disoccupazione, povertà e acuisce le disuguaglianze. Il deficit fiscale non è stato l'origine della crisi, ma è stata la crisi a generare il deficit fiscale. Che ruolo riveste la Banca Centrale Europea? La BCE fa cose sempre più complicate, perché ha il mandato di occuparsi solamente dell'inflazione, quando ora sono la crescita, la disoccupazione e la stabilità finanziaria le materie importanti. Inoltre, la BCE non è democratica. Può decidere politiche che non sono in linea ai voleri dei cittadini. Fondamentalmente rappresenta gli interessi delle banche, non regola il sistema finanziario in modo adeguata e c'è un attitudine di stimolo ai CDS (Credit Default Swaps) che sono strumenti davvero dannosi. Anche ciò dimostra che le banche centrali non sono indipendenti, ma che hanno valenza politica. Come si spiega che Germania e Francia stiano spingendo gli europei verso l'abisso? Credo che vorrebbero fare cose buone, ma che hanno idee economiche sbagliate. Sono errate o in realtà rappresentano interessi di settori ben determinati? Credo entrambe le cose. Ad esempio, è chiaro che pongono gli interessi del settore bancario al di sopra di quelli della gente. Questo vale sicuramente per la BCE, ma non credo valga anche per Nicolas Sarkozy o Angela Merkel. Credo che siano davvero convinti. Stanno proteggendo le banche, ma lo fanno perché credono che una caduta delle banche farebbe cadere tutta l'economia. Per questo motivo dico che hanno un approccio sbagliato, anche se non penso che stiano mettendo gli interessi dei greci o gli spagnoli in cima all’ordine del giorno. Questo è un altro problema, la mancanza di solidarietà. Dicono di non essere un’"unione di trasferimenti di denaro". In realtà, lo sono, ma il passaggio avviene dalla Grecia alla Germania. L'unione monetaria è un problema in sé? 39

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Sì, è un problema. Non c'è sufficiente similitudine tra i paesi affinché funzioni. Con l'unione monetaria si sono privati dei meccanismo di aggiustamento, come la modifica dei tassi di cambio. È come avere imposto in questa zona del mondo un sistema basato sull’oro. Se avessero una banca centrale con un mandato più ampio che contempli, oltre l'inflazione, anche la crescita e la disoccupazione - e con una cooperazione fiscale effettiva e l’assistenza tra le frontiere – potrebbe essere possibile il funzionamento dell'unione monetaria, anche se già così sarebbe difficile. Nello schema attuale può funzionare solo con enorme sofferenze per un numero enorme di persone. Che analisi fa della comparsa dei governi tecnocratici, come quello di Mario Monti in Italia o quello di Lucas Papademos in Grecia? Il principale problema è avere creato un quadro economico in cui la democrazia è subordinata ai mercati finanziari. È un qualcosa che la Merkel conosce molto bene. La gente vota, ma alla fine si sente ricattata. Si dovrebbe riformare il quadro economico, per fare in modo che le conseguenze di non dover seguire i mercati non siano troppo pesanti. In agosto lei disse che l'euro non doveva sparire. Qual è ora la sua posizione? Allora ero più ottimista. Pensavo che i dirigenti si sarebbero resi conto che il costo della dissoluzione dell’euro era davvero alto. Ma da quel momento il confronto col mercato è peggiorato e l'incapacità dei governi europei è diventata sempre più evidente. Invece di imparare dai propri errori, li stanno ripetendo. Credo che in realtà vorrebbero farlo sopravvivere, ma dimostrarono una mancanza di comprensione delle basi dell’economia, e questo mi fa venire molti dubbi. È possibile avere un euro a due velocità, come proposto da alcuni economisti? Un euro a due velocità è uno della delle possibili forme di rottura dell'euro. La soluzione può venire dalla creazione di due monete con una maggiore solidarietà. La moneta unica ha contribuito alla creazione del problema. Il collasso non era inevitabile, ma è avvenuto. Quando si capisce che i mercati hanno una certa parte di irrazionalità, allora si potrebbe preferire avere una maggiore autonomia monetaria. Lei suggerisce che la ristrutturazione del debito è positiva per le finanze pubbliche europee e fa l'esempio dell'Argentina. Ma anche il nostro paese svalutò. Crede che la Grecia deve adottare questa misura? Si tratta di una domanda fondamentale. La Grecia deve ristrutturare il suo debito, un qualcosa che tutti ora accettano, a differenza di un anno fa. Se due anni fa si fossero fatte le scelte giuste, la ristrutturazione si sarebbe potuta evitare. Invece, è stata imposta l’austerità. Ora la domanda è se la ristrutturazione sarà sufficiente per ridare vita alla crescita economica? Credo che per la Grecia la risposta è “no”. A meno che non ci sia un qualche aiuto esterno, anche dopo la ristrutturazione dovranno subire un regime di austerità. Per questo motivo il PIL cadrà ancora di più. Non sono competitivi e ci sono solo 40

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due modi per diventarlo. Una è con la svalutazione interna, ma se i salari calano, riducono ancora più la domanda e indeboliscono l'economia. Invece, se la Grecia esce dall'euro e svaluta, la transizione sarà difficile e complessa, ma una volta terminato questo processo, il fatto che la Grecia confini con l'Unione Europea darà forza alla ripresa. Nascerebbero nuove banche e ci sarebbero più scambi.

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IL SUCCESSO DELLE MONETE ALTERNATIVE IN ARGENTINA | [Cambiailmondo n. 0 – 12/2011]


IL SUCCESSO DELLE MONETE ALTERNATIVE IN ARGENTINA Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 11, 2011

Un articolo del febbraio 2005 sulla paralisi sociale generata dal FMI in Argentina – Imperava la legge del “ti presto 1, ti ho rimborsato 2, mi devi ancora 3″ – Ogni similitudine con il presente é del tutto involontario di Tito Pulsinelli Nel gergo dell’usura internazionale questo é un “default”. Nella vita quotidiana della gente comune, questa parola si traduce così: disoccupazione galoppante, collasso del sistema produttivo e commerciale, assoluta mancanza di soldi in circolazione. Le cronache ci hanno portato le notizie delle proteste popolari massive e ripetute contro il congelamento dei conti bancari, i blocchi stradali effettuati dai piqueteros, l’autorganizzazione degli espulsi dalla produzione che rieditano forme associative di mutuo appoggio per garantirsi diritti vitali. I modi in cui le vittime della logica ferrea della macroeconomia neoliberista si organizzano per far fronte alla situazione, includono anche gli acquisti comunitari. Liste di famiglie centralizzano i loro acquisti, e con un camion vanno direttamente alla fabbrica, per ridurre i costi ed ottenere prezzi da grossisti. E poi vi sono settori sempre più numerosi, famiglie in cui tutti sono stati licenziati, che già non hanno redditi monetari, e han dato vita alla Rete Globale del Baratto. Si tratta di reti di scambio di merci e di servizi che usano una moneta alternativa denominata “credito”. Sembra paradossale, però la risposta alle drammatiche conseguenze prodotte dalla dittatura fondomonetarista, é il ricorso all’antico sistema del baratto. E lo faceva appellandosi alla mutua solidarietà per combattere l’esclusione, alla capacità di mettere in comune beni e competenze, e scambiarseli. Oggi la Rete é composta da 5800 gruppi, che sommano ben 2 milioni e mezzo di persone. Recentemente si é creata anche un’altra rete, quella del Baratto Solidario che riunisce 800 mila persone organizzate in 1500 gruppi. Se si tengono presenti le rispettive famiglie, non é una esagerazione dire che una diecina di milioni di persone risolvono, almeno parzialmente, i problemi della sopravvivenza grazie all’economia alternativa e alla moneta sociale denominata “credito”. Era una moneta che doveva servire solo come mezzo di scambio e che non era vantaggioso accumulare. Per conservare il suo valore nominale, era necessario applicare un bollino mensile pari all’1% del suo valore. Si constatò che circolava con una velocità 40 volte maggiore a quella dei marchi ufficiali iperinflazionati. Siamo in presenza di un fenomeno di non trascurabile importanza che attrae l’attenzione dei falsari, delle istituzioni pubbliche e degli accademici. Nella circolare del 28 agosto, la Rete Globale del Baratto annuncia l’emissione di nuovi “credito” per neutralizzare la crescente falsificazione. Le nuove banconote, prodotte direttamente con la tecnologia comprata dalla Rete, avranno filigrana, 42

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numerazione stampata con laser e codice a sbarre. Inoltre, quando si fotocopiano, apparirà la dicitura “copia”. La falsificazione non ne ha frenato l’espansione, visto che le liste di scambio si estendono ora anche ai medici, oculisti, architetti, orti organici, disoccupati, scuole di musica, turismo, massaggi ecc. E aumenta anche la periodicità delle Fiere in cui tutti i gruppi appartenenti alla rete si riuniscono per proporre al pubblico, che affluisce in gran numero,la lista dei servizi, delle professionalità e delle merci disponibili allo scambio. La rilevanza di questa nuova economia non sfugge nemmeno alle istituzioni pubbliche, che vorrebbero metter mano in questa materia per regolarizzarla e disciplinarla sotto un controllo centrale. Questi tentativi sono finora falliti perché cozzano contro questioni come la legittimità di sottoporre le reti solidarie al regime fiscale e alle tassazioni. Il vasto spazio sociale che vive dei “credito” si sottrae a queste attenzioni, rifiuta l’abbraccio istituzionale, sostenendo che loro non creano profitti accumulabili ma solo benefici sociali immediati. E difendono gelosamente la loro autonomia contro la classe politica, che in Argentina é screditata oltre ogni immaginazione. “Che se ne vadano tutti!” é lo slogan che gridano a muso duro. A livello locale, invece, i municipi della provincia di Buenos Aires, di Chabacano, Quilmes e Avellaneda accettano i “credito” per il pagamento delle tasse. Dodici province, a loro volta, han già dovuto far ricorso all’emissione di segni monetari locali per far fronte al mantenimento dei residuali servizi sociali. Però la moneta di maggiore accettazione e circolazione é il “credito”, perché ha la credibilità fornita da alcuni milioni di persone che ne fanno regolarmente, o saltuariamente, uso. Rispetto ai titoli emessi dalle province, sono più attrattivi perché presentano il gran vantaggio che non implicano ulteriore emissione di debito, che a sua volta genera ulteriore accumulazione di interessi. Come é pensabile che l’Argentina, paese storicamente agroesportatore, oggi non riesca a garantire le calorie sufficienti a molti dei suoi cittadini? Com’é stato possibile che un paese che al tempo della dittatura militare risolveva i problemi alimentari dell’Unione Sovietica fornendogli tutto il grano di cui aveva bisogno, oggi é una economia che non riesce a soddisfare i bisogni alimentari della sua gente? Gli unici in grado di rispondere sono i savi del Fondo Monetario Internazionale. Fame vostra, accumulazione mia, dice l’FMI. Nel frattempo, c’é chi sta dimostrando che si può -e si deve- prescindere dai banchieri se si vogliono risolvere problemi immediati di sopravvivenza e di socialità. Si sono riappropriati dell’uso di un utensile trascurato e decisivo -affatto neutrale- quale la moneta, piegandola alla misura delle comuni necessitá. E’ un granello di sabbia nel meccanismo di un sistema basato sulla riproduzione perenne del debito. Il premio Nobel Perez Esquivel sintetizzò così: “Mi presti 1, quando ti ho rimborsato 2, ti devo ancora 3.” ------------------------------------Il Default e i mercati del baratto nel film: ARGENTINA ARDE, di Roberto Torelli e Rodolfo Ricci http://www.emigrazione-notizie.org/argentina_arde.asp

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“A Líbia que eu conheci” – La Libia che ho conosciuto Pubblicato da cambiailmondo ⋅ novembre 11, 2011

Un reportage sulla Libia del 1979, nel decennale della rivoluzione, di Georges Bourdoukan, ex-direttore de “O Globo”, rete televisiva di San Paolo del Brasile. da:http://blogdobourdoukan.blogspot.com/ 1) Dopo che Nelson Mandela fu liberato, andò subito in Libia per ringraziare a nome del popolo sudafricano, per il sostegno di Gheddafi contro il regime dell’aparheid. Sono stato in Libia nel settembre del 1979, in occasione del decimo anniversario della rivoluzione che aveva portato Gheddafi al potere. Mi accompagnò in quell’occasione il cameraman Luis Manse e operatore Nagra Nelson Belo. Eravamo lì per la Rete Globo, di cui ero al tempo, il direttore di San Paolo. Prima sorpresa. L’hotel, dove il governo ci aveva mandato, era interamente occupato da diplomatici. Chiesi all’ambasciatore del Brasile il motivo di questa concentrazione. La risposta mi sorprese ancora di più. “Nella Libia di Gheddafi gli affitti sono stati vietati.” Ai libici che non avevano una propria casa, era necessaria solo una richiesta e il governo provvedeva immediatamente alla costruzione di una apposita casa per il richiedente. Il paese era un enorme cantiere. E ancora: Una legge, LA LEGGE DEL MATERASSO, stabiliva che ogni cittadino libico che sapesse dell’esistenza di una casa in affitto, gettando un materasso nel cortile di quella casa, ne acquisiva l’utilizzo. Molte ambasciate avevano “sofferto” di questa legge da quando erano state occupate da cittadini libici. L’ambasciatore mi spiegò che anche l’ambasciata brasiliana non era rimasta immune da questa legge. Un autista libico che vi lavorano disse ad un amico che non aveva ancora una casa, che l’edificio dove era situata l’Ambasciata brasiliana, era in realtà affittata poiché apparteneva ad un italiano che era tornato in Italia dopo l’ascesa al potere di Gheddafi. Immediatamente il suo amico gettò un materasso nel cortile sostenendone la proprietà. Il governo libico dovette intervenire per evitare problemi ulteriori. Il Brasile finì per mantenere l’ambasciata, e il cittadino libico ottenne comunque una nuova casa. Tutto questo accadeva negli anni ’70, quando la Libia era una potenza ricchissima, con solo 3 milioni di abitanti, su quasi 1,8 milioni di chilometri quadrati. Ai libici, per legge, era vietato di lavorare alle dipendenze di stranieri. Chi non fosse comunque disposto a lavorare riceveva un valore equivalente di oggi, pari a circa 7.000 dollari al mese. Inoltre, medico, ospedale e farmaci, era tutto gratis. Nessuno pagava gli studi e chiunque voleva migliorare la propria formazione al di fuori del paese otteneva una consistente una borsa di studio. Ho incontrato molti dei libici che utilizzarono questa possibilità in Francia, Italia, Spagna e Germania e in altri paesi dove sono stato come giornalista.

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2) La bella Tripoli prima dell’invasione degli Stati Uniti e la NATO Siamo a Tripoli, nel settembre del 1979. Quella notte quasi non riuscivo a dormire. Nell’ albergo, oltre a diplomatici e giornalisti ci sono anche delegazioni provenienti da paesi africani di lingua portoghese. Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Capo Verde, ecc. Erano loro che non mi permettevano di prendere sonno in quanto, sapendo che avrei avuto un incontro con Gheddafi il giorno dopo, mi avevano chiesto ulteriori spiegazioni sul socialismo libico. Mi dissero che non avevano mai visto niente di simile. Nemmeno nei libri. Erano stupiti dalla legge del materasso (case per tutti), con assistenza medica, farmaci e istruzione tutto gratis. E perché nessuno fosse costretto a lavorare (soprattutto per le compagnie straniere), in Libia si poteva continuare a ricevere un salario garantito “fantastico” secondo le parole di un angolano. Promisi loro di cercare di ottenere una risposta, dal momento che, infatti, avrei potuto parlare con Gheddafi, ma sapevo anche che era imprevedibile e spesso i giornalisti erano lasciati attendere all’infinito. In primo luogo, volevo sapere perché le porte degli appartamenti dell’ hotel non avessero serrature. Così tutti potevano entrare nella casa di tutti e infatti i nostri appartamenti furono continuamente “visitati”. Chiesi al direttore dell’hotel la ragione per la mancanza di serrature. Mi rispose che non c’erano i ladri in Libia come “durante la colonizzazione italiana e quindi le serrature potevano essere sacrificate”. Ma un diplomatico mi aveva spiegato che la mancanza di serrature era per “consentire” agli agenti del governo di poter venire in qualsiasi momento del giorno e della notte per vedere se non ci fossero donne “invitate” negli appartamenti. “Secondo il diplomatico, i libici dicevano che fino ad allora, durante la colonizzazione italiana e il regno di re Idris, gli hotel erano serviti solo per le orge”. Il giorno dopo mi preparo per l’incontro con Gheddafi. Manse, con la sua macchina fotografica e Belo, con il suo registratore, Nagra accanto a me aspettando l’ascensore. Con una faccia assonnata, si era lamentato che i loro appartamenti erano stati “penetrati” tre volte fino all’alba ed era stato un bello spavento. La vettura inviata dal governo era in attesa all’ingresso, ma Manse aveva voluto prendere un altro caffè. Salii in macchina e aspettai. Cinque minuti dopo Luis Manse, con la sua inseparabile macchina fotografica arrivò da solo. Chiesi di Belo e lui rispose che immaginava fosse già arrivato. Chiesi all’uomo della nostra scorta se avesse visto il nostro compagno. Lui si recò immediatamente al portiere a chiedere. Un bel ragazzo rispose che aveva visto Belo accompagnato da due agenti in divisa sulla strada verso la piazza che era a circa cinquanta metri dall’Hotel. Ero preoccupato, pensando al peggio. Un giornalista accompagnato dalla polizia, in Brasile, non è mai stato di buon auspicio. 3) Belo e due poliziotti erano in piedi accanto a una scintillante Mercedes Benz nuova. Chiesi cosa stesse succedendo. Un ufficiale mi rispose che il mio compagno non smetteva di indicare la chiave dell’auto inserita nel cruscotto. E non ne capivano il motivo, perchè Belo non parlava arabo né loro conoscevano la “brasiliana”. Quindi era per questo che avevano lasciato l’hotel insieme. Niente di 45

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cui preoccuparsi. Belo mi spiegò il motivo e io lo tradussi alla polizia: nel vedere la chiave inserita nel cruscotto, era preoccupato che qualcuno avesse potuto rubare l’auto. I due ufficiali cominciarono a ridere e dissero che era una macchina abbandonata. Era una consuetudine nel paese. A chi non piaceva abbastanza la propria auto l’ abbandonava con la chiave all’interno. Così che un’altra persona poteva prenderla. Questa era la Libia dell’epoca. Nessuna povertà, un sacco di ricchezza e abbondanza per tutti. Questo si poteva osservare anche nelle singole persone. Gli anziani, che avevano vissuto sotto il dominio dei colonialisti e durante la monarchia, erano sofferenti, corpi asciutti e magri. I bambini e i giovani apparivano sani e felici. Giusto per darvi un’idea della Libia di allora, sotto Gheddafi, tutto costava più o meno l’equivalente di 3 dollari. C’erano giganteschi supermercati, ma nulla era venduto al dettaglio. Chi volesse il riso, per esempio, pagava 3 dollari per sacchi di 50 chili. Tutto era su questa base. Visitammo il parco industriale di Tripoli, e chiesi di vedere una industria tessile. Chiesi come fosse il rapporto con i clienti e un tecnico tedesco che era lì per costruire i telai, si mise a ridere. “I libici sono pazzi,” disse. Aggiunse: “qui non vendono niente al metro, vendono proprio tutto il pezzo di tela. Basta entrare in fabbrica e chiedere. “ Chiesi il prezzo del pezzo di tela: 3 dollari un pezzo di 50 metri … Ma se, per esempio, si voleva comprare una cravatta, il prezzo minimo di una singola cravatta era l’equivalente di 200 dollari. Una pipa, 300 dollari. Cioè, ogni prodotto che ricordasse i coloni e, di conseguenza, rappresentasse o suggerisse il consumo superfluo, era fortemente tassato. L’alcool, neanche da pensare. Arresto immediato. Ed è quello che accadde a due giornalisti argentini, la cui “furbizia” li portò ad una nave ancorata al porto, per acquistare una cassa di whisky. Uno dello staff dell’hotel annusò il loro fiato e li denunciò. Certo, non furono arrestati perché erano ospiti del governo. Ma non poterono intervistare nessuno, tanto meno il Gheddafi … E sapemmo questo solo perché l’ambasciatore del Brasile, una figura simpaticissima, una notte ci invitò all’Ambasciata e là, ci offrì un whisky di non so quanti anni (custodito in una cassaforte), che Belo e Manse trovarono delizioso. Naturalmente bevvi anch’io un sorso, anche se odio il whisky. Ricordo la marca, l’anno. Ho sempre ricordato il sapore di iodio. Naturalmente non avremmo rifiutato la premura e il consiglio dell’ambasciatore. Non far schioccare la lingua perché sarebbe stato troppo evidente. Prima di lasciarci, l’ambasciatore ci diede un gallone di latte per ciascuno, perché il latte mascherasse l’alito del nostro respiro. Sulla porta, chiesi all’ambasciatore se poteva darci una testimonianza. “Gheddafi è un genio”, disse. Sorpreso dell’espressione, chiesi. “Lei considera il signor Gheddafi un genio?” “Sì! Un genio!” 4) “Quindi Lei pensa che Gheddafi sia un genio?” “Sì! – rispose l’ambasciatore -. Un genio! E domani lei ne avrà una prova.” Non capii. “Domani ci sarà una parata per celebrare il decimo anniversario della Rivoluzione. Assista e guardi bene se mi sbaglio.” Il giorno dopo spuntò glorioso. Ed ero preoccupato. Se il paese si ferma per commemorare il decimo anniversario della Rivoluzione, Gheddafi avrebbe trovato il tempo per l’intervista? Le persone affollavano la piazza e le strade dove si sarebbero svolte le sfilate. Una cosa attirò la mia attenzione. C’erano migliaia di ragazze in uniforme militare pronte per la parata. Sorridevano di un sorriso 46

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che solo gli adolescenti hanno. Impressionante la loro gioia. Era così che Gheddafi aveva liberato le donne, che in precedenza non potevano uscire dalla porta di casa e nemmeno togliere quei vestiti che coprivano il loro corpo da cima a fondo, mi confidò l’ambasciatore. “Non è un genio?” Queste adolescenti uscivano di casa molto presto la mattina con la divisa militare e tornavano alle loro case nel corso della giornata. Solo loro non dormivano in caserma. E hanno il permesso di non togliere mai la loro divisa. Dopo il servizio militare non potranno mai tornare a vestirsi come prima. Ecco perché le donne libiche si vestivano come le donne occidentali. Ma a volte incontravamo anche donne in abiti tradizionali. Dopo la sfilata, un funzionario del governo mi disse che Gheddafi non ci avrebbe più ricevuto a Tripoli, ma a Bengasi, la bella città del Mediterraneo. E all’alba tentammo di percorre le 600 miglia che separano le due città. Imparai, quel giorno, che l’elettricità che illumina il paese è gratis. Nessuno riceve il conto della bolletta, sia di casa o del proprio negozio. E coloro che hanno attitudine per gli affari, possono ottenere le risorse della banca dello Stato senza pagare un centesimo di interesse. L’ampia distribuzione della ricchezza del paese alla sua popolazione, in nome dell’Islam, aveva creato un serio problema per altri paesi musulmani, in particolare con l’Arabia Saudita. E da allora, mai Gheddafi tenne in considerazione i leader sauditi che accusò di aver preso possesso di un Paese che non apparteneva loro e di essere “infedeli che avevano profanato il vero Islam”. “Hanno scambiato il Profeta con il petrolio.” Per la prima volta il Corano veniva utilizzato (da Gheddafi) contro coloro che si dicevano essere i suoi difensori e interpreti. I sauditi, spalle al muro, potevano solo dire che era un “comunista”. Gheddafi rispondeva che lui stava semplicemente seguendo il Corano alla lettera. Diverse rivolte cominciarono a scoppiare in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo. Stati Uniti e media associati cominciarono a rimboccarsi le maniche…. Era necessario difendere il vassallo Arabia Saudita e trasformare Gheddafi in un paria. Sulla via del ritorno in albergo, mi imbattei in rivoluzionari del Sud Africa che erano in Libia per cercare fondi per combattere l’apartheid.

5) Parliamoci francamente. Stavo cercando di realizzare un programma che difficilmente sarebbe stato messo in onda. A quel tempo il “Globo Reporter” registrava un vasto pubblico, tra i 50 ei 65 anni, con un picco a 72. Inoltre, vivevamo sotto il tallone della dittatura. Ma dal momento che eravamo lì, dovevamo utilizzare l’occasione e vedere poi come sarebbe andata. Nella notte in albergo, qualcuno aprì la porta e mi chiese se potevo parlare un po ‘. E ‘stato il capo della delegazione della Guinea-Bissau ed era eccitato. “Mai immaginato di conoscere un paese come la Libia”. Mi chiese come era stato il mio incontro con Gheddafi. Risposi che l’incontro sarebbe stato il giorno dopo a Bengasi. Mentre parlavamo, un “ufficiale” del governo entrò nella stanza e ci salutò con un sorriso. Una rapida occhiata e un sorriso da assistente di volo, ci ringraziò e se ne andò. 47

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Appena 10 minuti passarono e la porta si aprì di nuovo. Un giornalista di Rio de Janeiro, il mio vicino di stanza entrò disperato. “Una Coca-Cola per amor di Dio! Il mio regno per una Coca-Cola| Sto andando giù in fondo, alla lobby, qualcuno deve dirmi dove posso acquistare in questo paese di maniche al vento, una coca cola!”. Non aspettò neanche l’ascensore. Si precipitò giù di corsa per le scale. “E’ un pò matto il tuo vicino” mi confidò quello della della Guinea-Bissau. E poi ha anche offeso Shakespeare. Poi mi rivelò di aver incontrato molti rivoluzionari provenienti da diversi paesi che si trovavano in Libia in cerca di risorse. Anche sudafricani. “Hanno consegnato una lettera di Nelson Mandela a Gheddafi chiedendogli di non dimenticare i loro fratelli africani”, disse felice, il che implicava che erano rimasti soddisfatti. Ancora una volta l’”ufficiale”, con il sorriso da assistente di volo entra sorridente. Questa volta per invitarci a scendere nel salone dell’hotel per vedere un film sugli “orrori” dell’epoca coloniale. In realtà non si trattava di un film, ma di un documentario di 15 minuti e se l’idea era che il pubblico si indignasse, l’effetto fu l’opposto. Il documentario mostrava le notti di Tripoli. Ragazze mezze nude, a piedi per le strade, alla ricerca di clienti, bordelli, cabaret, bevande alcoliche, e così via. Peggio ancora, alla fine della proiezione, gli applausi da parte del pubblico, per lo più giornalisti, chiedendo il ritorno della colonizzazione … “Quella sì che era una bella epoca”, disse il giornalista di Rio, e il compagno di Minas Gerais aggiunse: “Questo papà che neanche la Coca-Cola ha”. Alle quattro del mattino ci svegliammo. Da Tripoli direttamente all’aeroporto di Bengasi, dove finalmente andammo a intervistare Gheddafi. (Nella foto: “Sopravviverò al mio boia” – Omar Moukhtar l’eroe nazionale della Libia, arrestato e picchiato dai colonialisti italiani) 6) Quando atterrammo a Bengasi, la bella Bengasi, le splendide spiagge erano ornate di palme. Stavamo lì, come coqueiros, sulle spiagge del nord-est brasiliano. Cogliendo e mangiando datteri dolcissimi. Un giornalista svizzero che era arrivato a Bengasi una settimana prima, mi disse che non dovevo perdermi un matrimonio. Uno qualsiasi, disse. Era rimasto veramente colpito dei festeggiamenti ma quello che lo aveva lasciato più impressionato era che gli sposi dopo la cerimonia, ricevevano una busta del governo con l’equivalente di 50.000 dollari come regalo per la futura famiglia. Beh, questa era la Libia che poche persone conoscevano e che i media occidentali facevano di tutto per non far conoscere. E non avrebbero potuto farlo perchè, come spiegare ai loro lettori che un giovane colonnello era salito al potere e che non aveva utilizzato la ricchezza per proprio beneficio? Al contrario. Che aveva condiviso la ricchezza con la popolazione del paese. Che non voleva vedere nessuno senza casa, o con la fame, ignorante e senza molte altre cose. Io, naturalmente, non avevo dubbi di concentrare la mia intervista proprio su questi 48

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punti. Ma prima dell’intervista, partecipammo a tre feste con musicisti provenienti da diversi paesi. E c’erano dolci. E c’erano succhi. E neanche un “uisquinho”, si lamentarono alcuni giornalisti che sinceramente credo che fossero lì senza sapere perché e per che cosa. Le feste si svolgevano nelle tende beduine, cosa che Gheddafi ha sempre apprezzato. Finalmente faccia a faccia con Gheddafi. Nella sua tenda. Sembrava stanco. Alcuni degli argomenti trattati: 1- Socialismo libico; 2- Istruzione; 3- Riforma agraria; 4- Casa 5- Movimento dei non allineati 6- Panarabismo 7- Socialismo cinese, sovietico, cubano; 8- Appoggio ai movimenti rivoluzionari; 9- Che Guevara; 10-Stati Uniti; 11-Brasile; 12-Liberazione della donna 13-Reincarnazione di Omar Moukhtar. L’intervista, che avrebbe dovuto essere di 40 minuti, durò più di due ore e avremmo passato la notte conversando se non fosse stato continuamente sollecitato per altri impegni. Naturalmente il Globo pensò bene che fosse meglio non pubblicarla e metterla in onda, perché avrebbe potuto offendere la dittatura. Fu fatta una proposta per un programma di 15 minuti da mandare in onda su “Fantastico”. Preparammo la riedizione, ma il programma sarebbe stato poi bandito dai censori ufficiali della dittatura (civil-militar-mediatica). Tutta colpa della dittatura. È vero? Oh Dio! O Terrra! Quando ci libereremo di questo sistema marcio?

LA LIBIA CHE HO CONOSCIUTO – Finale Qual è stato il grande errore di Gheddafi? Non ho alcun dubbio. Ha ceduto (si è fidato) all’area euro-americana e ha rinunciato alla sua bomba atomica. I pacifisti mi perdonino. Non si tratta di incoraggiare la produzione di testate nucleari, ma di dissuasione. Il Brasile che trovi il modo e cominci a costruire la sua. In caso contrario, i media brasiliani stessi, associati con l’Impero, faranno di tutto perchè il paese sia invaso e occupato. Gheddafi non è diventato ricco, come i produttori di petrolio del Golfo Persico. Ha ripartito la ricchezza del paese con la popolazione. Supportato tutti i movimenti rivoluzionari di sinistra nel mondo. Anche i brasiliani. In nessun momento ha dimenticato la popolazione nera dell’Africa. Né il Sud Africa, dove, in segno di gratitudine, un nipote di Nelson Mandela si chiama Gheddafi. Quando Nelson Mandela divenne il primo presidente del Sud Africa nel 1994, 49

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l’allora Presidente USA Bill Clinton fece di tutto per fermare Mandela per la quasi quotidiana gratitudine a Gheddafi per il suo appoggio alla lotta dei rivoluzionari africani. “Coloro che sono irritati della nostra amicizia con il Presidente Gheddafi può fare un salto in piscina”, disse Mandela. Il presidente Yoweri Museveni dell’Uganda ha detto che “qualunque siano stati i difetti di Gheddafi, è stato un vero nazionalista. Preferisco i nazionalisti ai burattini nelle mani di interessi stranieri.” E ancora: “Gheddafi ha dato un contributo importante alla Libia, all’Africa e al Terzo Mondo. Dobbiamo ricordare che, come parte di questo visione di indipendenza, ha cacciato le basi militari britanniche e statunitensi dalla Libia dopo la presa del potere”. Inoltre, l’ex leader libico ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’Unione africana (UA). Il coordinatore principale della guerra contro la Libia, Hillary Clinton è andata in Africa predicando apertamente l’omicidio di Muammar Gheddafi. Siccome non c’è riuscita, ha cominciato a reclutare mercenari. Sono stati proprio questi mercenari, tra cui gli squadroni della morte provenienti dalla Colombia, che hanno combattuto in Libia. E questi terroristi non sono stati ovviamente decimati dal Nord Atlantic Terrorist Organization (NATO) e degli Stati Uniti. Per chi ha voglia di fare qualche ricerca, quando Gheddafi nazionalizzò le compagnie petrolifere e le banche, i media occidentali si riferivano a lui come il “Che Guevara arabo”. Prima di essere deposto e linciato dai mercenari sotto il comando dei terroristi della NATO e degli Stati Uniti, la Libia aveva il più alto tasso di sviluppo umano in Africa, e comunque superiore a quella del Brasile. In pochi sanno che nel 2007 ha inaugurato il più grande sistema di irrigazione del mondo. Ha trasformato il deserto (95% della Libia) in fattorie per la produzione di alimenti. Cosi ché quando salì al potere chi tra i libici voleva produrre cibo riceveva terra, attrezzature, sementi e 50.000 dollari per sopravvivere fino al primo raccolto. Fu una riforma agraria totale e senza restrizioni. Egli si è prodigato anche per la creazione degli Stati Uniti d’Africa (USA) a rivaleggiare con gli Stati Uniti (d’America) e con l’Unione europea. Ha combattuto per unificare l’Africa: “Vogliamo truppe africane a difendere l’Africa. Vogliamo una moneta unica. Noi vogliamo un passaporto africano.” Purtroppo dimenticò la bomba atomica. E ha pagato per questo. Le nazioni che vogliono emanciparsi, dovranno rifletterci.

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