Felici sono le pietre

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A cura di Bruna Cantaluppi e Giuliana Lacrimini



FELICI SONO LE PIETRE Il dolore vissuto e raccontato

A cura di Bruna Cantaluppi e Giuliana Lacrimini



Perché una pietra scaldata dal sole e bagnata dalla pioggia sembra senza mutamento. Ma anche la pietra più dura prima o poi si spacca e diventa coppa che accoglie e conserva al suo interno il calore del sole, l’acqua che l’ha levigata, i colori dei metalli come quelli dell’arcobaleno. Ma ci chiediamo mai se siamo felici?

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-4-


Prefazione di Maria Teresa Abignente1 Non si parla mai abbastanza del dolore: una sorta di strano pudore ci vieta di parlarne o forse, il più delle volte, l'evitare di far cadere il discorso sul dolore rappresenta un modo per tenerlo lontano, per distanziarlo ed esorcizzare così la paura che ne abbiamo. Eppure, i bambini ce lo insegnano, il modo migliore per vincere le nostre paure è quello di farci amicizia, avvicinandoci piano piano, con tremore, magari sostenuti da qualcuno in cui abbiamo fiducia: mano nella mano. Questo libro fa così: ci accompagna nelle stanze buie del dolore un poco alla volta, ci aiuta a masticare il suo boccone amaro e ci introduce alla sua inevitabile presenza. Ma è anche vero che avvertiamo con impotenza che non abbiamo parole per il dolore, che tutto il vocabolario e il lessico che ci appartiene non bastano a poter dire quel che proviamo quando stiamo soffrendo, così come non bastano a sollevare chi in quel momento sta vivendo un dolore: sarà per questo che al dolore si addice il silenzio, o la poesia. 1

Maria Teresa Abignente, medico e collaboratrice della Fraternità di Romena. -5-


Succede stranamente quel che accade per l'amore, quando avvertiamo che, per poterlo descrivere, le parole non sono sufficienti. Forse perché l'uno e l'altro sono le due dimensioni umane più vicine al mistero, alle quali solo ai poeti è dato approssimarsi. I versi dei poeti sono pieni di dolore e di amore: senza il dolore non ci sarebbero poesie.

"È il nostro dolore che ci segna, quello che ha un nome e un cognome", davanti al dolore non possiamo scappare o fingere: possiamo solo restare e accettare che ci scolpisca. Che ci trasformi. "Il dolore rivela chi siamo e lo rende evidente prima di tutto a noi stessi, ci permette di conoscerci meglio, stupendoci di questa scoperta." Possiamo far finta che non esista finché non ci tocca, ma una volta entrato nella nostra vita, dobbiamo attraversarlo tutto, come si attraversa un ponte sospeso tra due rive, senza sapere dove e se arriveremo. Bisogna riaggiustarsi, trovare nuove fondamenta, altri gesti, darsi un nuovo ordine. Bisogna cercare di trovare un nuovo equilibrio, imparando a fare a meno di tutti quei sostegni che fino ad allora ci avevano sostenuto, a volte capovolgendo le nostre priorit{. Sgomenti di fronte all’inesorabilit{ di quel che ci è -6-


successo, tanto sgomenti da guardare con avvilita meraviglia il futuro che comunque sta in attesa, come se non meritassimo più alcun futuro o il futuro non meritasse più noi. Ma attraversare il dolore può portare la stessa sorpresa di un naufragio perché ci mette in contatto con nuove risorse, che erano in noi e non sapevamo di avere, perché ci fa raggiungere sponde inaspettate. Solo a posteriori capiremo cosa ci ha lasciato tra le mani il dolore, solo quando la sua onda

spaventosa

lasciandoci

ci

spossati

avrà e

accompagnato

stremati,

sulla

intuiremo

riva,

quanto

profondamente ci ha lavorato, affinato, impastato. Ci costringe a crescere, il dolore. "Non sono state solo le parole a darci la possibilità di comprendere, ma quanto le persone ci hanno trasmesso attraverso una comunicazione non verbale, che ha accompagnato le parole pronunciate. Proprio queste estensioni ci sono state fondamentali e necessarie, hanno aggiunto colore, sapore e significato al dialogo. Così hanno sovente accompagnato l’ascolto attimi di silenzio, sospiri, a volte lacrime che non sarà facile tradurre nella nostra elaborazione". -7-


Ecco perché è tanto prezioso questo libro: non è solo il racconto di chi sta vivendo un dolore, non è solo l'interpretazione rigorosa di un questionario. È un cuore a cuore. Qualcuno, forse un poeta, ha definito le lacrime "parole liquide": la carta di questo libro è impastata di lacrime, ma anche di ciò che viene dopo le lacrime. Quella trasparenza e pulizia degli occhi che solo il pianto sa dare, quella nebbia che si alza e fa sembrare tutto più nitido e vero. Libro prezioso questo, che ci porta, in fondo, alla scoperta della vita nella sua interezza, abbracciando anche quel momento in cui tutte le nostre ragioni e le nostre apparenze evaporano di fronte alla nuda

verità, alla sua terribile,

meravigliosa e feroce semplicità. Ma quando la si guarda dritto negli occhi la vita ci restituisce sempre un miracolo.

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SOMMARIO Prefazione DI MARIA TERESA ABIGNENTE

5

Premessa Perché nasce un’associazione di volontariato?

13

DI ANGIOLO AGNOLUCCI

La vita degli altri

20

DI EDGARDO MARIA IOZIA

Buone pratiche di umanità. Il significato del volontariato e della comunità a fianco del Sistema sanitario DI MARZIA SANDRONI

Il dolore: accogliere, dar voce, dar senso DI ERIKA FRASCONI

Introduzione DI BRUNA CANTALUPPI

L’intervista qualitativa e l’introduzione del questionario DI BRUNA CANTALUPPI

ANDATA E RITORNO. Il contratto di comunicazione

24 28

41

45 51

DI BRUNA CANTALUPPI

56


Le domande DI BRUNA CANTALUPPI

1 Chi siamo noi di fronte al dolore

56 60

DI BRUNA CANTALUPPI

2 Il dolore raccontato

75

DI BRUNA CANTALUPPI

3 Il dolore in pi첫

86

DI BRUNA CANTALUPPI

4 Ascolta come mi batte forte il tuo cuore DI BRUNA CANTALUPPI

Il vissuto del dolore

98

110

DI GIULIANA LACRIMINI

Conclusioni Il senso della sofferenza DI GIULIANA LACRIMINI

Riflessioni

117

122

DI BRUNA CANTALUPPI

Appendice

126

Chi siamo

Ringraziamenti

131


- 12 -


Premessa Perché nasce un’associazione di volontariato? di Angiolo Agnolucci2

Ognuno ha motivazioni personali, radici culturali o religiose diverse che portano le persone ad aiutare il prossimo in varia misura e a vari livelli. Nella società odierna, il volontariato è in grado di aiutare le istituzioni a superare alcune difficoltà di tipo gestionale, apportando il loro aiuto a fini di assistenza. Molti sono i campi di interesse a cui il volontariato si rivolge, come situazioni di disagio sociale o recupero di patrimoni culturali,

tuttavia

ciò

che

lo

contraddistingue

è

l’orientamento solidale dell’azione esercitata “in aiuto” di persone o di collettività in condizioni di disagio culturale, ambientale e soprattutto sociale. Questo particolare approccio abilita naturalmente i volontari e le loro organizzazioni ad essere autorevoli interpreti di queste realtà bisognose ed affidabili operatori ed animatori per la costruzione della giustizia sociale. 2

Angiolo Agnolucci, medico chirurgo e Presidente Associazione A.V.A.D.. - 13 -


Valori fondanti del Volontariato sono la gratuit{ dell’azione, la condivisione e la solidariet{, perché al centro dell’azione del volontario c’è sempre l’altro che è in difficolt{. Ciò consegna al Volontario un ruolo politico, ma apartitico, che

risulta

fondamentale,

perché

costui

partecipa

attivamente ai processi della vita sociale, promuovendo un sistema di uguaglianza sostanziale. Infatti, con il suo esempio, insegna agli altri e fa scuola di solidarietà, tanto necessaria nel nostro contemporaneo. Il Volontario ha anche una funzione culturale importante, ponendosi come coscienza critica di valori come la non violenza, la libertà, la legalità, la tolleranza, la qualità della vita e la crescita dei beni comuni. Al contempo, al Volontariato sono richiesti ascolto, professionalità, tempestività e vicinanza. Il volontariato, infatti, deve essere coinvolto in modo concretamente partecipativo nella logica progettuale, formativa e tecnica, in concerto con gli altri attori istituzionali, perché con il suo impulso e le sue motivazioni è utile e necessario al territorio, grazie all’autonomia con cui si muove, alleggerito nei procedimenti burocratici e sciolto da ogni colore politico,

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grazie alla snellezza delle prestazioni e alla carica idealistica che apporta nel costruire una società solidale. AVAD (associazione volontari assistenza domiciliare) nasce nel 1996 dall’incontro tra la sensibilit{ di privati cittadini e alcuni operatori sanitari. Si rivolge a persone affette da patologie oncologiche o degenerative, oppure con disabilità grave, di qualsiasi età, che risiedono presso il proprio domicilio. L’intervento dell’Associazione non prevede compiti specifici di assistenza infermieristica o medica, ma rivolge la sua attenzione alla famiglia, nella gestione delle indispensabili

attività

quotidiane,

come

le

pratiche

burocratiche necessarie per l’assistenza al familiare, la compagnia e l’ascolto sia del malato che dei familiari stessi. L’obiettivo principale è quello di contrastare l’isolamento, trovando gesti e parole per accompagnare e sostenere le persone sofferenti e i loro familiari e cercando di contribuire a superare le dinamiche di esclusione e solitudine in cui spesso incorrono le famiglie che stanno vivendo la malattia, lunga e invalidante, di un congiunto. Il nostro contributo viene svolto principalmente presso il domicilio della persona, in accordo e collaborazione con la famiglia e con altri operatori eventualmente presenti - 15 -


(infermieri, assistenti sociali, volontari di altre associazioni, ecc.). AVAD si occupa poi dello studio, della promozione, dell’organizzazione

e

dell’attuazione

delle

forme

di

assistenza domiciliare diretta ad alleviare il dolore, a migliorare

la

situazione

ambientale,

adattandola

eventualmente alla nuova condizione di vita delle persone bisognose. AVAD è iscritta all’Albo regionale del volontariato e, durante questi anni, ha tessuto una fitta rete di collaborazione con le altre realtà presenti nel territorio aretino che si occupano di assistenza e di promozione della cultura del volontariato, inoltre affiancando la ASL8, in particolare il reparto di oncologia e il progetto SCUDO. L’intervento dell’associazione non è di tipo infermieristico, ma è rivolto all’aiuto umano nei confronti del malato e della sua famiglia donando loro sollievo e un utile sostegno, spirituale e pratico. I volontari entrano nelle case degli assistiti senza intrusione e, con comprensione ed empatia, riducono l’isolamento sociale che rischia di affliggere la loro vita.

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Il processo di deospedalizzazione dei malati terminali e cronici e le veloci dimissioni dagli ospedali continueranno a pesare sempre più sulle famiglie e sul territorio. Questo processo di appesantimento chiama quindi in causa il volontariato che non si sottrae al coinvolgimento nella relazione d’aiuto e nella responsabilità che gli viene sollecitata dalla comunità. Assistiamo

oggi

al

diffondersi

della

cultura

della

domiciliarizzazione per volontà dei malati e dei loro familiari di risiedere nel loro ambiente naturale, essendo noti i benefici che ne derivano sulla salute, sul benessere psicologico e sull’integrazione sociale. Questo tuttavia trascina difficoltà pratiche e logistiche che i volontari AVAD con il loro operato tendono ad arginare. AVAD si propone tra i suoi obiettivi quello di accompagnare il malato cronico e i suoi cari nella nuova condizione di vita, evitando l’isolamento che si andrebbe a sommare al gi{ presente ed inevitabile dolore. AVAD sostiene che un malato inguaribile non è incurabile e che il tempo a loro dedicato sia prezioso per preservarne la dignità e migliorarne, con le azioni di assistenza e sostegno, la qualità di vita. - 17 -


A questo si arriva superando il concetto “dal guarire al prendersi cura”, secondo una concezione olistica che tiene conto dell’individuo nel suo insieme e non della sola malattia, considerando anche il suo ambientee soprattutto la sua famiglia, perché la qualità della vita è in funzione della capacità della persona e si basa su elementi quali la famiglia, le risposte del Servizio Sanitario, la tecnologia e l’ambiente di vita. Tutti possono diventare Volontari AVAD, partecipando ad un corso di formazione iniziale e prendendo parte a continui aggiornamenti, ma, poiché il servizio che sono chiamati a compiere è spesso denso di momenti emotivi, gli stessi Volontari hanno la supervisione da parte di una Psicologa per verificare il loro corretto inserimento nella famiglia e per essere stimolati a ripensare al loro rapporto con la persona assistita e la sua famiglia.. Uno dei compiti fondamentali di AVAD è diffondere la cultura della relazione d’aiuto, a sostegno di tale obiettivo, il lavoro di ricerca svolto sulla definizione del dolore che affligge, quel “dolore totale” che comprende oltre che menomazioni fisiche anche aspetti emotivi, sociali, familiari,

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personali ed economici, avvalora e sostiene il compito sociale di cui ci prendiamo cura.

- 19 -


La vita degli altri di Edgardo Maria Iozia3 In questa breve premessa ripropongo una riflessione, già ampliamente

dibattuta

in

ambito

internazionale,

riguardante il tema del dolore, della sua percezione e della necessità di non considerarlo più solo come espressione naturale di sofferenza. Il panorama epidemiologico globale si presenta oggi caratterizzato prevalentemente da condizioni croniche stabilizzate, principalmente

croniche da

degenerative,

fattori

eziologici

determinate connessi

a

disuguaglianze sociali. Tali presupposti richiedono interventi mirati alla gestione di una condizione, piuttosto che alla risoluzione di una patologia. Attualmente, le risposte elaborate muovono nella direzione del superamento di una logica

prestazionale,

a

vantaggio

di

un’assistenza

continuativa e prolungata nel tempo (long term care); prevedono, quindi, percorsi unici e integrati fra interventi di carattere sanitario “formale” – erogati dai servizi sociali – e

3

Edgardo Maria Iozia, Segretario Nazionale UILCA, Presidente Fondazione Prosolidar. - 20 -


interventi di carattere “informale”, resi possibili dalla rete di relazioni familiari e/o di vicinato della persona. La crisi determinata da tale panorama della patologia e del disagio

costituisce una chiave verso

il

mutamento

dell’assistenza. Di assoluto rilievo è la necessit{ di articolare strategie terapeutiche e assistenziali, travalicanti i limiti delle istituzioni sanitarie, che muovano verso la ricerca di una migliore qualità della vita e che siano postulate in connessione al contesto domiciliare. Un simile cambiamento obbliga, dunque, a un ripensamento delle modalità di presa in carico del paziente, dal momento che la specializzazione delle professionalità mediche ha spesso impedito un approccio sistemico alla persona, un’attenzione alla sue esperienza di vita e di sofferenza, alla sua personalit{ e all’ambito sociale. In molti casi, infatti, non vi è una reale possibilità di ripristino di una salute intesa come “il silenzio degli organi” e dunque di un intervento strettamente medico che sia in grado di risolvendosi nella prestazione.

Le

condizioni

cronico

degenerative,

la

multiproblematicità che spesso le accompagna impongono un ripensamento del concetto di salute nel momento in cui

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si sono evidentemente modificate le caratteristiche della presa in carico del paziente. È qui che il lavoro di AVAD e il suo percorso metodologico ha particolare merito proprio per il suo impegno nell’assistenza domiciliare dove l’importanza dell’ascolto, dei bisogni assistenziali di diversa natura del malato e della famiglia trovano una connessione diretta con le implicazioni socioeconomiche e i numerosi altri aspetti comprendenti la buona comunicazione familiare, l’associazionismo, il buon rapporto con l’equipe terapeutica, la buona accettazione della malattia la partecipazione attiva alla vita: “La vita degli altri” titolo del progetto da noi finanziato. La Fondazione Prosolidar, infatti, ha immediatamente ritenuto opportuno supportare un’organizzazione come A.V.A.D non solo per il suo impegno “di metodo” riguardo l’assistenza domiciliare, ma per il paradigma tramite cui si approccia

al

concetto

del

dolore

vissuto,

alla

rappresentazione della sofferenza ben lontano da un atteggiamento di misconoscimento e di sottovalutazione verso il dolore, ancora purtroppo ampiamente condiviso entro i contesti di cura. Il dolore del corpo che resta un oggetto universalmente opaco, chiuso nel corpo, viene - 22 -


accolto dalle attivitĂ di A.V.A.D e analizzato per mezzo di codici espressivi individuali che mostrano il continuo lavorio dei modelli culturali, partecipanti alla disposizione di forme, classificazioni e metafore.

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Buone pratiche di umanità. Il significato del volontariato e della comunità a fianco del Sistema sanitario. di Marzia Sandroni4 Il volontario? "è come la sentinella del mattino che ogni giorno ci ricorda la nostra vocazione alla gratuità", qualunque sia il nostro ruolo in ospedale o nel territorio. E colui che ha scelto la relazione come habitus, che ha compreso come nell'altro, nella reciprocit{ del “dare-avere” è la vera dimensione della felicità, e porta questa sua felicità in ospedale, sì in ospedale perché l'ospedale è un luogo pieno di poveri, di indigenti, non poveri di beni, ma poveri come dimensione umana di solitudine, di paura; poveri di certezze, poveri di salute. Come si dice “finché c'è la salute..." beh quando siamo in ospedale la salute non c'è. E allora un ambiente gradevole, un sorriso, una carezza, la vicinanza, possono aiutare a non scomparire, a non annichilirsi, a sentirsi considerati, amati, potenzialmente ancora vivi, sostenendo così i percorsi di cura. Ed il volontario porta lì suo sorriso, la sua esperienza, tutti i

4

Marzia Sandroni, Responsabile Comunicazione e Marketing etico ASL8 Arezzo. - 24 -


giorni, non perché cerca di colmare il suo tempo ma perché è colmo di vita, una vita che alimenta virtuosamente donando la sua vita agli altri. Il bene che il volontariato porta nel Sistema non è un bene misurabile in termine di tempo o di risorse, di assistenza o di servizi, ma il bene che il volontario porta è ancor prima un bene simbolico, il volontario è ovunque ma ancor più in ospedale, lievito di umanità, valore imprescindibile nella nostra attività di cura, ed il suo ruolo non è solo e semplicemente di supporto pratico e complementare a quanto il sistema dovrebbe garantire, ma la sua presenza innerva il sistema stesso di nuova linfa, di valori sociali, di pratiche collettive che restituiscono significato e orgoglio al nostro ruolo di garanti e produttori di un bene comune qual'è la salute. E allora ben venga un nuovo, inedito modo di considerare il sistema sanitario come sistema in cui il volontariato, per quello che rappresenta, ancor prima che per quello che dà, diventa parte integrante della risposta di salute che il Sistema deve offrire. Questa scelta di rimettere nelle mani della comunità, accanto ai medici e agli altri professionisti, la salute, il benessere psicofisico delle persone ha anche un valore - 25 -


paradigmatico, significa coscienza della vulnerabilità di un Sistema fatto da una somma di individui specializzati e ricerca del rafforzamento di legami sociali, di una dimensione comunitaria che ci aiuti a superare l'empasse del momento

e

che

potremmo

scoprire

molto

più

rappresentativa, appassionante e meno faticosa. Significa coraggio e affidamento reciproco: la solidarietà che diventa un'impresa collettiva, un contrafforte al Sistema altrimenti non più in grado né tecnicamente né umanamente di sostenere un approccio universalistico che continui a garantire, nella continua riduzione delle risorse economiche a disposizione, tutto a tutti, la salute come “diritto fondamentale dell'individuo”. Allora se è da una parte è imprescindibile una dimensione tecnicistica nella gestione del sistema salute, un attento lavoro di revisione dei percorsi di cura, di ottimizzazione delle risorse, di razionalizzazione dei processi produttivi, di ricerca e innovazione, dall’altra occorre ripensare le risposte di salute come risposte corali offerte da una rete a maglie larghe dove più soggetti del territorio che hanno a cuore l'altro, che hanno compreso che l'isolamento uccide mentre

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la relazione vivifica, diventano una garanzia per la collettività. Così può davvero consolidarsi quel “territorio forte” a cui fa riferimento la programmazione di ambito sanitario: un territorio fatto sì di Distretti socio sanitari, di Case della salute, di medici di famiglia e pediatri, di Punti Insieme per le risposte “sociali” integrate con i Comuni, ma dove questi punti capillari sono dei nodi che non possono prescindere da un tessuto sociale, da una trama ben delineata dal Sistema sanitario che accoglie un ordito, puntualmente stretto dagli altri attori della comunità disposti ad investire per una società e per una sanità sempre più equa umana e sostenibile.

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Il dolore: accogliere, dar voce, dar senso di Erika Frasconi5 Quando ho piantato il mio dolore nel campo della pazienza, mi ha dato il frutto della felicità. (K. Gibran)

Parlare di dolore si presenta come un compito semplice e complesso al tempo stesso. Quella del dolore è, infatti, un’esperienza talmente inevitabile ed universale da aver, da sempre, interrogato il pensiero dell'uomo, stimolando la riflessione filosofica, teologica, scientifica ed ispirando innumerevoli opere artistiche. Basti pensare alla produzione Leopardiana o ai romanzi di Primo Levi, alla poetica di Alda Merini o di Sergio Corazzini, oppure raffigurarsi l’immagine de “L’Urlo” di Munch, della “Pietà” di Michelangelo o dell’“Angelo del Dolore” di Wetmore Story. Lo stesso tema del dolore si incarna, caratterizzandoli, in personaggi letterari, biblici e mitologici, dai dannati Danteschi alle Trioane di Euripide, dalla figura di Giobbe, che patisce le varie prove cui Satana 5

Erika Frasconi: Psicologa, Psicoterapeuta - Centro Studi Psicologia Sistemica Arezzo/Cortona. - 28 -


lo sottopone, fino al mito nordico di Nanna, che muore di dolore alla vista del cadavere del marito Baldr. In effetti, se per dolore si intende, d’impatto, il sintomo di un danno fisico, tutti sappiamo come esso sia anche, talvolta soprattutto, un’esperienza intensa e straziante dell’animo, che spesso si accompagna a sentimenti di vuoto, perdita, rabbia, impotenza e molto altro ancora. Se il dolore, da un lato, viene considerato un fondamentale meccanismo di adattamento, utile a segnalare l’insorgere di un pericolo, può divenire esso stesso una malattia, qualora persista nonostante la guarigione del problema fisico, così come può dotarsi di un significato evolutivo, spingendo chi lo patisce a contrastarlo, a reagire, a superare, così, i propri limiti. Gli antichi Greci, che ambivano alla felicità quale scopo dell’agire umano, consideravano il dolore uno stato della coscienza da eliminare attraverso la meditazione filosofica o il superamento delle passioni. Platone, che identifica il piacere con l’armonia, fa corrispondere al dolore la condizione in cui tale armonia viene meno, mentre secondo il pensiero Aristotelico, che identifica il piacere come uno stato naturale, il dolore rappresenta, invece, tutto ciò che è forzato, contro natura, imposto. Di opposta concezione il - 29 -


pensiero di Schopenhauer, che, secoli dopo, teorizzò come la vita stessa fosse dolore: questo è un dato primario, mentre il piacere è solo una funzione da esso derivante. La riflessione sul tema della sofferenza si colloca, inevitabilmente, all’interno del messaggio religioso. Il termine “âlam” (dolore) compare una sola volta nel Corano, l’islamismo, infatti, non concepisce la sofferenza quale mezzo di redenzione della condizione umana: la vita è, in sé, sacra e perfetta, poiché creata da Allah, per questo il fedele deve evitare eccessi nocivi per il corpo e inutili sofferenze. Secondo la dottrina Buddista, invece, il dolore è elemento determinante e caratteristico della vita degli uomini, tanto che proprio nell’estinzione di esso risiede l’apice della felicità, ovvero il raggiungimento del Nirvana. Ma è soprattutto nella tradizione cristiana, che esprime in Gesù l’esempio più alto della virtù redentrice della sofferenza, che il dolore, inteso come messa alla prova da parte della dimensione divina, assume un ruolo centrale, divenendo mezzo di purificazione ed elevazione morale. Con le parole di Papa Bergoglio: «il dolore non è una virtù per se stesso, però sì, può essere virtuoso il modo in cui si vive».

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In psicologia il dolore, sia esso inteso come sintomo fisico o come tormento psichico, tende spesso a rappresentare il motivo per il quale un soggetto si trovi a chiedere aiuto. Attualmente risultano classificati tre disturbi della sfera psicologica che considerano il dolore somatico: il disturbo di conversione, il disturbo di somatizzazione e il disturbo da dolore somatoforme; accanto ai quali si colloca l’ampia gamma dei cosiddetti “dolori dell’animo”, i cui sintomi si manifestano, cioè, nell’interiorit{ del soggetto. Tra questi occupa certamente una posizione di rilievo il dolore connesso all’esperienza del lutto, oggetto di riflessione, tra gli altri, di S. Freud in “Lutto e Melanconia” e di J. Bowlby, che per primo descrisse le quattro fasi utili all’elaborazione (stordimento, struggimento, disperazione e ridefinizione), fino agli studi della psichiatra svizzera E. Kübler Ross, interessati proprio alla ricerca di modalità utili ad

affrontare

la

sofferenza

psichica

legata

all’accompagnamento alla morte. Ma, in sostanza, cosa è il dolore? Secondo la definizione dell’International Association for the Study of Pain, il dolore è “una spiacevole esperienza sensoriale ed emotiva associata a un danno tissutale, attuale o potenziale”. In tale enunciazione - 31 -


si riconosce, dunque, la valenza soggettiva e personale che caratterizza l’esperienza del dolore: esso viene determinato non solo dalle modificazioni conseguenti ad un danno fisico, ma anche dall’interpretazione personale di quanto il danno sia, o potrebbe essere, lesivo. Il dolore è, in effetti, esperienza soggettiva per eccellenza, nella quale si verifica una profonda fusione fra il corpo e la mente, in una complessa

combinazione

tra

percezioni

sensoriali

e

componenti cognitive, affettive e relazionali. All’interno della pratica medica il dolore viene, innanzitutto, percepito come espressione di una sofferenza in atto, è questo un sintomo, un prezioso indizio per la formulazione della diagnosi. Non a caso i “Progetti Ospedale Senza Dolore”, iniziati su tutto il territorio nazionale, hanno l’obiettivo di inserire la valutazione del dolore nella cartella clinica, al pari di altri parametri vitali. Diventa dunque fondamentale la capacità di classificazione, lettura e misurazione, che, tuttavia, essendo il dolore un’esperienza personale e soggettiva, non può prescindere dalla parte esperienziale, dal vissuto individuale. Per questo, a oggi non si parla di “misurazione” del dolore, ma di “valutazione” dello stesso, andando a includere nella rilevazione tutte le - 32 -


componenti dell’esperienza dolorosa e le interazioni tra loro. A questo proposito, risulta emblematico il titolo dell’articolo

del

medico

chiropratico

Turk:

“Valuta

l’individuo, non soltanto il dolore”. Tradizionalmente, in medicina si distingue un dolore di tipo acuto, a inizio recente e durata limitata, da un dolore definito cronico, ovvero che tende a protrarsi al di là del tempo di guarigione previsto. Il dolore cronico può perdurare infinitamente, in questo caso si denomina Dolore Non Trattabile, andando a trasformarsi in una malattia a se stante, divenendo cioè sindrome e non più sintomo. In molti casi il dolore cronico è legato alle forme tumorali, prendendo il nome di Dolore Cronico Oncologico, il quale, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, tende ad assumere le caratteristiche di "dolore globale" o “dolore totale”, secondo la definizione di Cicely Saunders, medico britannico fondatrice dei moderni Hospice. Come indicato dalla stessa definizione, questo particolare tipo di dolore tende a influire, in modo molteplice e totalizzante, sul livello di sofferenza di chi ne è portatore, andando a investire varie componenti: fisica, psicologica, economico-sociale ed esistenziale-spirituale. I soggetti - 33 -


costretti a vivere quest’atroce tipo di esperienza si trovano dunque a patire un’ampia gamma di sofferenze, dai disturbi dell’alimentazione e del sonno al calo delle funzioni cognitive (attenzione, memoria, capacità di pianificazione), con

limitazioni

nell’autonomia,

diminuzione

della

funzionalità lavorativa e modificazioni nella sfera sociale e relazionale,

che

spesso

oscillano

dalla

tendenza

all’isolamento all’opposta ricerca di continua vicinanza e attenzione. Infinita è la gamma delle coloriture emotive che può accompagnare questa esperienza: tristezza, rabbia, colpa, rassegnazione, paura, delusione e molto altro, al variare delle singole personalità, fasi e contesti. La percezione del proprio corpo, inoltre, diviene un’esperienza fortemente negativa: con le parole di Salvatore Natoli, filosofo teoretico presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Universit{ degli Studi di Milano “nel dolore il corpo cessa di essere un’apertura verso il mondo ma diviene una barriera verso il mondo”. In effetti, la malattia e, soprattutto, la sofferenza fisica da essa derivante, tendono a provocare un cambiamento del vissuto corporeo: il corpo in quanto malato e generatore di dolore diviene così un qualcosa di estraneo, di minaccioso, di deforme ed inabile, - 34 -


tale da evocare sentimenti di perdita, dipendenza, bruttezza e rifiuto. Accade poi che, spesso, tutto ciò si accompagni a perdita di fiducia e speranza: tali e tante sofferenze vengono vissute come inutili, fino alla percezione, talvolta al desiderio, dell’imminenza della morte. Quella del dolore è dunque un’esperienza estremamente complessa che, nell’innescarsi di circuiti di rinforzo reciproco tra componenti corporee e psicologiche, genera vissuti tipici e, talvolta, psicopatologie correlate: se il dolore acuto risulta influenzato da ansia anticipatoria e paura, che ne amplificano la percezione, il dolore cronico risulta, invece, fortemente correlato alla presenza di disturbi dell’umore, spesso dello spettro depressivo, ma anche a disturbi d’ansia e disturbi dell’adattamento. Numerosi studi testimoniano come il dolore sia un problema sanitario estremamente importante: le statistiche che evidenziano l’entit{ del fenomeno dimostrano il fortissimo impatto negativo per i singoli, ma anche i relativi costi, sociali ed economici, da questo derivanti. Tutto ciò impone un impegno, etico e governativo, teso ad alleviarne l’incidenza.

A

tal

proposito,

lo

Stato

italiano

ha

recentemente sancito il diritto di accesso alle cure palliative - 35 -


e alla terapia del dolore attraverso la Legge n.38/2010, mentre il decalogo dei diritti del malato stilato durante lo “Ieo Day 2013”, appuntamento annuale dell'Istituto Europeo di Oncologia, indica al diritto n. 9 proprio quello di “non soffrire”. Restano, tuttavia, ancora molti i nodi da sciogliere e le problematiche da affrontare, dalla

concreta

applicazione della legge, ancora eccessivamente disomogenea nel territorio, ai temi del controllo del dolore in et{ pediatrica e dell’accesso ai farmaci controllati (oppioidi, sedativi e stimolanti), fino al dibattito riguardante testamento biologico ed eutanasia. Servirebbero, poi, maggiori azioni ed investimenti tesi a potenziare gli interventi di domiciliazione, a valorizzare percorsi di supporto psicologico, sia al malato che al sistema familiare, a sviluppare ed ottimizzare la sempre più preziosa rete del volontariato. Ma, fermo restando l’impegno della collettivit{, cosa può fare il singolo di fronte al proprio ed altrui dolore? Se, infatti, è indubbiamente difficile vivere in prima persona il dolore, risulta altrettanto, talvolta molto più arduo, stare accanto a chi soffre, in una dinamica di vissuti empatici e di identificazioni,

proiezioni

e - 36 -

rispecchiamenti

reciproci.


Ancora con le parole di Salvatore Natoli: “Il vissuto doloroso è esperienza solo di chi soffre, ma di fronte ad una qualsiasi sofferenza irrompe, tremenda, la possibilità di soffrire; da qui la tresca, il sentirsi in un certo senso tutti coinvolti, il colloquio senza parole tra i segnati dal dolore (paziente) e i candidati possibili (infermieri, medici, familiari)”. Di fronte all’ingrato compito del contatto con la sofferenza, sia la ricerca sia i dati derivanti dall’esperienza suggeriscono tre

azioni,

all’apparenza

banali,

sostanzialmente

complicatissime: accogliere il dolore; dar voce al dolore; dar senso al dolore. Accogliere il dolore non significa rassegnarsi a una passiva accentazione,

tantomeno

negarne

l’esistenza

o

la

profondità. Accogliere il dolore presuppone la pazienza, la fermezza e il coraggio di prendere atto di ciò che sta accadendo, per quanto difficile e ingiusto sia, e di accettarlo. È dunque un atto di consapevole e responsabile tolleranza, un “venire a patti” con la sofferenza in modo tale da non soccombere alla stessa e, quando possibile, da attivarsi per alleviarla. Dar voce al dolore vuol dire ascoltarsi, o ascoltare, riconoscendo in primo luogo la legittimità a soffrire ed a - 37 -


lamentarsi. Significa, dunque, permettere, senza pietismi né giudizi, la libera espressione di angosce, dubbi, speranze, delusioni o desideri e delle varie emozioni a questi connesse. Uscire dal silenzio, oltre ad aprire le possibilità riflessive ed elaborative, aumenta la soglia di tolleranza, riduce il senso d’isolamento ed evita che sia il linguaggio del corpo a esprimere, con ulteriore dolore, la sofferenza che non sia stata verbalizzata. È importante ricordare come, nell’ascolto dell’altro, risulti fondamentale il semplice esserci, fornendo presenza, vicinanza e comprensione, senza aspettativa di conclusioni o soluzioni alcune. Infine,

dar

senso

al

dolore,

ovvero

comprenderlo,

attribuendo allo stesso una motivazione ed un significato attraverso i quali risulti possibile collocarlo all’interno del vissuto globale della propria esperienza. Dare un senso al dolore significa, quindi, intraprendere un percorso interiore di ricerca, poco importa che sia storico, spirituale, filosofico, agnostico o altro, a patto che sia in grado di fornire un “perché?” tale da giungere a nuove attribuzioni di valori, priorità, obiettivi e, talvolta, ad una nuova definizione di se stessi.

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Perché, inevitabilmente, il dolore limita. Ma, oltre a limitare, “de-limita”, ovvero mette in contatto con i propri confini, con le frontiere delle proprie risorse fisiche, emotive e relazionali. E, così facendo, può spingere ad andare oltre. Il dolore, infatti, pone una sfida: vincerla significa scoprire caratteristiche e risorse di sé, o di chi ci sta vicino, fino a quel momento ignote. Come ammonisce Paolo Maurensig ne “La variante di Lunemburg”, tre sono i precetti dell’uomo di fronte alla sofferenza: “Tu non arrecherai dolore. Tu fuggirai il dolore. Tu imparerai dal dolore ”.

- 39 -


- 40 -


Introduzione di Bruna Cantaluppi6 “Il dolore non è altro che la sorpresa di non conoscerci.” (Alda Merini)

Sono i poeti a trovare le parole per descrivere la realtà esprimendo ciò che si vive e si sente, oppure le parole a volte ingannano o come dice Calvino ne “Le città invisibili”: l’inganno non è nel discorso ma nelle cose. Forse l’inganno sta nel non osservare il quotidiano scorrere della nostra presenza sociale come un’intricata trama di persone, istituzioni, eventi, emozioni, azioni e reazioni che trasmettono, a chi non si lascia tentare da pregiudizi o stereotipi, l’immagine di una realt{ che solo ci appartiene perché tocca nel nostro intimo più profondo quanta difficoltà ci sia non a riconoscerla ma ad accettarla. Quando abbiamo pensato e progettato questo lavoro di interviste sul dolore, ci siamo trovate a discutere sull’obiettivo di questa indagine, su quanta energia ci sarebbe occorsa non solo nell’ascoltare le storie che le persone incontrate ci hanno regalato e su quanta fatica ci 6

Bruna Cantaluppi, esperta in politiche sociali, formazione e progettazione. Si occupa da sempre di volontariato. È volontaria dell’Associazione A.V.A.D. - 41 -


sarebbe voluta per entrare in queste storie. Il tradurle in un’esperienza, senza alcuna presunzione, utile per la conoscenza di una parte di noi tutti, nascosta e intimamente privata, è stato compito impegnativo. L’incontro con le “storie” è stato un momento di incontro con le solitudini sociali ed esistenziali di quei momenti della vita in cui ci si sente e si è soli. Le persone che abbiamo incontrato, a qualunque ruolo appartengano, in relazione a quanto avevamo indicato come categorie possibili (operatori, volontari, famiglie, volontari) hanno

espresso

la

loro

personale

interpretazione

dell’esperienza legata al dolore. Non è facile prendere “la giusta distanza” dal proprio vissuto, e non ci è sembrato strano che le minori difficoltà si siano presentate nell’incontro con le persone malate che hanno aperto il loro cuore e il loro pensiero, assolutamente disponibili ad utilizzare questo spazio come momento in cui potevano esprimersi senza mezzi termini, senza remore, in un tempo interamente a loro dedicato. Abbiamo capito che essere ascoltati sull’esperienza del dolore non è così scontato, abbiamo percepito la distanza tra chi vive il dolore su di se e chi invece a diverso titolo si trova coinvolto. Abbiamo - 42 -


incontrato la difficoltà di operatori e familiari a confrontarsi sul dolore come esperienza presente nella vita, l’esprimere il proprio vissuto senza tenere conto della richiesta di legare al proprio ruolo la visione del dolore. Del resto come dimostrano studi e ricerche è il nostro dolore che ci segna, quello che ha un nome e un cognome e non è per mancanza di sensibilità o di attenzione che i grandi dolori (guerre, epidemie, catastrofi) sembrerebbero colpirci in maniera minore o sicuramente in modo assolutamente diverso. Non vuole essere un giudizio ma la constatazione di una realtà dove il privato sembra essere più importante di quanto coinvolge la comunità, il “mio” dolore è prima di tutto un fatto privato e individuale e abitando il proprio dolore si impara ad accogliere il dolore “altro da noi”. Non sono state solo le parole a darci la possibilità di comprendere, ma quanto le persone ci hanno trasmesso attraverso una comunicazione non verbale, che ha accompagnato le parole pronunciate. Proprio queste estensioni ci sono state fondamentali e necessarie, hanno aggiunto colore, sapore e significato al dialogo. Così hanno sovente accompagnato l’ascolto attimi di silenzio, sospiri, a volte lacrime che non sarà facile tradurre nella nostra - 43 -


elaborazione. La ricchezza di questo lavoro collettivo, ci ha permesso di condividere una parte di esperienze, un viaggio nell’umano che ci ha reso piÚ aperti e attenti alla qualità della vita.

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L’intervista qualitativa e la scelta del questionario di Bruna Cantaluppi L’intervista nella ricerca sociale, viene utilizzata per la raccolta

informazioni

di

prima

mano,

situazioni,

comportamenti, testimonianze, opinioni, che riguardano il fenomeno o la questione che si intende indagare. Non

è

certo

l’unico

strumento,

basti

pensare

all’osservazione partecipata o no, allo studio di documenti, all’analisi della conversazione, alla sociologia visuale con cui spesso agisce in sinergia. Rappresenta quindi uno degli strumenti per raccogliere le informazioni che sono utili a fondare empiricamente le nostre riflessioni è cioè uno dei modi che abbiamo a disposizione per guardare ciò che si intende studiare. L’intervista è dunque uno dei principali “attrezzi” che abbiamo a disposizione ed è un termine-concetto non privo di ambiguità semantico e carico di una complessità tipologica interna non sempre esplicitata. Il termine “intervista” rimanda nell’immediato all’atto dell’interrogazione, all’azione del chiedere qualcosa a qualcuno. Nella nostra indagine il tipo di intervista che abbiamo scelto di utilizzare e che presenta il grado minimo - 45 -


di strutturazione è l’intervista semistrutturata, la cui traccia si limita a definire una serie di domande aperte, sempre nello stesso ordine per tutti, che lanciano uno stimolo al quale l’intervistato è libero di rispondere come crede. In pratica è un’intervista che prevede un insieme fisso e ordinato di domande aperte. Con l’intervista semistrutturata siamo nell’ambito nonstandard, dove seppure sia presente una traccia fissa che prevede le stesse domande per tutti gli intervistati, la conduzione

dell’intervista

può

pretendere

variazioni

dipendenti dalle risposte date e dunque dalla singola situazione, dal singolo soggetto intervistato. Dunque in questo tipo di intervista entrano in gioco le peculiarità di ciascuna situazione di intervista. Ogni intervistato, lasciato relativamente libero di esprimere le proprie opinioni, atteggiamenti, è abilitato a dirigere, insieme a chi l’interroga, l’intervista. Alcune precisazioni in merito alle modalità di conduzione. La standardizzazione e la direttività, sono caratteristiche la cui declinazione contribuisce a costruire la situazione di intervista e sono anche in una relazione circolare tra l’impianto teorico-epistemologico dal quale l’intero disegno - 46 -


di ricerca parte e i fini conoscitivi che ne discendono. Così, un’intervista sar{ pensata e messa in opera in modo più o meno standardizzato, più o meno direttivo in funzione sia del paradigma di riferimento al quale si lega sia del tipo di conoscenza che in relazione a questo s’intende acquisire. Conosciamo come un’intervista può essere condotta, attraverso

un’interazione

faccia

a

faccia

(quando

intervistato e intervistatore si incontrano di persona) per via telefonica, per via postale e come più recentemente in uso, per

via

telematica.

Ciascuna

modalità

presenta

caratteristiche e problematiche del tutto peculiari, che non intendiamo prendere in esame, abbiamo scelto comunque di avvalerci del faccia a faccia, che dal punto di vista del metodo garantisce il massimo grado di fiducia rispetto alle informazioni raccolte. Quindi l’intervista qualitativa è una conversazione in cui un ricercatore guida gentilmente un partner conversazionale in una discussione estesa. Durante la

conversazione,

il

ricercatore

cerca

di

ottenere

informazioni approfondite e dettagliate sul tema proposto chiedendo all’intervistato di precisare le sue risposte. L’obiettivo delle interviste è elaborare una spiegazione coerente mettendo insieme ciò che persone diverse hanno - 47 -


detto, riconoscendo allo stesso tempo che ogni intervistato può

avere

una

versione

diversa

degli

eventi.

Le

interpretazioni individuali non sono considerate giuste o sbagliate in se stesse, ma sono viste come modi di analizzare da angoli diversi il tema proposto. Il questionario, quale strumento direttivo e standardizzato per eccellenza, è la griglia di intervista che presenta, dal punto di vista della classificazione, il minor grado di ambiguit{. L’utilizzo di questo termine, infatti, rimanda a un insieme di domande, in prevalenza e più spesso esclusivamente chiuse, in cui è stabilito un ordine fisso delle interrogazioni e che esaurisce in sé i contenuti della rilevazione e dunque gli ambiti conoscitivi della ricerca. Inserito in un disegno della ricerca costruito ex ante, lavora dentro una relazione strutturata tra il quadro teorico di partenza e il percorso di ricerca. Nel nostro caso abbiamo scelto di proporre solo domande aperte, L’individuazione dell’universo di riferimento, ossia tutte

le

persone

che

teoricamente

si

vorrebbero

intervistare, ci ha imposto una scelta non facile, considerato l’alto numero delle persone appartenenti alle categorie presenti sul territorio comunque rappresentativi.

- 48 -


In questo caso abbiamo selezionato per l’intervista individui particolarmente ricchi di informazioni sul tema di studio, centrali rispetto al problema esaminato, critici per gli scopi della nostra indagine. Abbiamo chiamato queste persone testimoni o informatori chiave. L’espressione ne descrive la duplice funzione: fornire la chiave per entrare nel mondo che si vuole esplorare, e vista la loro centralità rispetto al tema, fornire importanti informazioni per la comprensione del tema stesso, perché quello che ci interessa è la testimonianza delle persone che nei diversi ruoli hanno incontrato il tema del dolore, partendo dal presupposto che il dolore appartiene ad ognuno

di

noi

come

un’esperienza

assolutamente

personale. Le cento interviste sono state così suddivise: Percentuale degli intervistati/e

19%

Operatori 30%

Volontari Famiglie

25% 26%

Malati

- 49 -


Sesso degli intervistati/e

34%

maschi femmine

66%

Tra le variabili è sembrato interessante tener conto della diversità delle risposte tra uomini e donne intervistati. La differenza di genere fornisce sullo stesso tema punti di vista diversi per linguaggio, sensibilità e vissuto, a volte meno politicamente ideologico ma più concreto, poiché mette in evidenza come i percorsi di crescita e di socializzazione degli uomini e delle donne all’interno di un determinato contesto sociale, avvengono in modo diverso strutturando di conseguenza

valori,

motivazioni,

comportamenti diversi.

- 50 -

atteggiamenti

e


ANDATA E RITORNO. Il contratto di comunicazione. Di Bruna Cantaluppi

I termini “comunicare” e “comunicazione”, derivano dal latino, gli antichi romani usavano il verbo “communicare” e il nome “communicatio” per intendere il concetto di “mettere in comune”. Che cosa mettiamo “in comune” quando comunichiamo? Certamente le parole, la varietà delle parole, il produrre ed ascoltare parole, ma non solo, esprimiamo la nostra competenza linguistica, l’uso delle esclamazioni, delle cadenze e degli accenti e i gesti e la postura, l’interazione con l’ambiente esterno, e non meno importante la distanza interpersonale, lo spazio fisico che ci separa dalla persona con cui stiamo comunicando. Comunicare è saper curare le relazioni e le relazioni sono la base del nostro vivere sociale. Una relazione acquista la forza dell’accordo quando a un’andata si creano le condizioni perché ci sia un ritorno. L’insieme di andata e ritorno crea le condizioni favorevoli - 51 -


per la relazione. Partecipata, bilaterale, vitale. (Pino De Sario- Buone Parole ed. Millelire Stampa alternativa). Comunicazione, ascolto attivo e relazione sono la base dell’attivit{ che svolgiamo come volontari, partendo dall’esprimere le motivazioni per cui si è scelto di aderire a questa Associazione, che nel suo specifico ha nella relazione d’aiuto il fondamento delle proprie attivit{. Ascoltare non vuol dire solo raccogliere stimoli sonori, ma vuol dire anche rielaborarli per comprenderli, possibilmente senza farci influenzare da filtri emotivi e mentali (aspettative, stigma, rapporti personale o situazioni personali, valori culturali e/o religiosi, ecc.) o da filtri esterni (rumori, movimenti, paura, preoccupazione, noia, occhiali scuri, ecc.). UDIRE è un ATTO FISICO Ascoltare è un’azione INTELLETTUALE ed EMOTIVA. Nella comunicazione è fondamentale saper ascoltare, in altre parole essere centrati sull’interlocutore e sulle sue esigenze, ma non basta, occorre qualcosa di diverso: “Bisogna saper ascoltare attivamente”. - 52 -


L’ascolto attivo è un’abilit{ comunicativa che si basa sull’empatia e sull’accettazione, sulla creazione di un rapporto positivo e di un clima non giudicante. L’ascolto attivo permette di apprendere informazioni non evidenti e segnali deboli, come potrebbero essere quelli emessi attraverso il linguaggio del corpo, e fornisce alla persona la prova (feedback) che chi gli sta di fronte lo capisce. Per praticare l’ascolto attivo occorre seguire questo percorso: •

Silenzio

domande aperte

Riformulazione

Domande di precisione

Incoraggiamento

Riassunto.

Quest’ultima fase comprende l’analisi di ciò su cui si è d’accordo, su cui non si è d’accordo e su quanto resta da affrontare nella discussione. Per diventare ’’attivo’’, l’ascolto deve essere aperto e disponibile non solo verso l’altro e quello che dice, ma anche

- 53 -


verso se stessi, per ascoltare le proprie reazioni, per essere consapevole dei limiti del proprio punto di vista e per accettare il non sapere e la difficoltà di non capire. I principali elementi che caratterizzano una buona attività di ascolto, sono:  Sospendere

i

giudizi

di

valore

e

l’urgenza

classificatoria. (Cercare di non definire a priori il proprio

interlocutore

o

quanto

egli

dice

in

tutte

le

’’categorie’’ di senso note e codificate).  Osservare

ed

ascoltare

(raccogliere

informazioni necessarie sulla situazione contingente, ricordando che il silenzio aiuta a capire e che il vero ascolto è sempre nuovo, non è mai definito in anticipo perché rinuncia ad un sapere già acquisito).  Mettersi nei panni dell’altro - dimostrare empatia (tentare di assumere il punto di vista del proprio interlocutore e condividere, per quello che è umanamente possibile, le sensazioni dell’altro).  Verificare la comprensione (ci riferiamo sia ai contenuti sia alla relazione, riassumere ciò che è stato appena detto, riservandosi la possibilità di fare - 54 -


domande aperte per agevolare l’esposizione altrui e migliorare la propria comprensione).  Curare la logistica (dobbiamo fare attenzione al contesto fisico-spaziale dell’ambiente in cui si svolge la comunicazione per agevolare l’interlocutore e farlo sentire il più possibile a proprio agio). Lo sforzo necessario, per ascoltare attivamente, è quello di spostare l'interesse dal "perché " l'altro dice, interpreta o vive una situazione al "come" la dice: avendo e quindi mostrando interesse e comprensione ("sei importante, ho stima di te e ti riconosco, rispetto e condivido il tuo sentimento"). L’ascolto attivo funziona perché aiuta chi ha il problema a

scaricare

le

emozioni

intense

(allagamento

emozionale) e a elaborare il suo problema in vista di una soluzione. L’Ascolto Attivo è l’abilit{ che meglio riassume le tre caratteristiche

della

relazione

d’aiuto:

empatia,

accettazione, autenticità, per facilitare la soluzione del problema da parte della persona.

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Le domande di Bruna Cantaluppi «Crediamo che a questo punto ci siano pochi punti cardine nella terapia del dolore intrattabile. Primo, dobbiamo cercare di fare una valutazione il più accurato possibile dei sintomi che tormentano il paziente. Questo non ha il significato di fare una diagnosi e dare un trattamento specifico, perché questo è già stato fatto, ma ha lo scopo di trattare il dolore e tutti gli altri fenomeni, che possono accrescere il generale stato di sofferenza, come fossero una vera e propria malattia ». (Dame Cicely Saunders – Vegliate con me) Così la dottoressa Saunders definiva il dolore totale, come un approccio di cura che riguardasse non solo il male fisico del paziente, ma tutti gli aspetti che contribuivano ad acutizzarlo. La Saunders se ne era resa conto curando i feriti della seconda guerra mondiale. Partendo da qui, aveva sviluppato, attraverso rigoroso studio e osservazione clinica, che se somministrati a intervalli regolari i farmaci antidolorifici potevano dare un estremo beneficio ai pazienti. Ma alla singola terapia medica andava poi aggiunto un concreto sostegno psicologico, sociale e spirituale: questi, assieme alla terapia medica costituiscono i quattro pilastri fondamentali delle cure palliative. Il dolore totale è - 56 -


un concetto cardine delle cure palliative, che occorre conoscere per comprenderne la ricchezza. È un approccio in un certo senso rivoluzionario, in quanto consente di guardare alla persona nella sua totalità. Per

questo

abbiamo

pensato

a

qualcosa

da

chiedere trasversalmente a tutte le persone da intervistare, una domanda di base di carattere filosofico-esistenziale che crediamo cambi la prospettiva fin dall'inizio rispetto al dolore nella nostra vita, qualunque tipo di dolore. La domanda iniziale dell’intervista è: "Tutti gli esseri umani sanno cosa vuol dire soffrire. Per lei, nella sua esperienza personale, che significato ha la sofferenza?" Questa considerazione sta alla base di quanto gli studi sulla "resilienza" (capacità di affrontare situazioni difficili e dolorose) hanno evidenziato. Le persone che ritengono il dolore come parte costituiva dell'esistenza, riescono ad affrontarlo meglio mentre quelle che vivono solo un sentimento di ingiustizia rispetto al dolore, fanno più fatica.

- 57 -


“Nell’esperienza di dolore che ha vissuto c’è qualche situazione che l’ha colpita?” Questa domanda riguarda i diversi punti di vista delle categorie intervistate, il dolore non solo delle persone malate ma anche di chi lavorando in certi contesti incontra il dolore dell’altro (operatori sanitari, sociali, consulenti spirituali, educatori di comunità), le famiglie, i volontari e cerca di individuare cosa ha provocato sofferenza al di là del dolore fisico . “Cosa può essere fatto, secondo lei, per risparmiare un dolore in più?” Tutti siamo fonte di dolore, riflettere su qual è la parte di dolore che si vive in più e su quello che si può in qualche modo evitare (es il senso di colpa è un dolore in più ….) quel dolore che rende più pesante il momento vissuto e che spesso è difficile da comprendere e da accettare, rende più leggero il momento. “Nella sua esperienza chi le è stato vicino, aiutandola a superare ed elaborare il dolore?”

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La domanda rimanda al tema della solidarietà, ma l’esperienza fa riferimento anche a risorse personali che si sono attivate (meditazione, silenzio, letture di esperienze simili…) e si ricollega alla prima domanda, perché è proprio come ci rapportiamo al dolore e alla sofferenza che possiamo essere in grado di attivare le nostre risorse scoprendo quanto siamo in grado personalmente di affrontare e accogliere il dolore e nello stesso tempo di accettare il sostegno di chi ci sta vicino. In genere è interrogando la domanda che si riesce a formulare una risposta, e nessuna riposta può dirsi giusta o sbagliata perché rappresenta il modo di analizzare il tema proposto da diverse angolature, ed è l’espressione della persona che ha acconsentito a comunicarci la sua esperienza.

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1 - CHI SIAMO NOI DAVANTI AL DOLORE di Bruna Cantaluppi Niobe, impietrita dal dolore, guarda i suoi figli trafitti dalle frecce degli dei vendicatori. È una delle molteplici figure dolenti che arte e letteratura hanno raccontato: il dolore rende muti, immobili. Succede ogni giorno a ogni uomo e donna che nel mondo lo incontrano e si fermano a guardarlo, a farlo proprio, con differenti sfumature. Dice il mito che dalla roccia in cui Niobe fu tramutata sgorgò una fonte di acqua chiara e sorgiva. Potremmo tentare un’azzardata interpretazione, l’acqua elemento vitale rende chiaro ciò che di oscuro sta nel nostro cuore, quello che nasce da un evento doloroso che ci fa piombare nel buio. Il dolore rivela chi siamo e lo rende evidente prima di tutto a noi stessi, ci permette di conoscerci meglio, stupendoci di questa scoperta. È utile allora cominciare a fare una distinzione che emerge con evidenza da una prima lettura delle risposte alla prima domanda posta ("Tutti gli esseri umani sanno cosa vuol dire soffrire.

Per

lei,

nella

sua

esperienza

personale,

che significato ha la sofferenza?"). È necessario sottolineare a quale mondo appartengono le persone che abbiamo - 60 -


intervistato. È chiaro che ognuno ha risposto in relazione alla propria esperienza, indipendentemente dal ruolo. Sembrerebbe scontato che sul tema i più coinvolti siano gli operatori sanitari, ma tenendo presente l’universalit{ del dolore si intrecciano nelle risposte, le differenze con la loro ricchezza. Così un infermiere professionale facendo specificatamente riferimento al concetto di salute: “La sofferenza è una condizione di disagio che si può manifestare in una persona.” Mentre per un infermiere professionale di una cooperativa di servizi sanitari: “Si incontra il dolore nella nostra vita così come altri valori ed emozioni.” Per un infermiere professionale di un reparto ospedaliero: “A volte la sofferenza è l’incapacità di reagire alla malattia.” “È significativo che ognuno di noi vede la sofferenza in base al momento attuale della sua vita e a quello che gli capita” dice una logopedista, sottolineando “ la sofferenza di una mamma che si trova davanti la diagnosi di un semplicissimo disturbo di apprendimento

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del suo bambino può essere tanto forte quanto il dolore della perdita di una persona cara.” E un’ostetrica, riflette sul suo lavoro con le madri e i bambini: “Il dolore è un’esperienza faticosa.” Racconta una giovane che soffre di una forma grave di anoressia parlando della sua malattia: “La sofferenza per me è innanzitutto la mancanza d’amore. O meglio non accorgersi di essere amata o comunque non essere amata nella maniera che mi aspettavo. Per questo definisco la mia malattia (DCA)’fame d’amore’, malattia dell’anima anzitutto e poi del corpo e della psiche. Il primo a soffrire è stato il cuore, non ha avuto abbastanza amore, non nel modo che si aspettava e così non l’ha riconosciuto e io ho sempre pensato di essere una persona che valeva nulla, un essere insignificante, inutile, anzi dannoso per chi le stava accanto.” Anche una ragazza bulimica così definisce: “Il dolore è mancanza. Qualsiasi tipo di mancanza.” E un altro malato ci dice: “E’ un percorso di crescita e riflessione. Avevo 19 anni e l’ultima cosa che pensi è che ti succeda qualcosa quindi

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così a bruciapelo direi che la sofferenza è qualcosa che mi ha insegnato.” La volontaria di Donne coraggio e presidente Associazione “Latte di mamma” aggiunge: “Diciamo che è stata una parte importante della mia vita perché mi sono confrontata direttamente nella mia vita e l’ho vista e la vedo negli altri.” Le parole di un giovane volontario: “La sofferenza è un’esperienza di comunità.” E un volontario di A.C.A.T., con un po’ di ironia: “La sofferenza fa parte della vita ed è una componente imprescindibile, anzi la vita senza sofferenza non sarebbe vera vita, senza esagerare se possibile.” Ma è anche : “L’impotenza di non poter fare le cose.” E ancora per un volontario della Misericordia: “Perdere la certezza.” “Io la sofferenza la interpreto a modo mio, magari sono triste dentro ma fuori non lo faccio vedere.” Una psicologa, volontaria di A.I.M.A. (Associazione malati di Alzheimer) cos’ si esprime, anticipando alcune risposte:

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“Nella mia esperienza è la sofferenza dei familiari, perché il malato ha una sofferenza diversa. Come psicologa le situazioni mi affascinano, mi affascina come le persone reagiscono in situazioni difficili e soprattutto a chi chiedono aiuto.” Per alcuni sinteticamente: “Il dolore fa comunque parte della nostra vita.” Si legge in questa risposta la realtà del volontariato come servizio che ha motivazione e formazione: “La sofferenza è prima di tutto non poter dare sollievo, l’impotenza mi rode più di tutto ma l’ho trasformata. C’è la necessità di tentare d fare qualcosa.” Ed è anche il senso del limite e la consapevolezza del proprio ruolo, così una volontaria A.V.A.D.: “Il dolore è un’esperienza che fa parte della nostra vita, nella mia esperienza di volontaria s’incontra il dolore degli altri e non bisogna farsi coinvolgere emotivamente perché diventa inutile allora la presenza.” La madre di una donna adulta non autosufficiente: “La sofferenza è la mia vita, una vita che si consuma psicologicamente oltre che fisicamente. Non ho speranze né prospettive per il futuro. Sono distrutta.” E così la madre di una giovane morta di cancro:

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“La sofferenza la associo al dolore non penso che dalla sofferenza nasca qualcosa di buono, se potessi evitarla, la eviterei, cerco di rimuoverla dalla mente, aspirerei ad una vita priva di dolore e non ritengo che il dolore porti alla catarsi.” Per un giovane uomo affetto da HIV: “Il significato della sofferenza è principalmente dovermi confrontare spesso con i miei familiari che ritengono la mia malattia una colpa che non si può dimenticare e nonostante gli anni questo ci divide.” E il suo compagno: “Diciamo che per me il dolore è nato insieme a noi e nel percorso della nostra vita può essere più o meno intenso. Nella nostra famiglia composta da due uomini e quindi soggetta all’infelicità non nel nostro rapporto ma con gli altri, diciamo che la sofferenza riesco a eluderla con l’amore per il mio compagno.” Le parole di una giovane donna uscita dal coma: “È una violenza forte, quando pensi che non vuoi più essere vivo e pensi che a volte è meglio essere morti, almeno la vita è fatta.” Le parole di una donna che ha perso la propria figlia di 10 anni per una grave malattia: - 65 -


“Con l’elaborazione di oggi penso che soffrire non serve. Non c’è un significato vero e proprio nella sofferenza almeno per me. I cattolici almeno l’affrontano come una prova mandata da Dio, può anche essere un’arma dipende come la usiamo, un’arma di difesa.” E quelle di una madre che ha perso il figlio di 20 anni: “Hai detto che tutti gli esseri umani sanno cosa vuol dire soffrire e questo non è vero. Ti imbatti nel dolore e non sei assolutamente preparata. Nel dolore tuo ci cadi e lo devi gestire, cioè lo devi capire, lo devi accettare, lo devi anche opporre, qui per me c’è una dimensione religiosa, saper accettare il dolore in quanto tale, si accetta come pena come risultato della nostra pochezza di genere umano, del fatto di essere limitati, è una condizione che ci accomuna. Però quando ti ci imbatti lo devi proprio masticare, vivere, non dico accettare , ci devi convivere, poi se sei bravo lo valorizzi . Io sono una persona di fede, senza troppe pretese, ma la fede è una dimensione in più che forse ti aiuta a vedere questa dimensione alla luce della Croce, insomma è la Croce che ci deve appartenere.” Una giovane donna parla della perdita del fidanzato: “La sofferenza fa parte della vita come tutti i sentimenti positivi o negativi. Il dolore comprende la rabbia, l’insicurezza, l’impotenza. Inizialmente si manifesta come rabbia, che deve essere sfogata esternamente,

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seguita da una riflessione dolorosa che ti permette di capire. Soffrire per un motivo serio porta una persona a capire qual è il senso della vita a dare il giusto peso alle cose. Tutti soffrono, ma le sofferenze sono per lo più per cose futili e di fronte a un caso più grave ti senti veramente stupida. Le piccole sofferenze ti permettono di prepararti al dolore vero. I dolori rimangono insieme a ciò che ci insegnano ma la quotidianità ti porta a dimenticarle momentaneamente. Le sofferenze vengono quando ti fissi troppo nelle cose.” E un malato più volte operato al cuore sottolinea: “Il dolore è una condizione particolare della vita. L’esperienza del dolore va a modellare la modalità di affrontare le successive situazioni di sofferenza.” E ancora rileva un volontario che presta la propria opera in RSA: “Ti permette di condividere esperienze, superando i tuoi limiti e scoprendo capacità che non sapevi di avere.” “Accorcia le distanze con l’altro, aumentano i contatti, i bisogni sono condivisi.” Un marito si riferisce all’esperienza della grave malattia della moglie: “Io non piango tutto il giorno, essere cinico mi ha aiutato e mi aiuta a superare il dolore, quando uno ha

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un dolore fortissimo mette in moto delle molecole dei vaccini che uno negli anni ha fatto. Sa io sono un cinico.” La moglie di un uomo gravemente malato: “La sofferenza, uno crede che crolli il mondo. Dopo piano piano ti abitui, per forza, diventa un peso comune, di tutti i giorni e ci stai, vai avanti. E’ dura, dura, sempre più dura però vai avanti.” Un uomo colpito nella sua vita dalla perdita di persone care: “Le gioie, i dolori, la morte, la vita fanno parte del ciclo naturale. Morire è un mio diritto non ci rinuncerei.” Una madre la cui figlia è morta di tumore: “La sofferenza, il dolore fano parte della nostra vita come altre emozioni e sentimenti: la gioia, la rabia, l’amore, la felicità, l’invidia e anche l’indifferenza. La sofferenza è un fatto soggettivo non tutti la sentiamo in ugual modo, dipende dal contesto in cui siamo vissuti e anche dall’età. Nella mia famiglia il dolore, la morte sono state vissute come un evento naturale a cui anche noi ragazzi partecipavamo. La sofferenza mi ha lasciato un segno, sia la mia sia quella degli altri. E dal dolore si impara molto, è un’esperienza che fa crescere e pensare ai valori della vita, quelli veri, si impara ad apprezzare cose che prima avevamo sorvolato. Il dolore della perdita ad esempio ha reso più forte la mia memoria, il ricordo e la consapevolezza del mio vissuto.” - 68 -


Ma una giovane volontaria del Banco alimentare così si sente: “La sofferenza mi lascia inerme e disperata. Sento la sproporzione tra il mio piccolo gesto e il bisogno di chi assisto.” Con molti punti in comune pur nella differenza per molti medici: “Il dolore è vedere tante persone, anche giovani, lottare contro la malattia ed essere debilitate dalla terapia che si somministra nella speranza di una guarigione”, così si esprime un medico del centro oncologico. Per un medico di un altro reparto ospedaliero: “La sofferenza è non essere compresi a 360°, non essere compresi dagli altri ma anche non farsi comprendere. La sofferenza fa parte della nostra vita, capita di essere felici, capita di soffrire. Ci devi convivere.” Il pensiero di un medico di base: “Il dolore ci porta alla mente un estremo senso di disagio e sofferenza, bisogna pensare ai meccanismi evolutivi che hanno fatto sì che si sviluppasse, nello stesso modo in cui si sono sviluppati vista, udito, olfatto. Il dolore è stato “costruito” dal processo evolutivo in quanto utile all’uomo per reagire di fronte alle avversità, per chiedersi il perché delle cose, per

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migliorarsi sia come individuo che come specie. Questo non significa che il dolore ci deve lasciare indifferenti, in quanto “utile” e l’utilità sta proprio nell’affinare le nostre capacità nel superarlo.” Condiviso anche da una volontaria di “Vivere insieme in Casentino” che si occupa di disagio mentale: “Premetto che attribuisco una differenza fra i termini sofferenza e dolore, per quanto siano molto simili. La premessa è utile, in quanto in parte diversa da significato abituale de due concetti e della loro interpretazione. Semplificando il dolore per me è uno stato critico più o meno forte, a livello fisico, psichico, spirituale, spesso complementari tra loro. La sofferenza è il mio vissuto personale della condizione “dolorosa”. Lo stato di sofferenza è la risposta individuale della concezione dolorosa, determinata da diversità caratteriali, educazione, cultura, senso religioso, esperienze, situazioni vissute, relazioni. La risposta, anche nella stessa persona, non è però univoca e non sempre si presenta allo stesso modo. La sofferenza è per me l’abbandono nel dolore, ineluttabile e senza via d’uscita.” Precisa un neuropsichiatra: “Il dolore è la rottura di un equilibrio o di un presunto equilibrio”. Ma è anche, per uno psichiatra del servizio pubblico: - 70 -


“La possibilità di raccontare il mio limite personale e di essere, di insegnarmi l’accettazione, di dare senso alla socialità.” La diversa formazione degli operatori ci permette di avere una varietà di risposte, le cui sfaccettature compongono un quadro di grande ricchezza umana. Così un docente di storia e filosofia descrive la sua esperienza: “La sofferenza è la distanza tra ciò che realmente accade in corrispondenza alle aspettative che una persona ha. Nell’insegnamento il tema del dolore è affrontato con i ragazzi partendo dal punto di vista culturale in modo da poter sviluppare un pensiero individuale. La storia e la filosofia trattano lo sviluppo dell’umanità che avviene attraverso il dolore, questo dà la possibilità di renderci responsabili. Nel dolore ci muori o ci cresci.” L’educatrice di una comunit{ per minori così racconta il suo punto di vista: “La sofferenza e il dolore sono inevitabili nella vita delle persone. L’essere umano ha dei desideri e si pone delle domande, per arrivare a rispondere a queste affronta un percorso che porta a situazioni emotive, a volte difficili da sopportare. Il dolore che ti arrecano le situazioni sono il peso della sfida da sostenere.” - 71 -


Non ci è sembrato fuori contesto quello che racconta una giovane tatuatrice: “Il dolore è un canale differente per rapportarsi alla quotidianità. Con un tatuaggio non si vuole eliminare la sofferenza ma imprimerla in modo indelebile sulla pelle.” Una donna operata al seno: “I periodi di sofferenza servono per farti dare un senso alla vita, più è forte il dolore provato più viene posta l’attenzione sul legame rispetto alla cosa o alla persona che è relazionata alla tua sofferenza.” La testimonianza di alcune figure religiose risponde a quella parte di dolore legato all’aspetto spirituale. La suora di un centro di riabilitazione: “La gente che soffre ha bisogno di dare un senso alla sofferenza. Quando sai che hai qualcuno a cui rivolgerti, che ti conosce e che continua ad esserci sempre anche se non lo vedi.” L’interpretazione di un testimone di Geova: “C’è tanta sofferenza perché stiamo vivendo “negli ultimi giorni”; gli essere umani non sono in grado di porre fine alla sofferenza, l’unica soluzione è rivolgersi al nostro Creatore che ha promesso di distruggere le opere

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di Satana. Le promesse contenute nella Bibbia, la parola di Dio, sono l’unica salvezza.” E le parole di un sacerdote cattolico, cappellano del carcere: “Credo che la sofferenza faccia parte della vita, ma che sia una misura personale. C’è un a sofferenza” inutile”, dannosa quindi da combattere e una sofferenza “utile” che è quella finalizzata e dedicata ad uno scopo che non è sofferenza ma impegno.” Così come le parole di un volontario del CEIS, credente: “Io la sofferenza l’ho sempre affrontata molto bene, io sono credente e mi aggrappo alla forza che mi ha dato la religione, il credere.” Ma per un volontario UNITALSI: “E’ un confronto faticoso con aspetti d te stesso.” Una persona disabile dalla nascita: “Per me la sofferenza è ambivalente, da un lato il dolore fisico, l’altro lato è un tipo di dolore che metto tra virgolette che si chiama solitudine, mi mancano le esperienze che fanno i normodotati. A questo disagio andando avanti uno si abitua, si fortifica.” Un malato di tumore così dice: “La sofferenza è una cosa bruttissima, ma nello stesso tempo quando poi uno riesce a superarla e ad accetarla se ne esce anche più forti. Per me è stata una rinascita.” - 73 -


Mentre per un altro volontario della Misericordia: “La sofferenza è un momento di unione particolare tra due persone.” Il familiare di una donna malata: “La sofferenza è ogni cosa spiacevole che succede, che al momento ti annienta, ti disintegra. Però dopo ti dà una specie di forza, una forza in più e alla fine, se le cose passano, apprezzi il sereno che è ritornato. Ti guardi indietro e ti sorprendi di cosa sei riuscito a superare ti domandi come è venuto fuori tutto questo coraggio, quel coraggio che ti da una situazione del genere.”

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2 - IL DOLORE RACCONTATO di Bruna Cantaluppi Il racconto del dolore vissuto è una parte di vita di uomini e donne, che hanno aperto il loro cuore, ci hanno permesso di conoscere e di condividere le loro esperienze . Potremo qui definirle le mille facce del dolore, con le proprie intensità, le sfumature sottili che ci permettono di capire gli eventi, le situazioni di ogni persona. Ci sono spesso nel racconto giudizi sull’operato delle persone che si sono incontrate nelle varie situazioni, in particolare in ospedale. Sacerdote cattolico: “Mi hanno colpito le situazioni in cui ho incontrato persone arrabbiate con se stesse e con la vita, rassegnate a star male e convinte che è normale stare male.” Volontario UNITALSI: “Le condizioni fisiche dell’ammalato. Diamo troppo per scontato che il nostro corpo debba sempre funzionare bene.” La madre di una donna disabile:

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“Mi colpisce la realtà di tutti i giorni: andare avanti e portare a fondo mia figlia. Me ne prendo cura da sola, sono preoccupata di lasciare mia figlia sola, se dovessi morire, quello che mi colpisce di più è la paura del domani, non per me ma per lei.” Un ragazzo disabile: “Mi fa soffrire sentirmi trattato da persona diversa.” Operatore di strada Associazione D.O.G: “Le esperienze più forti sono legate al progetto sulla tratta, lì incontro il dolore delle famiglie lacerate, cocci che non si mettono più insieme. Nell’ambito dei ragazzi che incontro in strada (soprattutto chi fa uso di sostanze) quando maturano il problema si rendono conto che non torneranno ad essere normali e la frase che spesso mi dicono è mi aiuti ad essere normale.” La madre di una giovane donna morta di tumore: “Nell’esperienza di dolore che ho vissuto, la malattia e la morte di mia figlia, ci sono state situazioni che mi hanno colpito in positivo e in negativo. Parlo di eventi che per me sono stati significativi. Mi ha colpito il sostegno e la condivisione che è venuta da persone che non pensavo particolarmente coinvolte e che invece si sono dimostrate capaci di starci molto vicine, purtroppo mi - 76 -


ha colpito l’incapacità di altre, ma forse non si dovrebbe dare niente per scontato.” Volontaria Banco alimentare: “Una cosa che mi chiedo spesso è come sia possibile che certe persone, famiglie vengano provate di continuo da dolori, come se una prova gravissima già non bastasse. Sento un gran senso di ingiustizia che cerco di affrontare muovendomi io per prima come posso.” Volontario ACAT: “Nel Club tutte le storie si assomigliano, la sofferenza di una persona diventa la sofferenza di un intero nucleo familiare, soprattutto se c’è dipendenza alcoolcorrelata (cioè alcool, uso di sostanze e di farmaci) cioè una dipendenza patologica e i familiari hanno una percezione della sofferenza più del diretto interessato perché chi vive il problema sta in un altro mondo.” La moglie di un uomo gravemente malato: “Ti crolla tutto addosso e ti senti, magari anche dai medici, per niente considerata.” La madre di una bambina morta a 10 anni per malattia:

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“Io ho fatto uscire tutta la mia forza per portare avanti una situazione così difficile, anche con freddezza visto che si trattava di una bambina, ed era mia figlia. Appunto visto che si trattava di una bambina, mi ricordo bene l’indelicatezza di alcune persone, dei medici, il non avere attenzione per la sua età. La mancanza di sensibilità per il dolore dell’altro, non puoi perdere la sensibilità anche se fai il medico e devi essere distaccato.” La figlia di un uomo stomizzato: “Gli urli e i lamenti per un dolore che non spiegava mai, sentire il dolore degli altri e non poter fare niente.” Volontario Misericordia: “Nell’attività dell’Associazione ne ho vissute tante che non saprei sceglierne una in particolare. Ma ogni volta che vedo un genitore che sopravvive al proprio figlio, scorgo nei suoi occhi IL DOLORE, con la maiuscola perché è veramente il più grande.” Il marito di una giovane donna per diverso tempo in coma: “Si mi ha colpito la negatività, in questa esperienza mi sono trovato solo.” Un uomo sieropositivo:

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“In famiglia la mia omosessualità è preminente rispetto alla malattia. Voglio dire che loro sono più felici che sia malato di quanto lo siano della mia omosessualità. Questo è un dolore profondo che non supero in nessun modo. Pensavo di avere due genitori intelligenti che potevano capire e accettarmi per quello che sono senza pregiudizi. Un’esperienza che ricordo ancora oggi a distanza di anni è un ricovero alle malattie infettive dove un medico mi disse, davanti a tutti che ciò che avevo me l’ero cercato, non sono più andato in quell’ospedale.” Volontaria ARCI SOLIDARIETÀ: “L’esperienza è sempre individuale e legata alle persone care a cui vorresti sostituirti ma non puoi. E’ la sofferenza degli altri che mi ha colpito, la sofferenza di un’amica che ha dovuto affrontare la malattia e la morte della figlia. Il modo in cui si è rapportata, direi che mi ha colpito la sofferenza di chi sopravvive.” Le parole di una giovane donna uscita dal coma: “Ero alla riabilitazione, non parlavo, c’erano 2 amici (dico amici ma ho capito che non lo erano) mi hanno chiesto ‘come va?’ ma io non riuscivo a rispondere, ad esprimermi allora se ne sono andati e ridevano.” La madre di un ragazzo malato: - 79 -


“ Mi ha colpito in generale la forza e la capacità di reazione soprattutto delle donne, anche nella malattia, cercano soluzioni e continuano a occuparsi della propria famiglia, del quotidiano.” Volontaria AIMA: “Quali sono le situazioni? Ognuna è talmente diversa e colpisce per qualcosa. Mi hanno colpito le situazioni in cui incontro i figli dei genitori con Alzheimer, i figli che si devono prendere cura dei genitori, si invertono i ruoli. Il non riconoscere, le dinamiche che si instaurano, come vengono vissuti i momenti critici. Ma mi colpiscono anche i momenti belli, es. tra coniugi, dove non è venuta meno la tenerezza, l’affetto verso la moglie malata, il dedicarsi a lei, il cercare il contatto, abbracciarla, accarezzarla.” La vedova di un uomo malato di Alzheimer: “Il cambiamento di una persona malata che diventa un’altra completamente diversa. La rassegnazione di mio marito nei confronti della malattia spesso venina esternata con la violenza, sia verso se stesso che verso di me. Ti devi ricordare che non è il suo cervello che ragiona . resti immobile davanti a queste situazioni e sai che non ci sono medicine.” Volontaria AVAD: - 80 -


“In molti anni di volontariato sono molte le situazioni ma direi le cose che mi hanno colpito, non solo la malattia ma anche la povertà, la mancanza di cose necessarie. E poi mi colpisce quando c’è la superficialità, la povertà di relazioni umane.” Una ragazza anoressica ci dice: “Tutte le situazioni in realtà mi hanno colpito. La drammaticità’ degli eventi vissuti, quasi un film.” Una ragazza bulimica: “Il rapporto con la malattia: ti fa star male ma ti serve. Ti aiuta a superare momenti difficili e a mantenere il controllo ma in realtà si crea con essa un rapporto deleterio che ti prosciuga le forze.” Un uomo parla della malattia della moglie: “Vedere che non volevano ricoverare mia moglie fino a quando i suoi globuli bianchi non sono scesi a 700 e poi l’hanno ricoverata. Abbiamo aspettato una giornata intera senza medicine, senza mangiare, è una cosa che non ci sta. Vederla soffrire mi ha causato sofferenza, la terapia del dolore è mancata completamente.” Volontario Associazione ARMONIA:

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“Mi ha colpito una famiglia in particolare perché nonostante le situazioni di grave disagio, non solo economico ma anche di isolamento in cui si trova, ci accoglie sempre con un gran sorriso. La forza di queste persone che non permettono alla sofferenza di coinvolgere altri aspetti della loro vita: non viene meno la gentilezza, la voglia di ricostruire, l’accettazione a trovarsi in una situazione di disagio negativa ma dove c’è ancora la possibilità di cambiare.” Un ragazzo disabile: “Quello che mi colpisce è l’indifferenza degli altri. Mi colpisce molto anche la delusione nelle amicizie, perché magari una persona c’è per un momento, un periodo e poi non capisci come mai è andata via.” Volontaria AVAD: “Qualche anno fa ho assistito una giovane donna malata di tumore. Mi ha colpito il suo coraggio, la sua gioia di vivere, quando stavo con lei facevamo cose normali, giocavamo a carte, le davo lo smalto alle unghie: Mi piaceva anche la disponibilità dei suoi a fidarsi di me che in fondo ero un’estranea che entrava nella loro vita. Ma questa è anche la forza del volontariato.” La figlia di una malata di cancro, deceduta:

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“Penso che il dolore peggiore sia dovuto alle malattie ma penso anche al tradimento emotivo delle persone che ti stanno accanto.” Volontario: “L’esperienza di assistenza alle persone giovanissime, quando sai che si va verso il non ritorno. La prima volta che mi è capitato sono stata quasi 8 mesi senza seguire nessun caso perché non mi sentivo la forza e la lucidità necessarie.” Medico neuropsichiatra: “Comunicare agli altri la diagnosi mi colpisce sempre, ma mi consola perché uno dice tutta una serie di cose da fare, allora quella è la carta da giocare, perché non si sentano abbandonati e sappiano che qualcosa si può fare.” Medico: “Numerose esperienze e ho imparato sostanzialmente sulla mia pelle che onorare il dolore, diciamo così, valorizzarlo, curarlo con tutti i mezzi è una delle missioni più importanti nella vita di un operatore sanitario.” Infermiere professionale coop.va LAMISE:

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“Mi colpisce la solitudine delle persone anziane e le malattie terminali nelle persone giovani, non potrei dire un’esperienza particolare sono tutte ugualmente dolorose.” La madre di un bambino malato: “Sono rimasta particolarmente colpita mortalmente da una persona che in ambito sanitario, quando mio figlio era ricoverato, mi ha detto: ‘se piange adesso… non sa cosa l’aspetta!’ da parte di una donna mi aspettavo che avesse un attimo di sensibilità nei miei confronti.” Psichiatra servizio pubblico: “Mi ha colpito la sua prevedibilità e la sua ineluttabilità. Talvolta la resistenza a comunicarlo e a lenirlo.” Volontario Misericordia: “Nelle situazioni in cui interveniamo spesso dobbiamo stare accanto a persone che vivono un’esperienza di dolore forte. In seguito la persona ricollega la tua figura all’episodio spiacevole che ha vissuto, per questo ti evita e tu rispetti la sua decisione. Quando poi riescono a superare il dolore, tornano a cercarti, a ringraziarti. Questo ritorno non è immediato ma è molto forte, ed è basilare per andare avanti nel nostro lavoro.”

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Medico ospedaliero: “Nella mia esperienza personale mi ha colpito la morte di un amico, non sono uno che riesce a piangere però questo è stato un dolore grande perché improvviso, inaspettato e quando succede non sei abituato. Come medico soffro, ma elaboro. La mia sofferenza è quando devi comunicare una diagnosi pesante a giovani.” Medico di base: “Può essere gratificante per un medico seguire giorno dopo giorno un paziente affetto da un male incurabile che passa gli ultimi giorni della sua vita avvolto in chissà quali pensieri? Eppure non c’è cosa più gratificante che entrare in camera di un paziente terminale e chiedere ‘Come va oggi?’ e sentirsi rispondere ‘Abbastanza bene grazie!’ Non è così raro e non c’è cosa che ti faccia sentire più utile agli altri…”. Parla la madre di un ragazzo che si è suicidato: “Mi hanno colpito persone, conoscenti che hanno invaso la mia privacy, il nostro dolore. Magari non lo facevano con cattiveria, magari volevano solo aiutare ma per me erano sconosciuti, persone che avevo visto poche volte. Insomma non l’ho gradito, mi scocciava essere scortese ma non sapevo se lo facevano per curiosità o per essere utili, insomma mi hanno dato fastidio.” - 85 -


3 – IL DOLORE IN PIÙ di Bruna Cantaluppi Nessuno di noi vorrebbe incontrare il dolore, pur sapendo che solo una sottile soglia separa la felicità dalla sofferenza che arriva inattesa e non cercata. E’ un dolore nascosto quello che si vive in più. Nell’esperienza del dolore le emozioni ci travolgono, ci impediscono di essere razionali, di guardare la realtà e a volte ingrandiscono situazioni, comportamenti, parole a cui si dà un significato che ci fa soffrire di più. Ci carichiamo di sensi di colpa, d’inadeguatezza, ci sentiamo smarriti, ce la prendiamo con tutto il mondo, anche con Dio che non c’entra niente con la nostra sofferenza. Riusciamo a farci più male, perché c’è un momento in cui riusciamo a farci più male, un momento in cui niente ci consola e tutto si fa più pesante. E’ difficile riconoscere il dolore in più, bisogna fermarsi ad ascoltarlo, a capirlo e a volte non basta gridare, pregare, sfogare la rabbia. Ci vuole tempo, ci vuole silenzio, per cercare di trasformare un peso che sembra insopportabile in un’accettazione che renda più leggero questo passaggio della nostra vita. - 86 -


Un sacerdote cattolico: “Aiutarsi ed aiutare gli altri a trovare un’opportunità e un vantaggio, un senso in un avvenimento negativo perché non avrebbe senso un avvenimento senza senso. Questa consapevolezza toglie la rabbia che amplifica la sofferenza.” Un ragazzo sieropositivo, omosessuale: “Se si aumentasse la consapevolezza nelle persone su ciò che comporta non accogliere la sofferenza del prossimo cercando di nasconderla con banalità che non aiutano a superare il dolore, questo è un dolore che si potrebbe evitare.” Una donna malata: “Non c’è niente che può essere fatto secondo me, secondo il mio carattere perché è inutile che ti dica ‘ vedrai, si risolve tutto. Cioè ci credi e non ci credi. Il mio dolore preferisco tenerlo interno a me, neanche ascolto neanche parlarne. A volte ho anche fatto un biglietto con scritto IL DOLORE e l’ho messo dentro una scatolina ma non ci rimane, rimane qui nel cuore.” Operatore di strada: “Non mi viene in mente niente. Solo ascoltare, quando uno riesce a parlare con me, è già abbastanza perché c’è - 87 -


condivisione. Il dolore in più come operatore è per es. leggere sul giornale che dopo l’episodio della rissa in piazza, le istituzioni come vogliono intervenire? Mettendo le telecamere, non pensano alla mediazione, fanno interventi che accrescono la tensione, quando con poco si potrebbe fare meglio. Questo per me è un dolore che potrei evitarmi se si riuscisse a lavorare insieme e intervenire in modo da prevenire e mediare le situazioni. Gli operatori di strada sono operatori invisibili e sono accolti diversamente dalle forze dell’ordine. Basta poco.” Il marito di una donna con grave malattia: “Avere una vena di ottimismo e di speranza.” Per un altro familiare invece: “Non c’è dolore in più, il dolore è uno e quindi dobbiamo sforzarci di non crearne in più sia nei confronti della persona malata che verso noi stessi.” Volontario A.C.A.T.: “Si può evitare di esprimere giudizi sulle persone e sul loro comportamento perché risparmia dolore, perché non sai mai quanto puoi ferire le persone e quindi è sempre meglio mantenersi cauti in questo senso.” Volontaria ARCI SOLIDARIETÀ:

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“Per la sofferenza fisica l’uso dei farmaci e psicoterapie che aiutano a sopportare. Per il dolore dell’anima, aiuto e conforto per non perdere il contatto con la vita. Il dolore in più mi ha fatto provare molta irritazione ( per es. il comportamento delle persone) ma razionalizzavo.” Volontario La valigia dei sorrisi: “Secondo me per risparmiare dolore in più a una persona che soffre, è il contatto fisico, l’abbraccio, tenerlo per mano, le carezze, sono tutte cose che aiutano.” Volontaria AIMA: “Per risparmiare il dolore in più credo sia importante l’aiuto, la capacità di chiedere aiuto, soprattutto alle persone competenti, sapere cosa fare fa soffrire di meno.” La madre di una bambina di 10 anni: “Bisognerebbe essere razionali, rispettando l’umanità dell’altro e gli altri non dovrebbero scaricarti addosso i loro fallimenti, sensi di colpa, inadeguatezze. Non dovrebbero giudicare per non farti vivere un dolore in più. Dovrebbero distaccarsi umanamente e starti accanto non a piangere ma a sostenerti affettivamente.”

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E la figlia di un malato stomatizzato: “ Per me non c’è niente che può essere fatto, perché ti trovi in situazioni in cui soffri, soffri punto e basta.” La moglie di un malato di Alzheimer: “Sostenere la situazione da sola. La morte e la malattia riesci a comprenderle, il diventare un’estranea agli occhi di mio marito , il vederlo dar di matto e non riuscire a fare niente, guardarlo isolarsi, spegnersi e abbruttirsi senza fargli capire di volerlo aiutare, questo è difficile da affrontare.” Volontaria Associazione L’Approdo: “Non mi sono resa conto se ho vissuto un dolore in più, che potevo evitare, non è facile per chi come me ha vissuto tanto dolore.” Volontario Caritas: “Secondo me va curata molto la propria personalità, secondo me va lavorato sempre su se stessi. Lavorare su se stessi.” Volontaria Donne Coraggio: “Parlarne, esprimerlo. Essere presenti, ascoltare, dare suggerimenti, indicare strade diverse fa stare meglio le persone.” - 90 -


La fidanzata di un giovane morto in incidente stradale: “Ascoltare la gente con più esperienza può aiutare a evitare dei dolori in più che evitare il dolore bisognerebbe concentrarsi sugli aspetti positivi, l’energia negativa può essere sfruttata in maniera positiva.” La madre di una giovane donna morta di tumore: “Non è facile capirlo, nel mio caso fino a quando ho preteso da alcune persone un coinvolgimento maggiore nell’esperienza che stavamo vivendo mi sono macerata nell’impossibilità di cambiare la situazione. Era come un’ossessione, poi ho capito che portavo un peso che non era il mio e che non potevo cambiare il comportamento di alcuni che non erano in grado di “essere presenti” come mia figlia ed io avremmo voluto. Nonostante la rabbia mi sono sentita meglio quando in qualche modo ho messo la giusta distanza, ho trovato più equilibrio. Certo fa male perché si capisce che non si ama nello stesso modo.” La madre di una ragazza disabile grave: “Bisogna cercare di essere il più sereno possibile anche se non è facile.” Volontaria A.V.A.D.:

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“Un volontario non deve commiserare e giudicare e nemmeno assecondare chi lo fa. Nell’attività che facciamo non dobbiamo caricarci di sensi di colpa, inadeguatezza perché altrimenti si vive un dolore in più, si porta un peso che fa solo stare male.” Una ragazza bulimica: “Astenersi dal giudicare una persona, i disturbi alimentari sono delle malattie che ti colpiscono corpo e mente e le persone che ne soffrono vanno aiutate, capite, seguite ma non giudicate.” Docente di filosofia: “Le condizioni che arrecano dolore sono personali, non è possibile risparmiare la sofferenza ad una persona. Il dolore non può essere superato da soli nel 90% dei casi, la vicinanza delle persone aiuta. Spesso il dolore dei ragazzi aumenta quando non ricevono una spiegazione, bisogna aiutarli parlando delle cose che non accettano perché l’indifferenza aumenta la sofferenza.” Medico: “Bisogna imparare ad essere un pochino umani. Devi essere anche un po’ psicologo sia del paziente che di te stesso. Bisognerebbe che la medicina fosse affiancata spesso dalla psicologia, che gli psicologi aiutassero

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medici ed infermieri a gestire la malattia, non solo il sofferente ma anche il suo entourage.” Una donna malata, che come psicologa ha lavorato nei servizi psichiatrici pubblici: “Evitare di dire “passerà” o “tirati su” o “reagisci”. Non lasciarci sole a rimuginare sul proprio futuro , a macerarsi nelle proprie angosce.” Operatrice progetto SCUDO: “Come operatore l’abitudine alla sofferenza non ce la fai. Però sicuramente se ti riesce stabilire un rapporto empatico sia con il paziente che con la sua famiglia diventi parte di quella sofferenza. Nel momento in cui si costruisce un rapporto, ti senti di dare quell’appoggio, quella sicurezza e questo fa tanto. E tutti se ne accorgono.” La moglie di un malato grave: “L’accanimento terapeutico, allungare le sofferenze.” Volontaria Associazione Vivere insieme in Casentino: “Contro il dolore fisico (corpo/mente) è necessario e doveroso utilizzare ogni forma di trattamento per attenuarlo. I dolori emotivi/esistenziali possono essere risparmiati almeno in parte tramite comportamenti rispettosi, solidarietà attiva, empatia affettiva e - 93 -


psicologica di chi sta vicino. I due interventi non si escludono, anzi sono quasi sempre correlati.” Infermiere professionale reparto ospedaliero: “La nostra preparazione è il care giver, il prendersi cura. All’Università ci hanno bombardato e molto non solo sulla cura fisica con i farmaci e le medicazioni ma il modo con cui ci si relaziona al paziente, come fare relazione d’aiuto. Spesso non vedo questa attenzione tra i colleghi e i medici, questo atteggiamento non è condiviso, di sostegno psicologico e umano che non è commiserazione. Per questo a volte diventa difficile lavorare, la non condivisione crea un clima pesante, chi si impegna e supporta le persone a volte viene trattato male.” Una donna malata: “L’episodio che mi ha provocato dolore superfluo è stato quando un’infermiera mi ha detto che ero troppo noiosa e mi lamentavo come una vecchia. Quelle parole mi hanno fatto male mi sono sentita giudicata.” Medico psichiatra servizio pubblico: “Non credo che il dolore possa essere risparmiato, credo che nessuno dovrebbe metterlo da parte in una sorta di accantonamento, credo e voglio che il dolore sia

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diminuito, se possibile confortato, attenuato, dedicato a un senso.” Un malato di tumore: “Bisogna essere chiari e trasparenti, questo può evitare un dolore in più.Questo volevo che gli altri fossero con me.” La madre di un ragazzo malato: “Il senso di colpa è quello che ancora molte volte mi riaffiora, poi però di fronte ai lutti mi sento ancora immersa nei sensi di colpa, tipo forse potevo fare di più. Credo quindi che per evitare il senso di colpa non si possa far altro che quando riaffiorano evitare di soffermarcisi.” Psicologa: “Il dolore che ci tocca vivere non so dire se può essere risparmiato, direi che può essere vissuto in maniera diversa quindi anche la possibilità di esprimerlo apertamente senza far paura a chi ti sta intorno che ti vuole sempre efficiente, già la possibilità di esprimere il dolore a qualcuno che lo accolga è fare qualcosa di più. Un qualcosa in più non deve essere occasionale ma ripetuta e proposta da più persone, volontari, familiari, amici.”

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Medico ospedaliero: “Parlare un minuto in più, dedicare ai parenti che a volte non si rendono conto, che manifestano il dolore e il malessere, un po’ più di tempo che non è tempo perso.” Un uomo malato: “Nella mia esperienza avrei sofferto meno se le persone che mi stavano vicino a volte fossero state meno invadenti a riguardo della mia condizione. Molto spesso in questo modo si accentuava il distacco verso la normalità e la sofferenza da sopportare era maggiore.” Il marito di una donna malata di tumore: “Una maggiore organizzazione tanto è vero che non collaborerò più con il CALCIT (Comitato autonomo lotta contro i tumori di Arezzo). Vengono pazienti da tutte le parti ma al suo mantenimento provvedono gli aretini e non ne vedo l’utilità, oggi come oggi sei il primo arrivato e l’ultimo ad essere servito. Un'altra cosa che fa male vedere è la chiusura del Centro oncologico per le festività. Dunque non collaborerò più con il Calcit a meno che non si metta in testa di fare il servizio domiciliare.” Infermiere professionale ASL8:

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“Si può essere fatto tanto. Il fatto di non fare sentire gli ammalati dei numeri perché oggi giorno le nuove generazioni sono andati a staccare l’amore per questo lavoro, cioè gli operatori sanitari non lavorano più, per dire mi piace questo lavoro, ma lo fanno perché così, giusto perché non hanno altro lavoro. Si nota questa differenza tra la vecchia e la nuova generazione, mi dispiace tantissimo. Questo non è un lavoro che si può fare meccanicamente.” La madre di un ragazzo morto suicida: “Dolore che potevo evitare? La mia è stata una cosa così imprevista che non saprei rispondere. Lui ha fatto tutto da solo.” Una ragazza immigrata: “Quando sei straniera, tutto ti è estraneo, la lingua, il sistema, la presenza del dolore è costante. A volte vieni trattato male quando invece hai bisogno di aiuto. Nella mia esperienza alla malattia di mia figlia si aggiungeva il fatto di sentirmi sola, lontana dal mio paese, dai miei affetti.”

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4 – ASCOLTA COME MI BATTE FORTE IL TUO CUORE di Bruna Cantaluppi Sono i versi di Wislava Szymboroska che ci accompagnano in questo viaggio dove la scoperta e il racconto del dolore ci fanno vedere le opportunità che abbiamo davanti. Ci insegnano a leggere, a guardare ad ascoltare quanto ci viene in aiuto da altri e quanto noi riusciamo “ a tirare fuori” dalla nostra potenzialità nascosta, facendo di silenzi, gesti, parole una forza che non conoscevamo e che ogni volta ci stupisce. Ognuno a suo modo, con i suoi tempi. “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore” è l’ascolto dell’altro che è dentro di noi, che si ascolta in silenzio, oppure si fa finta di non sentire ma è lì e non possiamo in alcun modo cancellarlo, è un segno come la cicatrice di una ferita. Il dolore ci segna e come tutte le ferite si cerca la guarigione, consapevoli che comunque il segno rimarr{ a ricordarcelo. E’ con questo che dobbiamo fare i conti, con una ferita che anche quando guarisce resta comunque impressa sempre, una ferita che ci troviamo a toccare, accarezzare sentendola accompagna e ci fa crescere.

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anche amica perché ci


Queste le risposte alla domanda “Nella sua esperienza chi o che cosa le è stato utile, nel sostenerla aiutandola a superare ed elaborare il dolore”. Così un medico di base: “Tutto è utile, ma per imparare è necessario saper ascoltare. A volte è più difficile che sapersi spiegare. Si impara la filosofia dalla contadina morente che ci racconta di quando era giovane, dal ragazzo della comunità di tossicodipendenti che ci racconta l’iter che l’ha portato così in basso, dal confrontarsi con i colleghi. E’ bene attingere da tutto e cercare di capire che chiunque cerchi aiuto, anche se lo fa in modo esagerato ha sempre un disagio interiore che lo tormenta e cerca in chi ha vicino il sistema migliore per superarlo.” Mentre un medico ospedaliero: “Me stesso, si può dire no? E l’amore che ho per la mia professione a cui a volte sacrifico la famiglia.” La figlia di un malato stomizzato: “In quel momento nessuno, è stata una cosa che ho fatto da sola, ne ho parlato solo a distanza di anni . L’ho elaborato negli anni da subito tenevo tutto dentro e

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andavo avanti nel tempo andando dalla psicologa ho avuto modo di parlarne ed elaborare questo dolore.” La madre di un ragazzo malato: “Sono importantissime le vicinanze di persone amiche. Mi sono resa conto di chi veramente mi era vicino, per cui tutto ciò che mi chiedevano mi metteva in condizione di condividere i piccoli o grandi progressi che giornalmente vi erano ma anche le ansie.” Un uomo malato: “Fondamentale è stato il rapporto diretto con il medico che mi ha operato, il quale mi ha aiutato a superare momenti difficili spiegando ogni volta quello che mi stava succedendo.” Anche una malata di tumore ci dice: “Posso essere sincera? Me stessa, sei tu che ti devi aiutare, devi trovare la strada, il modo migliore per reagire. Io ho trovato un senso, vivere quel momento, non pensare a domani e anche essere egoisti concentrandoti su te stessa.” Il padre di una giovane donna morta di tumore:

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“Ho avuto vicino la mia compagna che è riuscita a farmi convivere con questo dolore, dialogando e confrontandoci continuamente anche se lei aveva maggior dolore di me. E poi nostra figlia con un sorriso sempre pronto, senza mai lamentarsi, è riuscita a farmi convivere in modo meno disumano ciò che provavo nei suoi confronti, nei confronti del suo dolore.” E ancora: “Si può contare solo su stesse. Ho imparato tutto da sola.” “Per natura sono ottimista, con una gran voglia di vivere, così mi è stato meno difficile affrontare la situazione. L'ottimismo aiuta parecchio.” Un infermiere e un volontario hanno un uguale punto di vista: “Essendo un infermiere sono quotidianamente a contatto con la sofferenza, con il passare del tempo sono riuscito ad abituarmi a questo stato grazie allo sviluppo di un rapporto empatico con il paziente, rimanendo emotivamente distante. Con l’esperienza riesci a sviluppare comportamenti di difesa che sono in grado di farti convivere con la sofferenza altrui.”

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“Il ruolo che hanno i colleghi è importante. Tutti ci conosciamo bene. Durante l’emergenza devi staccarti dalla situazione e pensare al lavoro che devi svolgere, tutta l’emotività è rimandata ad un secondo momento dove analizzi insieme ai colleghi la situazione.” La moglie di un malato grave: “C’è un infermiere, lo chiamo parlo con lui e mi rassicura. Anche una telefonata mi basta. Ti senti un pochino meglio perché sai dove appoggiarti se capita un imprevisto.” Il riferimento alla formazione e al confronto con gli altri è sottolineato sia dagli operatori che dai volontari come punto cardine: “La formazione, e i colleghi con cui condivido le esperienze.” “In determinati momenti una figura specialistica come uno psicologo sia nella vita personale che professionale. Un sostegno di un esperto e anche avere una famiglia e un contesto in cui tutti ti sostengono.” “La formazione, il percorso universitario. Se ti vengono dati gli strumenti, se conosci, tutto diventa più facile. Essere formati vuol dire anche aumentare il proprio

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bagaglio culturale. Poi il confronto con i colleghi con cui si può condividere è un sostegno.” Volontaria AIMA: “Personalmente come psicologa la supervisione, in confronto riesco a smaltire gli accumuli e i pesi. Quando lavori con le persone e con le relazioni, devi avere qualcuno. Poi gli strumenti che da sola tiri fuori, oltre le competenze.” Volontario Misericordia: “Con il lavoro che faccio, come si dice ci si fa il callo e con gli anni si diventa sempre più freddi, distaccati, distanti, direi quasi cinici. Ecco questo mi aiuta a far finta che il dolore non sia un mio problema.” Volontario ACAT: “Certamente il sentirsi parte di una comunità solidale, con gli stessi obiettivi, con valori condivisi. Po il confronto e l’ascolto di chi ha più esperienza, i suoi consigli, questo quando ho dei momenti di stress mi aiuta. Mi aiuta molto camminare da solo, anche per superare il disagio, mi fa stare molto meglio. Anche la formazione ma in misura meno importante.” Volontaria Banco alimentare:

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“I rapporti con le persone con cui ho potuto condividere ed affrontare le situazioni difficili. Talvolta la preghiera, una chiacchierata o anche il silenzio ma standomi a fianco.” Operatore di strada DOG: “Come operatore è bene avere poco spazio per il dolore delle persone, non farsi coinvolgere emotivamente. Seguire il progetto permette di essere distaccati.” Una donna straniera: “Dio, il più delle volte ti affidi a lui. Una famiglia, dove lavoravo come badante, è stata molto cara con me, mi hanno aiutato, sostenuto e per la prima volta mi sono sentita accettata.” La figlia di un malato di Alzheimer: “Il mio carattere. Cerco sempre di non avere una sola scelta, cerco più soluzioni, non mi scoraggio.” Anche la moglie di un malato di Alzheimer: “La fede. E la vita passata con quell’uomo.” Un ragazzo sieropositivo:

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“Io nella mia persona. Nessuno se non per poco tempo è riuscito e riesce a sostenere ciò che è dentro di me. Io voglio vivere lo stesso, non pensando come mi succede a volte di farla finita. Mai!!” Il compagno di un ragazzo sieropositivo: “Il fatto che negli anni mi sono molto rafforzato e con l’aiuto del mio compagno abbiamo elaborato una strategia per cui cerchiamo in tutti i modi di leggere la realtà in modo che possa giovarci e mai ferirci.” Una donna con grave malattia che è anche volontaria di un’associazione: “Le persone vicine, familiari e non. L’impegno costante soprattutto quello diretto al sostegno degli altri. Appartenere a gruppi ma anche stare da soli, in alcune circostanze e godersi silenzio e riflessione. Confrontare la propria esperienza di dolore con persone che l’hanno vissuto o lo stanno vivendo.” Una donna malata di cuore: “Il coraggio uno se lo deve fare da solo, la forza deve venire da dentro. Bisogna combattere.” Una ragazza anoressica:

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“Prima di tutto il mio ragazzo che mi ha ridato una speranza di guarigione e la voglia di vivere. Lui mi ha fatto sentire realmente amata. Capito questo sto iniziando ad amarmi io stessa e a riconoscere che anche chi pensavo mi odiasse in realtà a modo suo mi ama. E poi alcuni dottori, non tutti. E poi lo scrivere, soprattutto le mie poesie, mia principale valvola di sfogo.” Sacerdote cattolico: “Allenarmi a leggere ogni evento negativo non come un nemico da combattere ma come un’opportunità di crescita e di maturazione perché sono fortemente convinto che noi non reagiamo agli eventi ma a come li interpretiamo.” La madre di un ragazzo morto suicida : “Mi ha aiutato molto un sacerdote, padre Mario e un paio di amiche. E poi i miei cani perché dovevo occuparmi di loro, per me stessa non esisteva cucinare, lavarmi, fare il letto ma per gli animali sì, per loro lo dovevo fare. Nemmeno i miei genitori mi hanno aiutato, non ho mai avuto una carezza da loro.” Un malato uscito da un grave incidente:

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“La famiglia, gli amici, la fede e non ultimo anche lo scrivere il diario mi ha aiutato moltissimo.” Una giovane donna che ha perso il fidanzato in un incidente: “Le persone più utili sono stati gli amici, che riescono a starti vicino senza giudicarti, che ti fanno parlare e sfogare. Non puoi cambiare quello che è successo ma ti puoi sfogare, sono stati forti anche per me. Per accettare la perdita di una persona cara senza diventare scema, devi fare leva sulla tua razionalità. Non sono credente perciò non ritengo che lui sia in Paradiso, dalla Madonna o dai Puffi però è frustrante non potere sapere se la persona che hai perso sta bene o sta male. Riguardo al dolore che ho provato ho capito tante cose belle che a volte si continuano a scordare. Le persone ti lasciano tante cose positive e anche se vengono a mancare, nella tua testa continua ad esserci la sua presenza.” La madre di una giovane donna morta di tumore: “Piccoli gesti da molte persone, amiche e amici che sono stati accanto silenziosi e operativi, il nostro medico di base che è sempre stato presente. Le volontarie A.V.A.D. che hanno permesso a noi di staccare e fare cose quotidiane con tranquillità e a mia figlia di avere una piacevole compagnia. Il mio compagno che è sempre stato presente. Questo per quanto riguarda le persone, - 107 -


ma importante per me è stato il mio percorso personale di elaborazione perché in qualche modo ho vissuto un lutto anticipato. Come in tutte le situazioni di disagio devi reinventarti tutto, tirare fuori le risorse per rendere il tempo che rimaneva un tempo vissuto normalmente, fatto di cose piacevoli, anche nella difficoltà dei ricoveri e della malattia. Ho capito che rendere la vita più leggera ti fa stare meglio. Mi sono riservata dei momenti solo miei, il silenzio, l’ascolto della musica, i libri. Continuo a riservarmi questo spazio interiore e fisico. La persona che però mi ha aiutato maggiormente è stata mia figlia con la sua solarità, il suo coraggio, la sua voglia di vivere, il condividere tanti momenti quotidiani, cantare insieme, anche litigare. Questo ha reso e rende più sopportabile la sua assenza.” Una donna uscita dal coma: “Mio marito, mi è sempre stato vicino con sensibilità, presenza e anche autorevolezza. Poi lui mi ha anche regalato un cane, questo cane ha fatto tanto per me perché dovevo occuparmi di lei, è stata una compagna di vita io ho fatto tanto da sola, ho dovuto imparare di nuovo a leggere, a parlare, a scrivere. Leggevo i fumetti di DylanDog, anche le cose più semplici le ho conquistate a poco a poco.”

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IL VISSUTO DEL DOLORE di Giuliana Lacrimini7 Il dolore non è semplice attivazione di un sistema nervoso complesso, ma corrisponde sempre a uno stato psicologico sul quale giocano le loro influenze, lo stato emozionale e precedenti esperienze spiacevoli. Più precisamente, dal concetto di dolore andrebbe distinto quello di sofferenza che comprende soprattutto la risposta emotiva e affettiva a una stimolazione dolorosa o anche ad altri eventi quali paura, minaccia, perdita. Il dolore è quindi, un’esperienza soggettiva, influenzata da fattori culturali, dal significato della situazione specifica e da altre variabili psicologiche. Ferite, malattie, perdite producono segnali neuronali che entrano in relazione con un substrato di passate esperienze, cultura, personalità. Questi processi mentali partecipano attivamente nella selezione, astrazione e sintesi delle informazioni che provengono dagli input sensoriali. Il dolore, quindi, non è semplicemente il prodotto finale di un sistema di trasmissioni sensoriali lineare, ma è un processo dinamico

7

Giuliana Lacrimini, Psicologa, Psicoterapeuta - Centro Studi Psicologia Sistemica Arezzo/Cortona. Psicologa volontaria A.V.A.D..

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che produce continue interazioni. Considerare solamente la caratteristica sensoriale del dolore e ignorarne gli aspetti motivazionali e affettivi, porta ad avere una visione del problema molto limitata e incompleta. Freud ha usato tre termini per riferirsi al concetto di dolore: Unlust, dispiacere legato alla teoria della rimozione, Schmertz, dolore legato alla teoria del trauma e Leiden sofferenza che si riferisce più a un dolore che l’attivit{ psichica è in grado di rappresentare. Freud aveva capito che dolore fisico e dolore psichico si equivalgono e seguono lo stesso modello, che il dolore avviene nell’Io corporeo anche quando è legato alla perdita dell’oggetto d’amore, che la ferita nella psiche è una ferita nella sostanza psichica. Queste idee non sono lontane dalle attuali concezioni neurofisiologiche che tendono a ricondurre il dolore fisico e psichico a un’unica matrice nervosa (pain matrix), che il dolore è legato al problema del trauma e quindi alla realtà esterna. Dolore inteso quindi, come una funzione processuale. Le persone che sono state intervistate sul tema della sofferenza hanno fornito con le loro risposte una grande testimonianza

che,

ancora

una

volta,

complessità del concetto di sofferenza. - 111 -

conferma

la


Ancora più significativo è ciò che ci hanno suggerito nella terza e quarta risposta che chiedevano rispettivamente cosa può risparmiare un dolore in più e cosa può aiutare a sopportare la sofferenza che, evidentemente, non è evitabile nella vita di ciascuno. Le parole che ricorrono in moltissime risposte sono suggestive quanto reali e semplici: conforto, condivisione, ascolto, rete, conoscenza, formazione, scambio, vicinanza. La vicinanza, l’ascolto e il conforto sono le indicazioni maggiormente ricorrenti nelle risposte dei malati e dei familiari. Queste parole esprimono la necessità di evitare la solitudine nei momenti di sofferenza. Le parole scambio e condivisione sono invece onnipresenti nelle risposte dei volontari. Ciò fa pensare che nei volontari sia molto sviluppata e riconosciuta la forza del sostegno del gruppo, della condivisione che in esso si sperimenta e delle risorse che se ne traggono, per essere più efficaci nell’intento di aiutare chi, in forme diverse, sta soffrendo. La parola “formazione”, usata invece da molti operatori, fa emergere il tema dell’importanza che viene attribuita al sentirsi

preparati

tecnicamente

e

psicologicamente,

nell’avere un bagaglio di informazioni e formazioni, pratiche - 112 -


ed emotive, che si ritengono essenziali nel mettersi a disposizione degli altri. Riporto il breve commento che una delle intervistatrici ha allegato alle trascrizioni delle interviste svolte: “Quando ho accettato di collaborare con A.V.A.D. per somministrare il questionario pensavo che sarebbe stato molto difficile per le persone parlare di dolore. Svolgendo le interviste mi sono resa conto che gli intervistati sono stati molto disponibili e generosi, in particolare i malati che hanno risposto volentieri e, a mio parere, sono stati molto spontanei”. “Ho riscontrato che operatori e volontari hanno spesso fatto riferimento alle loro sofferenze private per cercare di trasmettere la comprensione verso quelle delle persone che, a vario titolo, aiutano. I familiari hanno avuto la tendenza a raccontare i fatti, episodi, avvenimenti che potessero far capire le difficolt{ e le sofferenze patite”. “Per molti non è stato facile affrontare la prima domanda ‘Tutti gli esseri umani sanno cosa vuol dire sofferenza. Per lei, nella sua esperienza personale, che significato ha la sofferenza?’, poiché riuscire a sintetizzare il senso della sofferenza, pur in maniera personale è arduo, anche se poi - 113 -


dalla lettura delle risposte se ne coglie la trasversalità e l’universalit{. Grazie dell’opportunit{ e buona lettura”. Un commento personale vorrei farlo invece rispetto ad un termine al quale spesso ho pensato nel corso della lettura dei questionari : resilienza. La resilienza, termine derivato dalla scienza dei materiali, indica la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la loro struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia connota la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà. Non è quindi solo capacit{ di resistere, ma anche di “ricostruire” la propria dimensione, il proprio percorso di vita, trovando una nuova chiave di lettura di sé, degli altri e del mondo, scoprendo una nuova forza per superare le avversità. Si tratta di un processo individuale, ovvero che si costruisce nella persona in base alla personalità, ai modelli di attaccamento e agli eventi di vita e pertanto si verifica in modo differente in ognuno di noi. Può capitare che, quando una persona che conosciamo si trova ad affrontare un evento particolarmente stressante, pensiamo “Io al suo - 114 -


posto non sarei riuscita a sopportarlo!”; tuttavia questo dipende dalle nostre esperienze, dai nostri apprendimenti, dalla nostra personalità e pertanto filtriamo ed elaboriamo gli eventi e loro significati in modo differente, reagendovi e integrandoli nella memoria in modo altrettanto differente. Le persone con un alto livello di resilienza dunque, riescono a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti. L’esposizione alle avversit{ sembra rafforzarle piuttosto che indebolirle. Esse tendenzialmente sono ottimiste, flessibili e creative; sanno lavorare in gruppo e fanno facilmente tesoro delle proprie e delle altrui esperienze. Ma cosa fa sì che un individuo sia più o meno resiliente? A determinare un alto livello di resilienza contribuiscono diversi fattori, primo fra tutti la presenza all’interno come all’esterno della famiglia di relazioni con persone premurose e solidali. Questo tipo di relazioni crea un clima di amore e di fiducia, e fornisce incoraggiamento e rassicurazione favorendo l’accrescimento del livello di resilienza che non è una caratteristica che è presente o assente

nella

persona.

Essa

presuppone

invece

comportamenti, pensieri e azioni che possono essere - 115 -


appresi da chiunque in qualunque circostanza. Avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita, avere un alto livello di resilienza non significa essere infallibili ma è resiliente chi è disposto al cambiamento quando necessario, chi è disposto a pensare di poter sbagliare, ma anche chi si dà la possibilità di poter correggere la rotta.

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CONCLUSIONI Il senso della sofferenza di Giuliana Lacrimini Il dolore come ferita del corpo è influenzabile e modificabile con la somministrazione di farmaci che ne possono smorzare o spegnere le risonanze soggettive, mentre la sofferenza non è sempre modificabile, non ci sono farmaci che possano lenire o abrogare un’esperienza di sofferenza quando questa sia legata a evenienze umane. La sofferenza è la risonanza emotiva, una vibrazione inferta da eventi dolorosi. Il concetto di salute/benessere non può essere ridotto all’efficienza fisica o alla capacit{ di godimento ma deve integrare realisticamente gli aspetti di limitazione

e di

sofferenza propri della vita dell’uomo. La sofferenza fa parte della vita e se pure è vero che si può tendere a diminuirla, bisogna riconoscere che va anche positivamente elaborata. Il

benessere

della

persona

esige

l’acquisizione

di

un’attitudine realistica nei confronti della sofferenza frutto di una costante educazione del desiderio umano a

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introiettare il senso del limite come condizione per una corretta presa di coscienza delle possibilità e per un serio impegno a svilupparle. La sofferenza come il presupposto per recuperare una più seria maturità personale e una più autentica apertura verso gli altri. Dovremmo soffermarci su “come soffro e cosa voglio fare della sofferenza” e non “perché” soffro. Se la sofferenza è un’esperienza comune a ciascuno come umana possibilità, le forme concrete con cui viene vissuta nei suoi aspetti psicologici e somato-psichici cambiano in ciascuno di noi sulla scia delle nostre personali attitudini ad accettare ed elaborare tale l’esperienza. La sofferenza tende a separarci dalle persone e dalle cose incrinandoci e incrinando la nostra relazione con gli altri La sofferenza cerca un rimedio come compensazione positiva che ha come effetto l’attenuazione della sofferenza stessa. Ogni esperienza di dolore e di sofferenza si accompagna al distacco dalle cose e alla ricerca della solitudine, dell’isolamento.

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Sottrarre, quanto sia possibile la sofferenza alla solitudine e all’isolamento ha un significato psicologico e umano che passa attraverso l’attribuzione di senso. Il senso della sofferenza non è facilmente rintracciabile. C’è una sofferenza inevitabile e una sofferenza evitabile c’è una sofferenza che testimonia della grandezza e della fragilità della condizione umana e c’è una sofferenza che sfugge o che sembra sfuggire ad ogni significato. Potremo dire che può essere utile il passaggio dalle domande “Cosa vuol dire? Perché a me?” alle domande “A cosa serve? Cosa verr{ dopo?”. Chi non trova senso nel dolore lo vive come il simbolo di uno scacco più inquietante, come annuncio dell’incombenza dell’assurdo. Succede spesso che il dolore si sopporta ma non si accetta. La sofferenza genera una condizione di separatezza che non può essere scavalcata con la pretesa di un’artificiosa immedesimazione, ma comporta rispetto della distanza e disponibilit{ all’accoglimento. Una solidarietà silenziosa e partecipe può portare molto più conforto di tante parole.

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La lesione dell’immagine di sé che la malattia induce genera stati d’insicurezza accentuati oggi dal sistema simbolico della cultura dominante che ha come paradigmi quelli dell’integrit{ e della funzionalit{ fisica con la tendenza perciò a marginalizzare le situazioni di debolezza. Nell’ambito del prendersi cura della sofferenza degli altri occorre

porre

attenzione

alla

realtà

irripetibile

e

inoggettivabile, non accontentarsi di rispondere alla logica del bisogno che è sempre circoscrivibile, ma che ci si misuri con le dinamiche del desiderio che ha un orizzonte infinitamente aperto. L’assunzione di una posizione responsabile nei confronti della malattia/dolore/sofferenza è una condizione che può molto aiutare. La capacit{ di ascoltare l’altro è però direttamente proporzionale alla capacità di entrare in contatto con se stessi e con la propria capacità a elaborare l’angoscia suscitata dalla sofferenza e di ridimensionare la dimensione di onnipotenza per accettare il limite del proprio intervento. E’ pure proporzionale alla disponibilit{ a elaborare la sofferenza

non

rimuovendola

- 120 -

o

mascherandola

ma


confrontandosi con essa, restituendole la parola e superando la tentazione di facili illusioni. La capacità di ascoltare e di esprimere vicinanza sono indispensabili nel predisporsi a stare accanto a chi vive l’esperienza di sofferenza, ma è anche complesso poterle esprimere. Tale complessità può essere intesa nell’accezione che di complessit{ d{ il filosofo Edgar Morin: “Che tiene insieme aspetti apparentemente inconciliabili” che sono espressi dal desiderio di aiutare e dal desiderio di allontanarci dalla sofferenza.

“…non crediate che colui che tenta di confortarvi viva senza fatica alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro di loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole” R.M. Rilke - 121 -


RIFLESSIONI di Bruna Cantaluppi “Ogni essere che ha vissuto l’esperienza umana sono io.” Marguerite Yourcenar Questo è un libro fatto di parole. Parole che abbiamo ritenuto di riportare così come le abbiamo ascoltate. Come le persone che abbiamo incontrato hanno detto, senza cambiarle e interpretarle. È

un

viaggio

dentro

le

emozioni,

emozioni

che

appartengono a un momento della vita. Quello spazio di tempo che si colloca tra i due irripetibili e unici momenti della nostra esistenza: la nascita e la morte. Dall'esperienza della vita, perché la vita, come i Greci pensavano, è insieme crudeltà e felicità. “Il dolore è una crudelt{” sono le parole della madre di un giovane morto suicida. Secche e precise, senza aggiungere altro, non credo ce ne sia bisogno, si comprende benissimo. La parola “felicit{” non è mai esplicitata, pur sapendo che anche smettere di soffrire per un solo istante, procura felicità. Eppure, leggendo tra le righe delle risposte, è evidente per alcuni il senso positivo del dolore, l’emergere di

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potenzialità nascoste, il dolore che fa crescere, che fa guardare la vita con occhi diversi e nuovi. Felicità e dolore, la stessa potenza che genera, distrugge, dolore e felicità stanno insieme. Due aspetti della vita, che sembrano essere uno il contrario dell’altro, ma direi inscindibili. Se il dolore è il contrario della felicità e non vi è una sola felicità per tutti così come non vi è un solo dolore, ognuno di noi soffre in modo unico e quindi pur nella sua universalità ognuno interpreta diversamente il proprio dolore. Che cosa rimane dopo il dolore, e cosa rimane dopo la felicità dato che sappiamo che niente sarà più come prima. Forse quella che i Greci chiamavano “nostalgia” (parola composta dal greco όστος (ritorno) e άλγος (dolore)) "dolore del ritorno rimpianto per la lontananza da persone o luoghi cari o per un evento collocato nel passato che si vorrebbe rivivere”. Non credo, più semplicemente, e per averlo vissuto nella mia personale esperienza, resta il “ricordo”, la memoria di quanto vissuto, che da senso al dolore e alla felicità e fa accettare serenamente ciò che non si può cambiare.

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Mi piace ricordare la poesia di Tu Fu, poeta cinese del VIII secolo “ Una canzone laggiù … È un mendicante che canta, quel vecchio che non ha mai posseduto nulla, perché piangi tu, che hai così bei ricordi?”.

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APPENDICE Chi siamo L’Associazione nasce nel 1996 dall'incontro tra la sensibilit{ di privati cittadini e alcuni operatori sanitari. L’art. 3 dello Statuto,

definisce

la

mission

dell’Associazione

“L'Associazione ha per scopo lo studio, la promozione, l'organizzazione e l'attuazione delle forme di assistenza domiciliare dirette ad alleviare il dolore e a migliorare la situazione ambientale dei sofferenti bisognosi avvalendosi, in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti. Le iniziative di cui al precedente comma possono essere svolte dall'Associazione

tanto

direttamente,

quanto

in

collaborazione con altri soggetti, pubblici e privati”. L'AVAD si rivolge a malati oncologici, con disabilità grave o affette da patologie degenerative di qualsiasi età che risiedono

presso

il

proprio

domicilio.

L'intervento

dell'associazione non è di tipo infermieristico, ma è rivolto all'aiuto umano nei confronti del malato e della sua famiglia donando loro sollievo nelle ore di presenza e un utile sostegno, spirituale e pratico. La cultura della cura a

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domicilio si sta diffondendo sempre di più per volontà dei malati e dei loro familiari di risiedere nel loro ambiente naturale per i ben noti effetti sulla salute, sul benessere psicologico e sull’integrazione sociale. Questo però ha come conseguenza spesso difficoltà pratiche e logistiche a cui i volontari AVAD con i loro operato tendono ad attenuare. L’Associazione si occupa dello studio, della promozione, dell’organizzazione

e

dell’attuazione

delle

forme

di

assistenza domiciliare diretta ad alleviare il dolore, a migliorare

la

situazione

ambientale,

adattandola

eventualmente alla nuova condizione di vita, delle persone bisognose, sostenendo che un malato inguaribile non è incurabile, nel senso che il tempo a loro dedicato è prezioso per preservarne la dignità e migliorare, con le loro azioni di assistenza e sostegno, la sua qualità di vita. AVAD è iscritta all’Albo regionale del volontariato, negli anni ha tessuto una fitta rete di collaborazione con le altre realtà presenti nel territorio aretino che si occupano di assistenza, promozione della cultura del volontariato e solidarietà sociale e collabora attivamente con l’ASL8, con il reparto di oncologia, il progetto SCUDO, il Calcit. - 127 -


(www.avadarezzo.org) Attualmente l’A.V.A.D. ha 35 volontari che ad oggi prestano assistenza a 60 malati al domicilio con un impegno di 2 ore settimanali e fino ad un massimo di 6 ore settimanali, organizzando una turnazione dopo una valutazione dei bisogni. In alcuni casi l’intervento è limitato a poche settimane, in altri casi può durare anche diversi mesi.

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RINGRAZIAMENTI Ringraziamo per la disponibilità di tempo e attenzione le persone che hanno collaborato per le interviste. La pazienza degli intervistatori: Eugenia Arrigucci, Andrea Bottazzi, Marco Pianigiani, Irene Renzetti. La fantasia di Irene Renzetti per la grafica e l’impaginazione. La Fondazione Prosolidar per aver finanziato il progetto “La vita degli altri”. La ASL 8 di Arezzo per la collaborazione e la diffusione della pubblicazione. I lettori e le lettrici che leggeranno questa pubblicazione.

Edizione elettronica a cura di:


www.avadarezzo.org




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