90 anni dopo Livorno

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Formato 150*210 alette 424 pag

Biblioteca di Storia

Novant’anni dopo Livorno

Alexander Höbel (Napoli, 1970) è dottore di ricerca in storia e si occupa in particolare di storia del movimento operaio e comunista. Ha pubblicato vari saggi sulla storia del Pci, ha curato il volume Il Pci e il 1956, La Città del Sole 2006, ed è autore dei libri Il Pci di Luigi Longo (1964-1969), Edizioni scientifiche italiane 2010, e Luigi Longo, una vita partigiana (19001945), Carocci 2013. Collabora con la Fondazione Istituto Gramsci e con la Fondazione Luigi Longo. Coordina il Comitato scientifico dell’associazione Marx XXI.

Novant’anni dopo Livorno Il Pci nella storia d’Italia

Marco Albeltaro (Biella, 1982) è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino. Oltre a numerosi saggi in riviste italiane e straniere, ha pubblicato: L’assalto al cielo. Le ragioni del comunismo, oggi (a cura di, La Città del Sole 2010); La parentesi antifascista. Giornali e giornalisti a Torino (1945-1948) (Seb27 2011), Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte (Laterza 2014). È redattore di Historia Magistra. Rivista di storia critica. Nel 2012 gli è stato conferito il Premio Nicola Gallerano.

Novant’anni dopo Livorno Il Pci nella storia d’Italia A cura di Alexander Höbel e Marco Albeltaro

www.editoririuniti.it

Euro 25,00 (IVA compresa)

ISBN 978-88-6473-124-7

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Grafica: Luciano Vagaggini

In IV di copertina: 1947. Sfilata partigiani, si riconoscono da destra: Secchia, Togliatti, Longo.

Editori Riuniti

A poco più di novant’anni dal Congresso di Livorno, che diede inizio alla storia del Partito comunista italiano, e a oltre venti dal suo scioglimento, questo libro si propone di esaminare alcuni momenti essenziali di quella importante esperienza storica. Dagli anni del fascismo e della clandestinità, allorché il Pcd’I rimase di fatto l’unica forza organizzata in Italia, al ruolo di primo piano svolto nella Resistenza; dalla nascita del «partito nuovo» di Togliatti allo sviluppo degli anni Sessanta, dai successi e dalle contraddizioni degli anni di Berlinguer alla crisi successiva, il Pci è stato per 70 anni un protagonista della storia politica e civile italiana. Sciolto nel 1991, la sua memoria è stata rimossa e spesso deformata, ed è oggi quasi assente dal senso comune della «seconda Repubblica». Il presente volume, frutto di due convegni promossi nel 2011 dall’Associazione Marx XXI, cui si sono aggiunti i contributi di altri autorevoli studiosi – da Aldo Agosti a Renzo Martinelli, da Claudio Natoli ad Albertina Vittoria – intende fornire un contributo alla conoscenza e alla ricostruzione critica di quella esperienza, troppo frettolosamente accantonata, e che invece offre ancora molti spunti preziosi a chi si batte per la trasformazione dell’esistente e in particolare alle nuove generazioni.


Indice

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Introduzione di Alexander Höbel e Marco Albeltaro

Parte I

Un partito rivoluzionario negli anni della reazione 17

Domenico Losurdo «Marxismo occidentale» e «marxismo orientale»: una scissione infausta

51

Renzo Martinelli Livorno 1921. Nasce il Partito comunista

71

Gianni Fresu Gramsci, dal Congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana

87

Marco Albeltaro Fare politica nonostante il fascismo. Appunti sulla «svolta»

131

Claudio Natoli Il movimento comunista e il fascismo nell’Europa tra le due guerre

166

Delfina Tromboni Il Partito comunista e le donne: «questione femminile» o questione maschile? Prime note sull’organizzazione delle donne comuniste (1921-1947)


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Parte II

Il Pci tra costruzione della democrazia e guerra fredda 201

Ferdinando Dubla Il Partito comunista nella Resistenza (1943-45)

222

Ruggero Giacomini Dalla Resistenza alla «democrazia progressiva». Un partito di massa per l’Italia repubblicana

235

Salvatore D’Albergo La funzione costituente del «Partito nuovo»

263

Albertina Vittoria Il Pci e gli intellettuali. La politica culturale dei comunisti e l’Istituto Gramsci dal dopoguerra alla morte di Togliatti

291

Giorgio Inglese Un «intellettuale organico». Ricordo di Carlo Salinari Parte III

Dal consolidamento alla liquidazione 297

Alexander Höbel Pci, centro-sinistra, programmazione democratica. Come incidere nella realtà stando all’opposizione

314

Vittorio Gioiello Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer

341

Gaetano Bucci Il Pci e la questione dello Stato

351

Guido Liguori La fine del Pci: un esito evitabile?

360

Fausto Sorini e Salvatore Tiné Alle origini della Bolognina e della «mutazione genetica». Un contributo per tenere aperta la riflessione storica

387

Aldo Agosti L’«età dell’oro» della storiografia sul Partito comunista italiano (1960-1989)

408

Gli autori

415

Indice dei nomi


Introduzione di Alexander Höbel e Marco Albeltaro

1. Questo volume è frutto in primo luogo di due convegni che l’Associazione Marx XXI ha promosso (a Roma e a Bari) nel 2011, in occasione del 90° anniversario della fondazione del Partito comunista d’Italia: due convegni di riflessione e approfondimento sulla vicenda storica del Pci, nel tentativo di contribuire a un bilancio critico di quella esperienza, che è stata a un tempo l’esperienza del partito comunista piú forte e radicato del mondo occidentale e parte rilevantissima della storia politica del nostro Paese. Ai testi presentati dagli studiosi intervenuti ai due convegni si sono poi aggiunti ulteriori contributi di storici e specialisti della storia del Pci, da Aldo Agosti a Renzo Martinelli, da Claudio Natoli ad Albertina Vittoria, che hanno arricchito il volume in modo significativo, consentendo alla riflessione storico-politica di studiosi e «intellettuali militanti» di intrecciarsi con contributi di alcuni tra i maggiori esponenti italiani della storiografia sul Pci e sul movimento comunista nel suo insieme. Non va dimenticato, infatti, che in questi anni, accanto alla pubblicistica di cui diremo tra poco, è andato avanti anche un rigoroso lavoro di ricostruzione storiografica, sulla base della sempre piú vasta documentazione disponibile. Il presente volume è dunque un lavoro «a piú facce», ricco di diversi approcci e anche di diverse interpretazioni, che affronta vari momenti e aspetti della storia del Pci – dalla fondazione allo scioglimento, ovviamente senza nessuna pretesa di esaustività – e che


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si spera contribuisca a restituire una visione di ciò che il Pci è stato piú vicina alla realtà rispetto a quella che la pubblicistica corrente tenta di imporre in modo martellante, cercando al tempo stesso di non perdere mai di vista il nesso tra la storia del partito e le vicende – nazionali e internazionali – che hanno rappresentato il contesto nel quale tale vicenda si è sviluppata. 2. L’esperienza del Partito comunista italiano, come si accennava, è oggetto da tempo di una vera e propria damnatio memoriae, di un accanimento politico, giornalistico e storiografico volto a deformarla fino a renderla irriconoscibile, a demonizzarne protagonisti e passaggi decisivi, o in alternativa a rimuoverne del tutto il ricordo: una campagna che, da un lato, rientra nel battage anticomunista riavviato con forza nel 1989-91 e che da allora continua a imperversare sebbene al tempo stesso il nemico storico sia dato irrimediabilmente per morto; dall’altro, è parte di quel tentativo di riscrivere o cancellare la storia della «prima Repubblica», della quale i partiti di massa – e il Pci in primis – furono parte cosí rilevante, in modo da poter procedere piú agevolmente a quella «normalizzazione» del Paese e del senso comune che in effetti è andata molto avanti in questi anni, fino a portarci sulla soglia di veri e propri stravolgimenti della nostra Costituzione e dello stesso assetto istituzionale. Si è trattato di una campagna giornalistica non priva di sponde storiografiche, sebbene spesso si tratti di una storiografia di opinioni, che di solito prescinde dai documenti e dai fatti, preferendo le supposizioni, i giudizi, le «valutazioni complessive». Un Pci «stalinista», «servo di Mosca» o comunque incapace di acquisire un suo profilo autonomo; un partito nemico dello sviluppo, sempre arretrato nell’analisi, incapace di comprendere, a causa della sua cultura politica, le «magnifiche sorti e progressive» del capitalismo degli anni del boom; un partito bigotto, moralista, conformista, antidemocratico: ecco alcuni dei veri e propri stereotipi che maggiormente sono stati diffusi e accreditati. Il fatto che il Pci fosse portatore, con le sue idee di democrazia progressiva e riforme di struttura, di un progetto di democratizzazione avanzata dello Stato e della società italiani, di un modello di «democrazia sociale» che si legava a una concezione di economia


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mista ben presente nella nostra Costituzione1, non pone alcun dubbio ai demolitori. Né lo pone il fatto che tutte le forze politiche avessero legami internazionali, e che in piú di una occasione il Pci abbia dato prova di autonomia di giudizio ben maggiore di quella mostrata, ad esempio, dalle forze filo-atlantiche di fronte alla guerra del Vietnam – un conflitto che è durato dieci anni provocando un numero di vittime in cinque milioni di persone2, uno dei maggiori crimini rimossi nella storia del Novecento – rispetto al quale le forze di governo continuarono a esprimere «comprensione» quasi fino alla fine del conflitto. Le cose, dunque, come suol dirsi, sono «un po’ piú complesse» rispetto a come sono veicolate nel senso comune. E questo libro prova a soffermasi proprio sulla loro complessità. Respingere le visioni liquidatorie e «monolitiche», d’altra parte, non significa proporre una lettura apologetica della storia del Pci, o negarne limiti, difetti ed errori. Significa però cercare di ridare alla storia la sua natura dialettica e all’esperienza del Pci la ricchezza del percorso di una forza che – nata come partito di pochi quadri rivoluzionari, passata attraverso le Tesi di Lione e arricchitasi dell’elaborazione gramsciana e togliattiana, tempratasi nella lotta antifascista e negli anni della clandestinità durante i quali fu di fatto l’unica forza organizzata presente nel Paese, protagonista principale della Resistenza – sarebbe diventata nel dopoguerra, col «partito nuovo» di Togliatti, Longo e Secchia, un partito di massa; un partito nel quale i quadri rimanevano decisivi ma che intanto attivava una militanza e una partecipazione radicate e diffuse, e un processo di alfabetizzazione politica di massa, destinati a rimanere senza uguali in Italia. Una forza che, dopo aver dato un contributo essenziale alla stagione dell’unità antifascista e alla stesura della Costituzione, dovette affrontare i duri anni della guerra fredda, della repressione scelbiana e della discriminazione anticomuni1

Cfr. D. Sassoon, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944 al 1964, Torino, Einaudi, 1980; S. D’Albergo, A. Catone, Lotte di classe e Costituzione. Diagnosi dell’Italia repubblicana, Napoli, La Città del Sole, 2008. 2 Agenzia France Press, 4 aprile 1995.


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sta, dalla conventio ad excludendum sul piano istituzionale alle discriminazioni a danno dei suoi attivisti nella società; che in quel contesto pure riuscí a crescere e che da quella situazione seppe uscire, prima rapportandosi in modo dialettico al centrosinistra e ai nuovi movimenti di massa (sono gli anni dell’ultimo Togliatti e della segreteria di Luigi Longo) e poi, negli anni Settanta, con la segreteria di Enrico Berlinguer, ponendosi al centro della politica italiana, e ponendo al centro del dibattito pubblico la questione comunista, che era anche la questione della democrazia bloccata – bloccata dagli equilibri della guerra fredda, dall’ipoteca atlantica e dalla persistente discriminazione anticomunista, sebbene molte prese di posizione del Pci rendessero quest’ultima ancora piú ingiustificata che nei decenni precedenti. 3. È in quegli anni, giunto ormai a rappresentare un italiano su tre, che il Pci gioca la sua partita decisiva. Ed è proprio su quel periodo che il dibattito appare ancora aperto e la ricerca ancora da svilupparsi. Per la storia repubblicana nel suo insieme, d’altra parte, gli anni Settanta sono un decennio cruciale. Molte delle potenzialità insite nell’assetto politico post-bellico (esistenza di una Costituzione fortemente progressiva e di partiti di massa radicati, centralità del Parlamento, sua effettiva rappresentatività grazie al sistema proporzionale), bloccate dalla guerra fredda ma arricchite e rafforzate dal conflitto sociale e dai movimenti sviluppatisi negli anni Sessanta, sono a quel punto alla prova dei fatti. Lo scontro è tra la possibilità di andare avanti nell’attuazione del disegno complessivo della Costituzione, realizzandone le potenzialità ancora inespresse – il che appunto avrebbe implicato una ripresa del discorso interrotto nel 1947, dando avvio a quella che Berlinguer definiva la «seconda tappa della rivoluzione antifascista» – e sbloccando il sistema politico, e, sul fronte opposto, il peso di resistenze conservatrici, apparati deviati, forze eversive, condizionamenti internazionali, che miravano a lasciare invariato lo status quo per poi passare alla controffensiva. Alla luce degli esiti generali, è evidente che sia stata questa


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seconda alternativa a prevalere. Ma è significativo che la Commissione trilaterale, sorta appunto per frenare l’«eccesso di democrazia» e di domanda sociale che andava diffondendosi in Occidente, nel suo documento fondativo sulla «crisi della democrazia» – siamo nel 1975 – individuasse il pericolo principale nei partiti comunisti europei, «le sole istituzioni rimaste nell’Europa occidentale la cui autorità non venga messa in dubbio»3. Un anno dopo, alle elezioni politiche del 1976, il Pci di Berlinguer replicava il successo ottenuto alle amministrative dell’anno precedente, giungendo al 34.3% dei consensi. Sebbene alla vigilia del voto Berlinguer avesse ribadito di non voler porre il problema della fuoriuscita dell’Italia dal Patto atlantico ritenendo che atti unilaterali avrebbero ostacolato anziché favorito il percorso della distensione e che la questione andava dunque posta nel quadro di un processo piú complessivo di superamento dei blocchi militari contrapposti; e sebbene avesse addirittura dichiarato – con una forzatura paradossale – che, nel tentativo di costruire una via democratica al socialismo, si sentiva «piú sicuro» stando nel blocco occidentale («ma – aggiungeva subito – vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia»), il veto internazionale all’accesso del Pci al governo persisteva. Berlinguer stesso ne era consapevole, e nella stessa intervista aveva precisato: «Certo, il sistema occidentale offre meno vincoli. Però stia attento. Di là, all’est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà»4. Pochi giorni dopo il voto, il vertice di Porto Rico delle potenze piú industrializzate, in una riunione a margine degli incontri ufficiali dalla quale la delegazione italiana fu esclusa e in cui invece ebbe un ruolo di punta, oltre al presidente Usa Ford, il cancellie3 http://www.trilateral.org/download/doc/crisis_of_democracy.pdf. Cfr. D. Moro, Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo, Reggio Emilia, Aliberti, 2013, p. 119. 4 Conversazioni con Berlinguer, a cura di A. Tatò, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 70. Sulla frase di Berlinguer sul sentirsi «più sicuro» nel blocco occidentale potrebbe aver pesato anche l’incidente (o presunto attentato) subito in Bulgaria nel 1973. Cfr. G.


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re socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt, ribadiva il «no» all’ingresso del Pci nel governo, e subordinava l’eventualità di aiuti finanziari all’Italia al rispetto di questa condizione5. Analoghi veti erano stati posti nei due anni precedenti in vari colloqui internazionali, in particolare negli incontri tra il presidente Usa Ford, il suo segretario di Stato Kissinger e i leader democristiani Moro e Rumor. «L’Italia è il nostro problema principale» – aveva affermato Kissinger nel gennaio 19766. Moro stesso peraltro nel settembre 1974 era stato apertamente minacciato da Kissinger, che lo aveva duramente ammonito a non proseguire la sua «strategia dell’attenzione» nei confronti del Pci; una pressione che gli aveva fatto anticipare il rientro in Italia e ipotizzare il ritiro dalla scena politica7. Del resto, era stato lo stesso Kissinger a dire, a proposito del ruolo svolto dagli Usa per rovesciare Allende: «Non vedo perché dobbiamo starcene fermi a guardare un Paese diventare comunista per l’irresponsabilità del suo popolo»; e uno «sbocco di tipo cileno» era stato apertamente minacciato dall’ambasciatore statunitense Volpe il mese seguente, nell’ottobre 1974, allorché Moro ricevette un nuovo incarico per la formazione del governo8. L’ingresso del Pci nella maggioranza avverrà poi in un contesto totalmente diverso, prima con Moro prigioniero delle Br, poi dopo l’omicidio del leader democristiano, in una situazione di accerchiamento e attacco concentrico al Pci ben descritta da Giuseppe Fiori9. E la strategia del compromesso storico, che Fasanella, C. Incerti, Sofia 1973: Berlinguer deve morire, prefazione di G. Vacca, postfazione di V. Vasile, Roma, Nuova iniziativa editoriale, 2006. 5 A. Varsori, Puerto Rico (1976). Le potenze occidentali e il problema comunista in Italia, in «Ventunesimo secolo», n. 16, giugno 2008, pp. 89-121. 6 U. Gentiloni Silveri, Gli anni Settanta nel giudizio degli Stati Uniti: «Un ponte verso l’ignoto», in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, vol. I, Tra guerra fredda e distensione, a cura di A. Giovagnoli e S. Pons, Soveria Mannelli, Rubbettino, pp. 108-111. 7 Cfr. G. Galloni, 30 anni con Moro, Roma, Editori Riuniti, 2008, pp. 178-183; C. Guerzoni, Aldo Moro, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 155-163. 8 Galloni, 30 anni con Moro, cit., pp. 180-184. 9 G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Roma-Bari, l’Unità-Laterza, 1992, capp. XXX-XXXIII.


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intendeva riprendere il discorso interrotto nel 1947, diventava qualcosa di diverso nella situazione di emergenza in cui si sviluppò la politica di «solidarietà democratica». In quei mesi il Pci compì molti errori: se la forza del partito togliattiano era stata la felice sintesi tra azione politica «dall’alto» e mobilitazione di massa, ora la pressione di massa iniziava a essere avvertita come un problema; una serie di misure, di politica economica e non solo, cominciarono a logorare il legame di massa del Pci; l’alleanza tra i grandi partiti di massa andò riducendosi a dialogo con la Dc e la formula fu riportata in periferia in modo meccanico e ancor piú riduttivo. Intanto cambiava il «corpo del partito», e in particolare dei suoi gruppi dirigenti e delle sue rappresentanze istituzionali. Tuttavia quella stagione produsse anche leggi importanti, da quella sull’equo canone al Servizio sanitario nazionale, dalla legge sul trasporto pubblico locale alla 180; salari operai e prodotto interno lordo ripresero a crescere10. Quanto al radicamento e al consenso di massa, i comunisti passarono dal milione e mezzo di iscritti del 1971 alla cifra di 1.761.000 del ’79, e dai 9 milioni di elettori del ’72 agli oltre 11 milioni della pur negativa consultazione del 1979; e anche la sua presenza nelle amministrazioni locali risultava alla fine del decennio ben piú forte rispetto a prima11. 4. Con la morte di Moro e il fallimento della solidarietà democratica, però, un’intera strategia – fondata appunto sulla collaborazione tra i grandi partiti di massa, la centralità del Parlamento, la progressiva attuazione della Carta costituzionale con la costruzione di un’economia mista e di un sistema democratico articolato e partecipato – andava in crisi. Piú in generale, se la strategia gramsciana dell’egemonia aveva portato il Pci a costruire «trincee e casematte» nella società, ad «aderire a tutte le pieghe» della realtà italiana pur a partire da un solido ancoraggio di classe, questa stessa internità alla società italiana che era stato il principale punto di forza del partito, 10 G. Chiaromonte, Le scelte della solidarietà democratica. Cronache, ricordi e riflessioni sul triennio 1976-1979, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 167-73. 11 G. Pasquino, Il Pci nel sistema politico italiano degli anni Settanta, in La giraffa e il liocorno. Il Pci dagli anni ’70 al nuovo decennio, a cura di S. Belligni, Milano, Franco Angeli, 1983, p. 76.


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essendosi frantumato il progetto della sua trasformazione contro il muro della democrazia bloccata, delle resistenze conservatrici, delle forze reazionarie e degli apparati atlantici, cominciava a trasformarsi in integrazione, e all’idea del governo per il cambiamento iniziava a subentrare quella del governo ad ogni costo. Erano poste cosí le basi per la dissoluzione del partito, che procederà rapidamente dopo la morte di Berlinguer e piú ancora dopo l’emarginazione di Natta. Tuttavia, come sempre nella storia, questo esito non era inevitabile, e ben altri frutti si sarebbero potuti trarre dal patrimonio storico, dalla cultura politica e dalla tradizione del comunismo italiano, in stretto legame con quella Costituzione che attende ancora di essere integralmente attuata. Gli effetti della strada intrapresa dalla maggioranza del Pci negli ultimi anni di vita del partito sono oggi evidenti. Ma il fatto che ancora una quantità consistente di persone si richiami all’eredità del Pci, ne senta in qualche modo la «nostalgia», o comunque avverta la mancanza di un soggetto politico di quella statura, non pare senza significato. Cosí come non è senza valore il fatto che in altre latitudini del mondo, ad esempio in America Latina – anche qui con una filiazione diretta dal pensiero di Gramsci – nuovi percorsi di via democratica al socialismo siano sperimentati. In questo senso, siamo convinti che il patrimonio teorico e storico del comunismo italiano abbia ancora molto da dire, e che anche per questo la sua conoscenza critica non costituisca solo un arricchimento sul piano culturale, ma abbia ancora un indubbio valore politico.


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