Rifugio settimo cielo

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Irene Pampanin

Rifugio Settimo Cielo

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RIFUGIO SETTIMO CIELO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Irene Pampanin ISBN: 978-88-6307-309-6 Illustrazioni e immagine di copertina: Dolo Mitico

Finito di stampare nel mese di Settembre 2010 da Digital Print Segrate – Milano

Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi email, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.


RINGRAZIAMENTI DELL’AUTORE

Ringrazio il professore Andrea Basile per la paziente revisione dell’opera. Ringrazio inoltre tutte le persone che hanno creduto in questo libro, in particolare Kino.



Alla mia famiglia



Introduzione

Irene Pampanin, autrice Ora immagino dovrei parlarvi di questo libro, spiegarvi come è nato, le ragioni per cui l’ho scritto e magari “invogliarvi” a leggerlo… ma non lo posso fare. “Rifugio Settimo Cielo” non è chiuso in queste pagine, non è mai nato e non è mai finito. Non so se definirlo una enorme favola o una sorta di scatola dei segreti di quelle che da bambini nascondevamo sotto il letto con dentro i nostri piccoli “tesori”. Bastava poco a renderci felici, a farci credere di possedere qualcosa di magico. Era solo immaginazione ma ci aiutava a vivere. Ho quindi provato a raccontare con le parole la fantasia, ho cercato la “magia” dentro alle montagne, in Sole e Luna, nelle foglie, nel muschio, nelle cascate e nel cielo. Ma “la fantasia intinge sempre il suo pennello nella realtà prima di cominciare a dipingere”, così non ho potuto evitare di buttare me stessa sul foglio, insieme all’inchiostro, insieme alle storie di ogni giorno, quelle storie che, come dice Enis, “sono solo scatole di cartone finché non le apri” e allora escono farfalle. Qualche volta basta crederci, a volte fermarsi un secondo in più: “che dolce musica è il silenzio quando dice più delle parole”. “Rifugio Settimo Cielo” è questo: è silenzio, è il momento in cui mi sono fermata. È l’insieme di pensieri che mi ha dettato l’universo quando sono stata zitta ad ascoltarlo. La nostra vita è coperta da una maschera di nuvole ma basta un soffio per vedere il cielo…


Dolo-Mitico, illustratore Basta poco, solamente una penna e la voglia di lasciare piena libertà all’immaginazione, per creare qualcosa di unico. Ma è sicuramente la fantasia, che accomuna me e Irene, il punto di forza di questa opera dai vastissimi contenuti. È indubbiamente la fantasia l’elemento che origina “l’alchimia” da cui derivano le narrazioni raccolte in questo libro, nonché le illustrazioni presenti all’inizio di ogni capitolo che ho avuto il privilegio di poter curare personalmente. Quando Irene mi ha fatto leggere le sue creazioni, pian piano, goccia dopo goccia, palesemente chiusa nella sua timidezza, la sua grande dote di esprimere con poche parole dei concetti estremamente forti e profondi, caratteristica che salterà subito all’occhio di chi si accinge a leggere RIFUGIO SETTIMO CIELO, mi ha lasciato piacevolmente stupito. Ho scoperto che la sicurezza offerta dall’intimità dello scrivere consente a Irene di volare in alto, davvero fino a raggiungere il settimo cielo. Ed è da lì che inizia anche il viaggio del personaggio che ho creato per illustrare questi racconti. Dal settimo cielo, il regno dell’amore e della fantasia, della spensieratezza e dell’incontaminatezza, in una lenta discesa che lo conduce, appeso a un aquilone, fino al “Livello zero”, il mondo moderno il mondo della cruda realtà, il mondo dove la razionalità cerca di prevalere sulla fantasia. Ma in conclusione il giovane protagonista delle illustrazioni si addormenta e i sogni, la fantasia, vincono sulla realtà, perché è proprio questo il messaggio che Irene vuole esprimere con questa breve antologia: la fantasia non deve mancare mai; è un elemento imprescindibile che ci consente di non fermarci davanti alla vita reale dai toni chiaroscuri, che ci consente di superare gli ostacoli non saltandoli, ma addirittura sorvolandoli aggrappati alle ali della libertà dell’anima.


VANEGGIAMENTI D’ALTA QUOTA


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LA FAVOLA DELLE STELLE CADENTI

Vi era un tempo in cui la terra era popolata da tutti gli astri dell’universo. Non esisteva il giorno e nemmeno la notte, c’erano pianeti, gnomi e fate, le stelle crescevano come fiori nei cieli immensi di quel mondo perduto. Da qualche parte, tra i prati infiniti, alcuni uomini vivevano serenamente la propria esistenza priva di infelicità. Un unico sovrano regnava incontrastato sopra ogni cosa: tutti lo chiamavano “il re Blu” ed era un cielo. Cieli ve ne erano tanti ma solo lui era così grande da riuscire a coprire tutta la superficie della terra. Blu amava rifugiarsi da solo nel punto più alto della terra, ma nonostante questo qualcuno andava spesso a fargli visita. Le rocce riuscivano a parlare con lui e le montagne più alte arrivavano addirittura a guardarlo negli occhi. Erano amici, Blu e le montagne, tanto che un giorno le soavi pietre d’eternità lo invitarono a scendere giù, a guardare più da vicino quello che era anche il suo mondo. Il re dapprima oppose resistenza ma loro lo presero per mano e lo trascinarono dolcemente più giù… Blu rimase sorpreso nel vedere quante cose dall’alto non era mai riuscito a vedere. Sopra i tavoli le persone tenevano vasi con mazzi di stelle, sotto i funghi alcuni gnomi giocavano a nascondino, le fate lanciavano la loro polvere e dove essa si posava nasceva una stella. Il re rimase affascinato da quelle piccole luci, ma ecco che all’improvviso qualcosa di meraviglioso si alzò davanti ai suoi occhi: era una fanciulla vestita di bianco, tra le mani teneva una manciata di quelle stelle che le illuminavano il viso come fosse una perla rara perduta in fondo al mare. I dolci lineamenti di lei accarezzavano ogni cosa che sfioravano e Blu era ormai perso nella luce di quella ragazza con due laghi al posto degli occhi. Nessuno sa quanto il re rimase a fissare quella fanciulla ornata di stelle, forse minuti, forse giorni, forse anni. Luna era il suo nome, una nuvola la sua casa.


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Ma ecco che un giorno Luna non arrivò da sola. Vicino a lei qualcosa splendeva d’amore. Sole le camminava accanto; da quando l’aveva incontrata era diventata la ragione per continuare a brillare. Sì, lui brillava per lei e il suo amore lo scriveva in tutti i cieli e lo raccontava a tutti i mari e tutti sapevano, tutti dovevano sapere che loro erano legati per un tempo che oggi si chiamerebbe “eterno”. Blu sentì un sentimento di rabbia sconosciuto uscire dal suo cuore. Una saetta gli attraversò la pelle andando a schiantarsi su un albero lì vicino. Le montagne preoccupate si avvicinarono al re che in preda alla confusione chiese spiegazioni su quel che aveva appena visto. La roccia più coraggiosa cominciò a raccontare che Luna da anni partiva col suo cesto per andare a stelle. Ne raccoglieva tante perché quelle luci erano figlie delle fate e per questo contenevano un po’ della loro magia. Un giorno si scontrò con Sole. Anche lui andava a stelle. Dal loro scontro nacque qualcosa che nessuno dei due aveva mai provato, qualcosa di così speciale da non poter essere mai più distrutto! Allora lo chiamarono “Amore”. Da quel giorno in poi, chiunque voleva sapere che cos’era “Amore”, doveva guardare loro, Sole e Luna: lei che non brillava senza lui, lui che non viveva senza lei. Loro che insieme spargevano Amore su qualsiasi cosa toccavano. Blu zittì la roccia e d’improvviso si scatenò in lui una furia sconosciuta. La sua ira tuonò nel cielo, fulmini e saette cominciarono a colpire ogni angolo della terra, un diluvio di acqua si scatenò per la prima volta sul mondo. E fu il caos… Seminò terrore, paura, rabbia. Scaraventò tutti gli astri fuori dalla terra, le fate fuggirono impaurite in un regno sconosciuto, gli gnomi scomparvero alla vista di chiunque. Solo gli uomini seppero resistere alla terribile furia del cielo. Il re, reso cieco dall’amore per quella fanciulla, decise che lei e Sole non si sarebbero dovuti incontrare mai più. La strappò via da lui con tutte le sue stelle e la esiliò dalla parte opposta della terra. Vennero


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così il giorno e la notte, Sole e Luna destinati a inseguirsi per sempre senza incontrarsi mai. Blu mise fine ad Amore, o almeno così credeva… Quando la sua ira si placò, si accorse di avere cancellato parte del suo mondo: ora nemmeno le montagne osavano più toccarlo. Radunò le ultime stelle e le portò via con sé. Raccolse le lacrime di Luna e le lasciò ricadere piano. Per la prima volta nevicò. Decise di salire su, più in alto e più lontano possibile, dove non avrebbe più potuto ferire nessuno con le proprie mani, pentito per sempre di quel che aveva fatto. Quando per la prima volta calò la notte lanciò le stelle verso il mondo come fossero una richiesta di perdono, ma le dolci luci si fermarono a mezz’aria, incapaci di tornare su una terra che da quel momento in poi sarebbe stata condannata alla distruzione. E così fu. Sempre più uomini cominciarono a popolare la terra e sentimenti di rabbia, egoismo e violenza cominciarono a farsi strada tra la gente, fino al giorno d’oggi. Ma l’amore no, non finì… Sole e Luna si amano e amano ancora. I sogni delle persone non sono altro che nuvole che salgono piano sopra le montagne, l’unico posto in cui possono essere liberi. E da lì salgono più su, fino a Sole, fino a Luna. Ogni qualvolta uno dei due ascolta un desiderio, prende una stella dal suo cesto e la lancia nel cielo per farla arrivare fino alle mani dell’altro, per dirgli che ancora qualcuno ama e che allora il loro Amore non è mai andato perso. Anche Blu è stato perdonato. Il re prima della notte si fa da parte e permette a Luna e Sole di incontrarsi per un istante. Il tramonto non è altro che un loro bacio, le stelle cadenti dei fiori appartenuti a un mondo perduto di milioni d’anni fa, che Luna lancia al suo Sole e che il cielo si occupa di spargere sulla terra per ricordare a tutti che lassù ancora vive Amore.


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PAROLE PER LUNA

Mi hanno chiesto di scrivere e ho scritto. Ho raccontato di angeli e fate, di cieli e di stelle. Ma quella che vi narro ora è la storia di come tutto ciò è stato possibile, di come nacquero poeti, pittori e musicisti. Tutto iniziò quando il re Blu, cielo incontrastato sul mondo, impazzì di gelosia alla vista della sua Luna perdutamente innamorata di un certo Sole. Accecato dall’ira il re divise per sempre i due amanti, spargendo per la prima volta sulla terra sentimenti d’odio, terrore e rabbia. Seppur crudele, il suo gesto venne perdonato ma fu impossibile riavvicinare Sole e Luna, destinati a inseguirsi per sempre, incrociandosi a volte in un tramonto. Il re pentito cercò invano di rimediare. Fu così che per la seconda volta nella sua eternità scese sul mondo. Sapeva cosa voleva e sapeva dove cercare. Un po’ imbarazzato strisciò tra i boschi e le montagne, lasciando tracce d’azzurro ovunque passasse. Arrivò fino a un grande prato accarezzato da un dolce fiume. Lì si posò alla ricerca dell’uomo giusto. Cercò tra gli umani, cercò infinitamente nello sguardo delle persone quella che gli serviva. Poi eccola, era lei quella giusta: aveva capelli lunghi lasciati al vento e mani di chi accarezza la natura con la punta delle dita. Teneva dietro all’orecchio un fiore a forma di stella come se volesse lanciarlo nel cielo, come se credesse davvero che così facendo si sarebbe avverato un sogno. Aveva gli occhi profondi di chi ancora si sa emozionare e quando sorrideva spargeva Amore. Ma, cosa fondamentale, aveva labbra che non avevano bisogno di parlare per farsi capire. Blu le chiese quale fosse il suo nome: si chiamava Antares. Il re la condusse verso le montagne, le chiese di salire su, dove avrebbe potuto sentire le parole di Sole. La ragazza era proprio come credeva, dolce e generosa, sensibile quanto serve per tradurre le parole di un astro innamorato. Antares salì più in alto che poteva, le mancava ancora poco ma la montagna non era abbastanza alta. Fu così che la roccia secolare decise per amore di lasciarsi accarezzare.


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Un’aquila dalle ali d’argento cominciò a beccare i contorni eterni. Schizzi di polvere di fata volarono su tutte le montagne regalando a esse l’incanto che tutt’oggi possiedono. Quando l’aquila dopo cento anni terminò il suo lavoro, sulla cresta del monte si vide sporgere una roccia verticale, simile a un dito che indica il cielo. La prima scultura non fu quindi opera umana ma di un animale che da quel giorno fece delle montagne la sua casa. Antares salì sull’enorme dito di roccia. Il re Blu le aveva affidato un compito importante: ascoltare le parole di Sole per portarle poi alla bianca Luna. Sole fu sorpreso nel vedere la ragazza tanto vicina a lui ma in lei vi era l’unica speranza di parlare con la sua Luna, così prese a dire: «Vorrei fare di te una favola, per raccontarti con la luce delle stelle, leggerti con il mio cuore e addormentarmi con te vicino. Per viverti come se fossi qui, sognarti come se potessi tornare davvero, riprenderti di nuovo dopo che sei andata via. Vorrei fare di te una favola, per riscrivere quel “c’era una volta”, per portarti fino all’ultima pagina dove troveresti di nuovo le parole “per sempre”.» Antares commossa fu incapace di parlare e, timorosa di perdere quelle parole nella sua mente, cercò disperatamente un modo per renderle indelebili. Il re Blu venne in suo aiuto. Le disse di prendere una piuma dell’aquila d’argento e intingerla nella notte del suo cielo. Allora la ragazza prese tra le mani una delle morbide piume, tese il braccio verso il re e intinse la penna nella notte. Ecco che nero inchiostro cominciò a sgorgare dal cielo… Antares poggiò la punta della piuma su di una roccia e scrisse le parole di Sole. Fu così che per la prima volta venne scritta una poesia. Ma quando il re Blu trasportò la ragazza fino al capo opposto del mondo, si accorse che quelle parole scritte così piccole su una roccia non potevano arrivare fino alla Luna così lontana. Serviva qualcosa che le rendesse più grandi, più forti, un linguaggio che chiunque potesse capire. Antares cominciò a pensare a cosa fosse uguale in tutto il mondo: il rumore delle cascate, il canto degli uccelli, il battito del cuore, il cigolio dell’arcobaleno quando si appoggia timoroso sulla terra. Antares intinse nuovamente la piuma nella notte e scrisse per la prima volta la parola “musica”. Qualche goccia di stella cadde


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insieme all’inchiostro scuro e lo sappiamo, le stelle sono magiche perché nascono dalle fate. Fu così che da quelle poche gocce che componevano la parola “musica” uscì un batuffolo d’uomo, Rufus, e sapeva già suonare. Aveva labbra bisognose di cantare per parlare. Antares lo prese con sé, gli fece leggere le tenere parole e Rufus cominciò a creare con il rumore dell’acqua delle cascate il suono di quello che oggi chiameremmo “pianoforte”. Così musica e parole diventarono un tutt’uno, insieme più forti, così forti da arrivare ovunque, anche all’altro capo del mondo. Antares e Rufus affidarono la loro canzone a un angelo. Volò in alto, sempre più in alto, la musica attraversò anche la pelle delle montagne e sulle rocce nacquero le prime stelle alpine. Tutti udirono, ogni mare cominciò a commuoversi e da ogni onda nacque una nuova conchiglia. Quando la canzone raggiunse Luna, ella pianse, pianse tanto, un po’ per gioia, un po’ per nostalgia. Ma era felice perché sapeva d’essere amata e ancor più felice era perché il suo cuore scoppiava d’amore. Le sue lacrime non potevano essere altro che ancora amore. Tanto amore che infine, lentamente, colò sulla terra. Un bambino curioso e pieno di fantasia lo raccolse tutto in un vaso e con quelle lacrime cominciò a dipingere il mondo. Così nacque il primo pittore che disegnò con una colata d’amore i primi baci e il “primo amore”, proprio quello che non si scorda mai. Grazie a questa favola nacquero poeti, pittori e musicisti ma non solo… Il re Blu decise di ricompensare Antares e Rufus nel giusto modo: fece scolpire su una montagna un’enorme sedia così che il musicista potesse salirvi ogni volta lo desiderasse per far sentire a tutto il mondo e a tutti i cieli la sua musica. Se guardate nel cielo, vi accorgerete che il cuore di una costellazione porta il nome di Antares. Il re Blu per ringraziare la giovane poetessa, decise di dare il suo nome a una stella… Antares.


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DOVE SI BACIANO LE MONTAGNE

Ero abituata a stare in alto, molto in alto, quasi all'altezza del cielo. Anzi, potrei giurare d'averlo toccato qualche volta. Giocavo addirittura con le nuvole o con le gocce di rugiada del primo mattino. Mi sentivo grande lassù. Governavo incontrastata sopra ogni altra cosa, l'idea di cadere verso il basso non mi sfiorava nemmeno. Avevo potere perché avevo la fortuna d'essere nata in alto. Ero bella, bella perché la natura mi aveva fatto il dono di nascere come un fiore su un albero di pesco. Nemmeno il sole si stancava mai di avvolgermi. La pioggia mi accarezzava senza osare fermarsi su di me. Quel che accadeva altrove, più in basso, non lo immaginavo minimamente. Io avevo tutto. I giorni passavano e stavo bene. Quel che vedevo affacciandomi verso il mondo non cambiava mai e questo mi aveva convinta a credere che non esistesse nulla di più. Tutto quello che potevo desiderare era proprio lì, attorno a me. Sentivo spesso dire che esisteva ancora qualcosa oltre a noi ma non ci credevo. Se fossero esistiti altri mondi sicuramente li avrei visti prima di chiunque altro. Non saprei dire quando cominciò esattamente ad accadere quella strana cosa che veniva definita "la colata dell'oro" ma fu quella che mi cambiò l'aspetto e ancor di più la vita. Credevo che la mia perfezione sarebbe durata per sempre, ma la colata non risparmiò nessuno. Il sole cominciò a farsi nemico della mia pelle, lanciandomi addosso il suo colore. La pioggia si aggrappava al mio corpo, strappando ogni volta una parte di me. Ero diventata così delicata che dovevo sorreggermi con tutta me stessa per restare lassù. Ma più il tempo passava più lo sconforto si appropriava di me. La mia bellezza se ne stava andando, e oltre a essa non avevo niente. Mi rendevo conto di aver sempre vissuto insieme ad altre come me, milioni d'altre come me, ma che in fondo io ero sola. Nemmeno quella che era sempre


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stata la mia casa sembrava preoccuparsi della malattia che mi stava divorando. Non avevo nulla. Così aspettai un giorno di cielo azzurro e mi lasciai andare. Il vento soffiava dolcemente, quasi a volermi aiutare. Mentre cadevo verso il basso guardavo con gli occhi la cima che stavo abbandonando. Aspettavo di arrivare a terra e morire. Volevo urlare ma, ahimè, la dote di far rumore nessuno me l'aveva mai data. Continuavo a scendere lentamente, quasi stupita dalla mia lentezza. Forse qualcuno non voleva che mi facessi male... All'improvviso qualcosa di freddo sfiorò le mie spalle. Mi ritrovai in un istante sommersa nell'acqua, volteggiando su me stessa, sbattendo su ogni sasso che incontravo. Pensai che quella era la punizione che mi spettava per essere stata così attenta solo a me stessa. Invece poco dopo tornai a galla, trascinata dalla corrente che mi portava ancora più giù. Il mio viaggio non era ancora finito. L'acqua mi spingeva avanti, a destra e a sinistra, chissà cosa voleva farmi vedere. Io mi lasciavo trasportare inerte, senza alcuna speranza, con gli occhi spalancati a guardare ogni cosa perché sarebbe potuta essere l'ultima da un momento all'altro. Mi accorsi con sorpresa che la colata d'oro doveva essere caduta in qualche modo anche dentro al mio torrente. Oltre la trasparenza dell'acqua vedevo qualcosa di giallo che brillava e assomigliava al colore che il sole aveva lasciato su di me. Mentre andavo verso il mio aldilà attraversando quello strano luogo, lanciai lo sguardo verso la mia vecchia casa. Da lì sembrava ancora più grande e mi resi conto che io non ero altro che uno dei tanti frammenti che la costituivano. Il cuore mi si riempì di tristezza ma nello stesso tempo nacque in me una curiosità nuova. Cosa mi accadeva intorno mentre galleggiavo correndo verso una meta sconosciuta? Com'era fatto quel mondo alla cui esistenza avevo sempre rifiutato di credere? L'acqua sembrò udire i miei pensieri e mi trasportò sopra le sue piccole cascate perché potessi vedere oltre i sassi che abitavano il torrente. Anzi, mi sembrò quasi di sentirla cantare. A ogni scontro di gocce corrispondeva un suono meraviglioso. Unito al rumore del vento e a quello del bosco, sentii per la prima volta nella mia esistenza "la musica della natura".


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Cominciai a guardare con attenzione: la colata d'oro era ovunque. Ogni cosa era arancione, rossa, dorata. Mi parve quasi che anche il cielo non fosse più azzurro. Tutto era come me. Uno scoiattolo saltellava tranquillo e da lontano qualcuno rideva facendo schizzare l'acqua fredda del torrente. Più avanti dei bambini giocavano a prendere al volo le foglie che i rami lasciavano cadere e qualcun altro le raccoglieva con cura in sacchetti rossi. Alcune maestre parlavano di faggi e betulle e qualche appassionato pittore dipingeva il bosco su una tela bianca. Il torrente iniziò a scendere più forte, per un momento persi di vista tutto. Poi ecco di nuovo la luce. Non c'era più nessuno. Solo io, il vento e l'acqua. Ma ecco che qualcuno mi raccolse. Mi ritrovai tra le mani di una ragazza. «Guarda questa che bei colori! È meravigliosa!» disse. Qualcuno alle sue spalle rispose. «Sì, la natura non sbaglia mai.» Mi prese dalle mani di lei e mi lasciò ricadere delicatamente in acqua... Mi sentii incredibilmente più leggera di prima con una nuova rivelazione nel cuore: ero un frammento che costruiva la mia casa ma anche la mia casa era un frammento che costruiva il bosco e il bosco un frammento che costruisce la natura. Allora siamo tutti frammenti del mondo ma tutti fondamentali perché il mondo sia così perfetto. Con un guizzo l'acqua mi lanciò avanti. Di fronte a me due montagne timide si sfioravano, anche loro colpite dalla colata d'oro. Mi resi conto che forse non era una malattia ma un regalo del sole per proteggere tutto dal freddo della neve. Un regalo affinché dopo l'inverno tutto potesse rinascere più forte a primavera, per germogliare di nuovo e ridare una nuova giovinezza alla natura che, così facendo, sarebbe vissuta per sempre. Piena di speranza, contenta dell'oro sul mio corpo che piano mi spargeva nell'acqua, mi ritrovai dove il fiume finiva e diventava mare. Ormai non restava quasi niente di me, il mio viaggio era terminato lì. L'acqua aveva voluto farmi vedere quello che non conoscevo, farmi capire che tutti sono importanti affinché il ciclo della vita continui e che la vita non finisce quando si arriva al mare ma continua infinita...


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Io ora sono di nuovo in cima a una betulla a sfiorare il cielo e giocare con le nuvole. Ma questa volta sorrido perchĂŠ so che la mia vera bellezza si nasconde oltre il verde di una foglia a primavera. Ora aspetto la colata d'oro per ricadere nell'acqua e poter dare vita ancora alla natura. Voglio tornare lĂŹ dove le due montagne si sfiorano per sorprenderle un giorno mentre si baciano...


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MONDO MUSCHIO

Non si può dire che Jenny fosse come tutti gli altri, ma di certo nascondeva nel cuore la voglia di vivere tipica dei bambini della sua età. Era sorridente, Jenny, era come un prato sconosciuto, mai calpestato, era abbastanza grande per immaginare ma forse ancora troppo piccola per capire cosa vuol dire andarsene per sempre. Erano trascorse poche settimane da quando giocava a lanciare i sassi nell’acqua col fratellino più piccolo. Matias aveva appena due anni e due grandi occhi azzurri. «Nenny, Nenny!» gridava per chiamare la sorellina. Poi le correva incontro e le stringeva le gambe barcollando un po’. L’estate tra le montagne per loro era una boccata di libertà e mentre i genitori erano indaffarati con i lavori domestici, toccava a Jenny badare al fratellino. Non che la cosa le dispiacesse. Adorava portarlo a conoscere ogni cosa del bosco, inventando storie fantastiche quando lui le chiedeva il perché delle cose. Spesso si divertivano a costruire piccole dighe nell’acqua o a dare briciole di pane alle formiche. Altre volte fingevano di avere una casa sotto i rami degli alberi e che gli indiani venissero a prenderli da un momento all’altro. Allora Jenny raccoglieva le piume e le incastrava dietro alle orecchie del fratellino ponendogli un ramo come arma di difesa. Il piccolo Matias rideva divertito buttandosi sull’erba tra il muschio profumato. «Nenny perché è così morbido questo?» chiese alla sorella. «Questo è muschio. È morbido perché così quando gli animali hanno sonno e vogliono andare a dormire, sanno dove trovare un letto comodo.» Anche loro si addormentarono lì in mezzo, dolcemente. Al suo risveglio, Matias richiamò l’attenzione della sorella saltandole in braccio. Tra le piccole mani teneva un pezzetto di muschio. «Dove lo porti quello?» domandò Jenny. «A casa, così quando torniamo in città lo metto sulla finestra e ci vengono a dormire gli uccellini.» La notte di quel giorno che si era concluso in maniera stupenda, la bambina sentì i genitori gridare, correre su e giù per le scale e poco


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dopo una sirena. Scese dal letto a piedi scalzi e aprì la porta della cameretta: Matias era in braccio al padre, pallido, sudato, con gli occhi semichiusi. Jenny gli corse incontro. Respirava a fatica ma sorrise vedendola. «Nenny» disse con un filo di voce. «Allontanati Jenny, ti prego torna in camera!» tuonò il padre con un accento di disperazione nella voce. La bambina si avvicinò al fratellino. Tra le mani teneva ancora il pezzetto di muschio. Allungò il braccio verso di lei e lo lasciò ricadere nella sua mano. «Per gli uccellini, Nenny, per gli uccellini!» In quel momento la madre la prese in braccio e la portò via. Il giorno dopo Matias non c’era più. Le dissero che era andato in cima alle montagne e che il cielo, per sbaglio, lo aveva rapito scambiandolo per una sua stella. Jenny… Jenny era una bambina, Jenny aveva l’immaginazione e Jenny ci credeva. Ma Jenny non era poi così piccola da non capire che il fratellino non sarebbe mai più tornato. Nonostante questo, non versò nemmeno una lacrima. Prese il muschio e lo chiuse in una scatola vuota di biscotti per portarlo in città. Una volta tornata a casa, però, la piccola Jenny non fece che chiudersi in se stessa, dimenticando quella scatola e dimenticando anche tutti gli altri giocattoli. Era stata catapultata troppo presto in un mondo che non riusciva a comprendere. La notte si svegliava gridando il nome di Matias. Non bastavano le carezze della mamma a consolarla e non bastava parlare con una stella per riuscire a raccontare ancora le favole a suo fratello. Il grigiore della città la soffocava. Credeva quasi che tornando tra le montagne il cielo le avrebbe restituito Matias. Non era possibile che il cielo potesse tenersi una cosa che non gli apparteneva! Allora viveva in un’attesa che le dava speranza ma la distruggeva nello stesso tempo, non riusciva a darsi risposta a tante, troppe domande. Fu nella noia di un monotono pomeriggio che, aprendo un cassetto, Jenny ritrovò la scatolina con il muschio. Quando l’aprì tutti i ricordi cominciarono a impossessarsi della sua mente. Paura, tristezza, nostalgia, solitudine. Mille emozioni in un solo momento.


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Quella sera, prima di andare a dormire, mise il “morbido verde” sul davanzale della finestra aperta. Forse sarebbero arrivati gli uccellini a dormire… Mentre il buio avanzava e la luna si faceva più alta nel cielo, qualcosa risvegliò la bambina: era certa d’aver sentito un rumore provenire proprio dalla sua finestra. Socchiuse gli occhi tirandosi la coperta fin sopra al naso. Il pezzetto di muschio si muoveva. Ne era certa. Spaventata scese dal letto e piano piano gli si avvicinò. Qualcosa cercava di uscire dallo strano pezzetto di bosco. Incuriosita avvicinò il suo visetto delicato alla strana creatura e qualcosa la colpì al naso. «Ahi!» gridò. «Scusa… ehm… non sono ancora molto allenato!» rispose una voce birichina. Dal muschio uscì un minuscolo omino con un arco più grande di lui. Si avvicinò alla bambina e raccolse la morbida freccia che per sbaglio le aveva lanciato addosso. «Ma chi sei?» chiese stupita Jenny. «Sono il Grande Capo Ike, il leggendario guerriero, ma puoi chiamarmi solo Ike.» «Ma… da dove vieni?» «Mi sembra ovvio, dal muschio! Quanto tempo ci hai tenuti chiusi in quella scatola!» «Tenuti?» «Sì, mamma e papà credevano fosse arrivato l’inverno prima del previsto, ma gli indiani più saggi hanno capito che in realtà il nostro Mondo Muschio era semplicemente stato spostato.» Jenny rimase sbalordita a fissare l’omino davanti a sé o, meglio, il bambino indiano della città del muschio. «Ike! Dove sei? Torna subito a casa!» si sentì gridare improvvisamente. «Devo andare ma tornerò… ciao Nenny!» Come l’aveva chiamata? Nenny! Come Matias… come faceva a sapere il suo nome? La bambina tornò a letto. Per la prima volta dopo tanto tempo qualcuno era riuscito a trasmetterle un filo di allegria. La mattina seguente raccontò tutto ai genitori che risero divertiti per la storia “inventata” dalla figlia. Ma non era un’invenzione.


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Appena arrivò il buio e Jenny fu sotto le coperte, si sentì colpire nuovamente sul naso. Stavolta si alzò senza paura per andare al Mondo Muschio. Ike uscì gattonando e sorridendo. «Augh Nenny… vuoi giocare con me?» «Ciao, a cosa vuoi giocare?» Ike si grattò il mento pensieroso. «Possiamo dare da mangiare alle formiche!» «Quali formiche?» «Quelle!» Il bambino indiano indicò col dito il davanzale e improvvisamente cominciò a salire una lunga schiera di formiche in fila. «Wow!» gridò Jenny. «Vado subito a prendere del pane!» Scivolò di nascosto in cucina e salendo su una sedia si arrampicò fino alla cesta del pane. Ne prese un pezzetto e lo portò in camera sua. «Tieni Ike, lo dobbiamo sbriciolare così le formichine non faticano a portarlo via.» «Che bello Nenny!» Cominciarono a fare tante tante briciole che i minuscoli animaletti raccoglievano e portavano via. Jenny era divertita e sorrideva mentre il minuscolo bambino lanciava molliche per aria saltellando e ridendo a squarciagola. Passarono quasi tutta la notte così. Il giorno dopo, i genitori di Jenny, la trovarono addormentata sul davanzale. Ma questa volta non presero bene il racconto della figlia. Lei raccontò con grande gioia quella storia ma loro pensarono si trattasse di qualche strana forma di pazzia dovuta al trauma della perdita del fratellino. Ma anche quella notte Ike tornò. Dal Mondo Muschio estrasse una piuma e la mise tra i capelli di Jenny. «Ecco, adesso sei indiana anche tu! All’attacco!» La bambina sorrise, era un po’ come riavere Matias. «A che cosa giochiamo stanotte?» «A lanciare i sassi nell’acqua! Che ne dici?» «Ma quale acqua? Qui ci sono solo palazzi…» «No, guarda meglio.»


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Jenny strizzò gli occhi e d’improvviso la strada sotto di lei diventò un enorme fiume calmo. «È meraviglioso!» La bambina sorrise con gli occhi brillanti e con Ike al suo fianco. Cominciarono a lanciare sassolini nell’acqua, sassolini che, come per magia, il Mondo Muschio sputava in continuazione tra le loro mani. Ogni notte i due inventavano un gioco nuovo. Jenny cominciò a sentirsi meno sola e a ritrovare l’allegria che aveva perso. Non solo, si risvegliò in lei anche la parte “bambina” che aveva sepolto. La sua immaginazione tornò viva e fantastica. I genitori la lasciavano sognare. Non le credevano, ma capivano che quel suo mondo immaginario la rendeva felice. Così la ritrovavano tutte le mattine addormentata sul davanzale, a volte con accanto delle briciole, a volte con delle piume tra i capelli e altre volte con dei sassolini nella mano. Finché anche lei non fu colpita da quella strana cosa che si chiama “diventare grandi”. Una notte Ike disse a Jenny che non sarebbe più tornato. «No! Perché? Dove andrai?» chiese preoccupata la bambina. «Rimango nel Mondo Muschio. Sarai tu a non vedermi più.» rispose il minuscolo indiano. «Non è vero! Ti vedrò, come sempre!» «Non mi vedrai, ma ci sarò.» Gli occhi di Jenny si riempirono per la prima volta di lacrime. «Credevo fossimo amici! Perché te ne vai? Non è giusto!» «Nenny, adesso sei pronta per regalare i tuoi sorrisi alle persone che hai intorno. Io andrò dove qualche altro bambino ha bisogno d’aiuto. Ma sarò sempre con te. Sarò nel Mondo Muschio, nei sassolini, nella piuma o nelle stelle. Cercami dove vuoi e mi troverai.» «Verrai rapito anche tu dal cielo?» disse la bambina disperata. «Io sono già parte del cielo eppure la tua speranza, i tuoi sogni e la tua immaginazione mi hanno portato da te.» Ed era vero. Jenny aveva immaginato così tanto il suo fratellino che era riuscita a farlo rivivere nel suo cuore. E se anche ora non l’avesse mai più rivisto, nessuno glielo avrebbe mai potuto portare via dai sogni. Allora sorrise, senza capire il perché, ma sorrise, pronta a raccontare le favole ad altri bambini.


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La mattina dopo quando si svegliò, il sole entrò delicatamente dalla finestra. Jenny guardò verso la luce e rimase stupita nel vedere che sopra il Mondo Muschio ora c’era un bianco uccellino che dormiva. «Matias…» sussurò sorridendo. E questa volta non stava immaginando tutto. La piccola colomba era veramente lì. Aprì gli occhi e sbattendo le ali si voltò verso Jenny. Lei rimase a guardarla sentendo intorno a sé che il suo fratellino c’era. Il cuore cominciò a batterle più forte, sorrise piangendo, felice di quell’ultimo regalo e certa di poter parlare con Matias ogni qualvolta lo desiderasse. Ma ora l’unica cosa che voleva era andare di là e abbracciare i suoi genitori. Corse in cucina e senza apparente motivazione saltò tra le braccia della madre che stupita dall’improvvisa serenità della figlia, pianse lacrime di vera gioia. Nello stesso istante, sopra il Mondo Muschio, la colomba spiccava il suo volo verso il cielo, verso chissà quali altri infiniti…


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LA CASCATA PIANGENTE

Lei era lì, proprio davanti a me. Limpida e pura, acqua di sorgente. Io, albero nella terra, volevo lei più di ogni altra cosa al mondo. Ogni giorno la vedevo scorrere triste, piangere gocce di rugiada dai suoi occhi trasparenti. Non avevo mai visto cascate belle come lei. Sarà che forse in questo bosco vi ho sempre vissuto, sempre qui, nel mio piccolo angolo di terriccio fertile. Quante cose hanno visto i miei aghi ormai stanchi! Quando ero piccolino non riuscivo mai a vedere cosa c’era oltre gli altri alberi, erano tutti troppo alti per me e io avrei dovuto attendere molti secoli per diventare come loro. Poi quel giorno arrivò. Più crescevo, più riuscivo a scorgere oltre il folto del bosco una visione quasi magica. Azzurra, chiara e bellissima, la cascata stava proprio davanti a me. Malinconica nei suoi guizzi d’acqua dolce, era come se qualcosa turbasse il suo scorrere sereno. Quante volte avrei voluto andare da lei! I miei rami non diventavano mai abbastanza grandi per poterla raggiungere e io ogni giorno provavo a inclinarmi verso di lei. Non riuscii mai nemmeno a sfiorarla. Per lei diventai l’albero zoppo del bosco. Tutti gli altri erano alti quasi sino al cielo, io invece ero ormai piegato verso la mia dolce cascata. Qualche boscaiolo ogni tanto si fermava a riposare sulla mia vecchia corteccia mentre le formiche mi solleticavano le radici. Era bello sentirsi utile per qualcuno, ma quanto avrei voluto essere un uomo anche io! Quante volte ho sognato di essere un bambino e di poter bere l’acqua pura della cascata piangente. Se avessi avuto il dono di trasformarmi in qualcos’altro, allora forse sarei diventato il fiume che raccoglieva il suo pianto. L’avrei portata con me per sempre, fino al mare. Insieme saremmo stati un’unica onda che infrangendosi sulla riva non sarebbe mai morta. Poi ecco che un giorno arrivarono i boscaioli. Erano molti, più del solito ed erano armati: accette, corde e altri aggeggi a me sconosciuti.


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Uno di loro chiese qualcosa all’altro. Egli annuì. Allora il primo boscaiolo prese l’accetta e cominciò a colpirmi con violenza sul fianco destro. Capii che stavano per uccidermi. Ancora qualche istante e sarei caduto a terra. La lama nel mio tronco non mi provocava alcun dolore, l’unica ferita si stava aprendo nel mio cuore. Non avrei mai più rivisto la cascata piangente e nemmeno le stelle che si riflettevano su di lei. Piansi resina amara e caddi in un sonno profondo. Da quel momento passarono anni, forse secoli o forse poche ore che a me parvero eterne. Riaprii gli occhi, mi ripulii dalla terra. Ero in paradiso? No, ero di nuovo nel mio angolo di terriccio dello stesso bosco! Come era possibile? Ero di nuovo piccolo! Ero nato di nuovo! La cosa più sorprendente fu rendermi conto che stavo ricrescendo proprio accanto alle radici del mio vecchio tronco. Ed ero sempre io, stessi pensieri, stessi colori, stessi aghi e stesso unico amore: la cascata. Un guizzo d’allegria attraversò i miei rami! Che gioia rivederla! Mi bastò un momento per rendermi conto che ora avrei dovuto crescere e diventare alto di nuovo per poterla vedere oltre gli altri alberi del bosco. Avrei dovuto aspettare ancora altri secoli e non mi restava altro da fare. Quando finalmente riuscii a guardarla, ebbi un fremito, più forte di quello provocato dal vento: lei non c’era più. Il fiume era asciutto, e alla sommità della roccia si intravedeva una specie di grande muro nero che bloccava il corso dell’acqua. Gli uomini l’avevano imprigionata e uccisa lì dentro, in quella vasca di cemento. Inerme, non potevo fare nulla. Nel letto del fiume si intravedeva ancora qualche sua lacrima ma nessun bambino andava più a giocare con lei. Lei, la mia cascata eterna, ora non era più mia, né della natura, né di Dio. Ora, era solo dell’uomo. Avevano ucciso lei, come avevano ucciso me.


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Il mio destino adesso sarĂ di rinascere ancora. Ma non sarĂ cosĂŹ per sempre. Un giorno gli uomini si pentiranno del male che ci stanno facendo. Ora hanno rubato lei, la mia linfa vitale, il mio ossigeno e un giorno, da soli, si taglieranno il loro.


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RIFUGIO 7° CIELO

C’era una volta Nulla, il paese senza confini. Sorgeva in mezzo alle montagne più belle del mondo. Ogni mattina Isis guardava nascere l’alba e per ogni alba, le sembrava di vedere nascere una nuova montagna. Spesso si chiedeva se durante la notte le stelle si divertissero a dipingere nuove rocce cancellandole prima dell’arrivo del sole, permettendo così solo ai sognatori di vederle per un momento. Ma la sua tela era vuota, i colori accantonati in un angolo. Si fermava a guardarla per lunghi minuti senza trovare il coraggio di poggiarvi il pennello sopra. Era la sua ultima tela, non poteva permettersi errori. Fissava il bianco immaginando i colori da usare e il soggetto da dipingere. Ma nulla. Preparava la tavolozza, mescolava bianco e blu, rosso e giallo, ma ogni volta che i colori erano pronti, li lasciava seccare aspettando un momento migliore e così il suo quadro non era mai concluso e mai iniziato. Dall’altra parte di Nulla, Kinai aveva davanti a sé un pianoforte. Ogni notte apriva la finestra e cominciava a suonare, quasi volesse cantare una ninna nanna alle sue montagne. Con le mani sul piano e gli occhi verso il cielo, lui sapeva bene quali tasti doveva premere: non erano altro che le note della sua anima che lasciava libere di volare anche oltre i confini mai scoperti di Nulla. Non c’era limite che non potesse superare con la forza del suo piano. Nessuno dei due sapeva dell’esistenza dell’altro. Nessuno dei due sapeva che a Nulla c’era qualcun altro che amava così profondamente le montagne. Lei le vedeva da lontano e le sentiva respirare ogni volta che volgeva gli occhi al cielo. Lui le accarezzava ogni giorno e non si stancava mai di guardarle dormire. Entrambi fantasticavano sulla nascita di quelle rocce eterne. Finché un giorno il vento portò una notizia clamorosa: un enorme fossile, vecchio di millenni di anni, si era offerto di raccontare come nacquero veramente le montagne. L’appuntamento era al centro di Nulla, il primo giorno di neve, sopra l’orologio di ghiaccio. L’orologio era posizionato in orizzontale, le lancette erano un ragazzo e una ragazza con i pattini che, in base all’ora, si spostavano lungo il cerchio


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ghiacciato. Il vecchio fossile guardava con aria stanca le poche persone accorse a sentire la sua storia. Faticava a parlare, quelle cicatrici di conchiglie gli facevano male ma non le avrebbe fatte curare per nessuna ragione. Tico credeva che le cicatrici del suo passato sarebbero state fondamentali per il suo futuro, in fondo ognuna di esse gli aveva sempre insegnato qualcosa, anche la storia delle montagne. Isis guardava con impazienza verso l’orologio. Non c’era molta gente e le persone presenti sembravano essere una la fotocopia dell’altra. Era come se ognuna di esse cercasse di adattarsi alle altre per non essere esclusa. Isis si sentiva diversa e un po’ a disagio. Le sembrava che tutti la stessero guardando. Aveva lunghi capelli lasciati “al caso” che spesso si divertivano a coprire i suoi occhi azzurri. Il morbido maglione bianco che indossava le ricopriva il mento e i jeans leggermente strappati non lasciavano intendere nessuna malizia. Eppure Isis si sentiva osservata, forse proprio per la sua diversità. Guardando il pavimento, cominciò a immaginare di essere chiusa in una nuvola e che tutto il mondo fuori fosse solo frutto della sua fantasia. Senza voltare gli occhi alla gente, andò a sedersi su un tronco di neve dove sicuramente non sarebbe venuto nessuno. Kinai si avvicinò all’orologio. I due ragazzi con i pattini segnavano l’ora del “primo giorno di neve”. Il fossile Tico sarebbe arrivato a momenti. Molte persone avevano già preso posto sulle sedie di sasso in mezzo alla piazza. Kinai si guardò un po’ attorno fermandosi ad ascoltare. La gente parlava di cose prive di purezza e semplicità. Lui non era interessato a quei discorsi sulla moda, a quei pettegolezzi inutili e nemmeno a quei locali che tutti andavano cercando. Così Kinai preferì andare a sedersi lontano dal mondo superficiale, vicino alle cose vere. Trovò posto tra i petali di una ninfea arenata su una spiaggia di neve. Si sdraiò su di essa e voltando gli occhi verso l’orizzonte, vide in lontananza una ragazza, sola, su un tronco di neve. Tico arrivò rotolando pesantemente nella piazza. Le conchiglie della sua pelle si fecero profonde rughe mentre il fossile cominciava a parlare. «Le montagne, le Dolomiti, non sono altro che pesci signori, nient’altro che pesci.» Il vecchio muoveva lentamente le labbra, qualcuno tra il pubblico si divertiva a deriderlo. Isis e Kinai trattenevano il respiro nell’attesa di ogni parola pronunciata da Tico.


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«Millenni e millenni fa, c’era solo il cielo. A volte il suo Custode si divertiva a girarlo sotto sopra e allora diventava mare. Amava talmente tanto il rumore dell’acqua che decise di popolare quell’immensità blu con delle creature il cui compito fosse solo amare.» La folla cominciò a bisbigliare, interrogandosi sul significato di “amare”. Pochi fino a quel momento avevano conosciuto il vero senso di quelle cinque lettere, molti si erano avventurati negli infiniti labirinti di quella parola. Isis si era persa in uno di quei labirinti. Tante volte si era scontrata contro false uscite, troppe volte aveva sbagliato strada, finendo in trappole nascoste. Non poteva trovare l’uscita da sola e nessuno le aveva mai tenuto la mano fino alla fine. Ora era stanca di cercare quella maledetta fine, forse non credeva nemmeno più nella sua esistenza. Era prigioniera della sua stessa tela, prigioniera della sua cornice che non riusciva più a riempire di nessun colore. Kinai forse non era mai entrato in quel labirinto. Lo guardava da fuori, con aria di sfida, sicuro di poterlo attraversare se avesse avuto accanto la persona giusta. Ma la persona giusta sembrava esistere solo nei suoi sogni… Il vecchio Tico, non curandosi dell’espressione dubbiosa della gente, proseguì con il suo racconto. «Il Custode creò migliaia di gamberetti rosati. Poco a poco, cominciarono ad amare e uno dopo l’altro iniziarono segretamente ad abbracciarsi. Quando tutti i gamberetti furono uniti l’uno con l’altro, l’acqua del mare smise di muoversi. Il Custode, incuriosito dallo strano fatto, decise di togliere un po’ di onde per scoprire che cosa fosse accaduto sotto di esse. Prese un lago, lo riempì d’acqua e cominciò a bere. Man mano che beveva, dalla distesa trasparente cominciarono a spuntare cime di gamberetti abbracciati tra di loro. Si tenevano così stretti che il Custode non ebbe il coraggio né di parlargli né di dividerli. Decise invece di rendere eterno quell’amore e tramutò tutti gli “innamorati” in rocce, così che sarebbero esistiti per sempre.» Per un momento Tico sembrò commuoversi, poi proseguì. «Le montagne, signori, non sono altro che rocce e le rocce non sono altro che la somma di tanti amori. L’amore è una montagna, non esiste tempo che possa scalfirlo.»


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Così dicendo il vecchio fossile si voltò, tornò lentamente verso i confini di Nulla, lasciando alle sue spalle facce incredule e sbigottite. Kinai aveva gli occhi che brillavano per l’emozione, credeva fermamente nelle parole di Tico, aveva voglia di scoprire quel sentimento, di donarsi completamente a lui. Ma sapeva anche che non sarebbe stato facile trovare qualcuno con cui condividere tutto questo. Isis, invece, era un po’ spaventata e un po’ scettica nei confronti di quelle parole. Sapeva cosa voleva dire farsi male con l’amore e quanto fosse difficile, poi, crederci di nuovo. Quando cominciò a nevicare tutte le persone andarono a ripararsi nelle loro abitazioni. I ragazzi dell’orologio di ghiaccio tolsero i pattini e uscirono dal cerchio, così il tempo si fermò, completamente coperto di bianco infinito. Isis, che non vedeva la neve da tanto tempo, prese la slitta e cominciò a salire verso le cime dei prati di Nulla. Chissà se da lì avrebbe trovato i confini sconosciuti di quel paese. Se li avesse trovati, forse, avrebbe anche potuto provare a superarli. Nello stesso momento Kinai, entusiasta della prima nevicata, cominciò a correre verso l’aria pura, verso i prati che da un momento all’altro sarebbero diventati enormi distese di bianche nuvole. Mentre salivano nella stessa direzione, a entrambi parve di sentire un richiamo lontano che li invitava a seguire un sentiero appena nato, mai provato prima da nessuno. Il sentiero Via Lattea sembrava eternamente lungo. Ogni suo fiore era una stella che la neve ricopriva piano piano. Code di comete creavano un bosco quasi magico. Isis si chiese se non fosse tutto frutto della sua fantasia. Trascinava la slitta tenendo gli occhi spalancati verso quelle incredibili meraviglie. Chissà, forse, se in quel momento avesse avuto lì la sua tela, sarebbe riuscita a dipingere qualcosa… Kinai correva veloce, curioso di vedere dove portava quello strano sentiero. Arrivato quasi alla fine si trovò davanti a un cancello di sasso che sbarrava la strada. Era alto, altissimo, la fine si nascondeva in mezzo alle nuvole di neve. Ma appena sopra a esso, un arcobaleno faceva da ponte tra una parte e l’altra del cancello. Si vedeva l’inizio ma non la fine. Kinai senza paura cominciò a risalire i colori, sempre più in alto, curioso di scoprire cosa c’era dall’altra parte. Dalla cima l’arrivo non era ancora visibile, allora cominciò a scendere, cautamente, con un brivido di gioia che lo rendeva ansioso di scoprire quale sorpresa gli avesse riservato la fine del sentiero. Ai piedi dell’arcobaleno si ritrovò davanti a una bellissima cascata che


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andava a cadere in un grande lago trasparente. Dietro a esso delle rocce salivano verso il cielo ma ancora una volta le nuvole impedivano di vedere il paesaggio nella sua totalità. Nello stesso momento Isis si trovava al lato opposto del ponte arcobaleno. Anche lei curiosa di scoprire cosa c’era oltre il cancello di sasso cominciò a salire quei colori ma, al contrario di Kinai, aveva paura. La spaventava non riuscire a vedere l’arrivo, così camminava lentamente, fermandosi ogni tanto a riguardare la strada percorsa, pensando se non fosse il caso di tornare indietro. Ma quel richiamo lontano la invitava ad andare ancora avanti. Arrivata in cima, la paura si fece più forte. Si trovava in bilico tra una parte e l’altra, sapendo quello che avrebbe lasciato ma non quello che avrebbe trovato. Decise comunque di scendere, lasciando la slitta in cima per riprenderla dopo. Era quasi arrivata alla fine quando improvvisamente, distratta dal vicino rumore della cascata, inciampò in un pezzetto d’indaco e cominciò a scivolare lungo l’arcobaleno girando su se stessa. Chiuse gli occhi per non guardare, finché non andò a scontrarsi contro qualcosa. Kinai, che era tranquillamente seduto sulla neve a guardare il lago, sentì un colpo dietro di sé. Qualcuno era caduto improvvisamente nella sua vita. Si voltò e vide dietro alle sue spalle una ragazza impaurita che con delicatezza si toglieva la neve dai capelli. Appena Isis alzò il capo, incrociò gli occhi scuri di Kinai. In quel momento il paesaggio cambiò aspetto. Le nuvole cominciarono a spostarsi, il cielo a schiarirsi, nel lago iniziò a riflettersi il volto di due montagne che facevano da culla alla splendida cascata, ora popolata di fate e baciata dalla luna. Tutto quello che avevano davanti agli occhi apparve d’improvviso più bello. Kinai le sorrise. Isis lo guardò e il suo animo si fece più sereno. Rimasero a guardarsi per alcuni minuti. I loro cuori dialogavano in silenzio. Si stavano conoscendo attraverso quello che non dicevano, come se nessuna parola fosse servita a tradurre il legame che si stava creando. Lei sembrò perdersi nella profondità degli occhi di Kinai, le infondevano tranquillità e quasi le sarebbe piaciuto perdersi abbracciando quello sconosciuto. Spaventata dalle sue stesse emozioni, abbassò lo sguardo arrossendo, mentre lui continuò a fissarla. Era affascinato dalla purezza di quella ragazza. La sua timidezza e la sua tenerezza erano disarmanti. Kinai non sapeva cosa


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dire, lei non sembrava intenzionata a parlare. Allora prese della neve e i fondali scuri del lago. Cominciò ad ammassare uno sopra l’altro i fiocchi, a modellare con le mani qualcosa che potesse sembrare a un pianoforte. Con i fondali vi dipinse i tasti e con il rumore della cascata creò la musica. Ecco, ora Kinai sapeva come parlare. Appoggiò le sue mani sul piano di neve e cominciò a cantare. La sua anima tirò fuori le parole più belle e la sua musica raccontò quello che nessuna parola avrebbe mai potuto esprimere. Kinai non conosceva Isis ma la percepiva. Sentiva l’essenza di lei intorno a lui e più la sentiva, più capiva che non avrebbe più potuto farne a meno. Ancora una volta Isis si perse guardando il ragazzo suonare. Avrebbe voluto alzarsi e andare via ma non ci riusciva, qualcosa di sconosciuto la legava a lui e non poté fare altro che rimanere lì, immobile, lasciandosi cullare da quella dolce voce. Quando Kinai finì di suonare, si voltò verso Isis che abbassò ancora lo sguardo. «Ciao, io sono Kinai» le disse, stringendole delicatamente la mano. «Io mi chiamo Isis» rispose lei intimidita. «Piacere! Di dove sei?» «Di Nulla! E tu?» «Cosa? Ma sei proprio di Nulla? Anch’io! Possibile che non ci siamo mai incontrati?» «Sì, Nulla non ha confini!» Isis si chiese come mai il destino li avesse tenuti vicini per tanto tempo senza farli mai incontrare. «Eppure mi sembra d’averti già vista…» «Non saprei… eri forse all’incontro col fossile Tico?» «Sì! Anche tu?» «Sì, ma ero un po’ in disparte, la confusione non mi piace.» «Dai! Anch’io!» A Kinai parve di ricordarla, seduta sul prato opposto al suo ma non ne era sicuro. Tra i due ricadde il silenzio. Nessuno sapeva più che dire. In certi casi non serve dire nulla. Sorrisero. Forse entrambi si stavano chiedendo come mai si trovassero lì ma dentro di loro conoscevano già la risposta e così non domandarono niente. «Andiamo insieme fino alle montagne?» le disse Kinai. «Sì!» rispose Isis entusiasta. Il sentiero Via Lattea proseguiva sempre più bello man mano che si avvicinavano le rocce. Ogni passo era una


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sorpresa. Isis era serena e dentro di sé sentiva che quel ragazzo era speciale. Camminava dietro di lui, ma a ogni sua difficoltà Kinai si girava e tornava da lei, aiutandola sempre, in ogni modo. Quando arrivò la notte, il ragazzo trovò un prato di foglie dove fermarsi a riposare. Non sapeva quanto fossero lontani da Nulla, ma era sicuro che avrebbero superato tranquillamente quella notte. Isis si sdraiò sulle foglie. Kinai la guardò. Sorrideva ma aveva gli occhi malinconici. Forse sorrideva per lui ma dentro, quel buio, la spaventava. Decise di non chiederle nulla e si sdraiò accanto a lei. «Hai visto? Questa notte non è poi così buia» le disse. «Sì che è buia, come tutte le altre notti che ho visto!» rispose lei pessimista. «Solo perché nessuno ti ha mai fatto vedere le stelle.» Isis non si aspettava quella risposta. Le stelle. Si era quasi dimenticata della loro esistenza. Era scappata così tanto dalle notti che quasi non ricordava più quello che potevano essere. Sicura della presenza di Kinai, si alzò dalla coperta di foglie e andò dove gli alberi cominciavano a diradarsi. Facendo un grande sospiro, sollevò gli occhi verso l’alto. Un cielo infinito di luci si mise a scorrere davanti a lei. Ogni stella era una punta di bianco che andava dipingendosi sulla sua tela. L’emozione fu così grande che per un momento si sentì mancare. Indietreggiò involontariamente di un passo, dietro di lei c’era Kinai a prenderla tra le braccia. I capelli di Isis profumavano di cielo appena sfiorato, la sua pelle di vaniglia e lui non poté fare a meno di avvicinare la sua guancia a quella di lei. Era morbida come la neve. Le accarezzò la pelle con la mano, poi la guardò dritta negli occhi. Isis si sentiva protetta in quell’abbraccio, nemmeno la notte sembrava poterle fare più del male. Così si lasciò trascinare… Quando le loro labbra si sfiorarono, una stella cadde dal cielo. Forse uno dei due stava sognando, o forse entrambi stavano realizzando un sogno. In quel momento dal sentiero Via Lattea si aprì una nuova via, una via che solo dopo un bacio poteva nascere. Sei stelle creavano un nuovo sentiero di luce verso una meta che non si vedeva ma si percepiva nell’aria. Kinai si sentì inondato di felicità e senza pensarci saltò sulla prima stella. “Vieni a vedere che meraviglia” gridò. Isis titubante si guardò intorno alla ricerca di un passaggio più semplice.


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Non sembravano esserci altre vie. Voltò lo sguardo verso Kinai. Sorrideva di un sorriso che chiamava un altro bacio. Allora si fece coraggio e saltò anche lei sulla stella. Era più grande di quel che sembrava da lontano. Al centro c’era una sorta di piccola baita circondata da un boschetto. «Possiamo passare qui il resto della notte» disse Kinai. Isis aveva sempre sognato di dormire in mezzo alle montagne. Mentre raccoglievano la legna per il fuoco, sopra di loro qualche angelo cominciò a piangere. Milioni di gocce ricoprirono i loro respiri, ma nessuno dei due sembrò curarsi di quella pioggia. Ancora una volta le guance si ritrovarono a scivolare l’una sull’altra. Il loro abbraccio li avrebbe protetti da ogni temporale, nessun fulmine avrebbe osato spezzare quel bacio, nessun tuono avrebbe fatto più rumore delle loro labbra che si scontravano. «Andiamo avanti ancora, adesso!» sussurrò Kinai. «Ma piove, si scivola… non mi fido» gli rispose incerta Isis. «Ti tengo la mano io.» Negli occhi della ragazza si leggeva la voglia di continuare, nel suo cuore la paura di farsi male. Ma nella profondità dello sguardo di Kinai, Isis vedeva solamente sincerità, così gli tese la mano. Il ragazzo la prese piano ma con decisione, lasciando che le dita si scontrassero tra loro come rami mossi dal vento. A Isis sembrò di essere il pianoforte suonato delicatamente da Kinai e l’emozione che provò fu come musica: incontrollabile, improvvisa, inaspettata. Per un momento ebbe l’impulso di fuggire, ma quel calore era come aria pura e Isis voleva solo respirare. Non fu difficile saltare sulla seconda stella. A Kinai sembrò di sognare. Più stava accanto a lei, più voleva lei… la guardò perdendosi nella sua purezza, non la conosceva ma già sapeva che era bellissima. La prese d’improvviso tra le braccia, la strinse forte, glielo doveva dire… «Ti voglio bene.» FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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